V
San Pietro, Musei e
Gallerie
Come potrebbe
riuscire brutta l’umanità a Roma, con i capolavori d’arte, che possiede in
copia e tesoro stragrande!
Per vedere
la prima maraviglia di Roma, mi sono incamminato verso il Vaticano. Sono
sboccato nella piazza di San Pietro, Duca, anzi Principe degli Apostoli.
Mi sono sentito circondato da due branche di colonnati; perché San Pietro
discende a pigliare la piazza con due ranfie di colonne. Pare un granchio
enorme.
A prima giunta, lo dicono tutti che San Pietro non pare una grande cosa.
Anzi, il mio segretario comunale, che fu seminarista a Vercelli, sostiene
ancora adesso che gli aveva fatto più colpo il duomo di Vercelli, il quale è
veramente una imitazione di San Pietro.
Per entrare in San Pietro, bisogna alzare un telone così pesante che, a
manovrare con esso, sarebbero appropriate le corna dei bufali.
Penetrati dentro, ci trovammo non in una chiesa, ma in una esposizione
universale di chiese; perché le cappelle che si aprono da una parte e
dall’altra della navata maestra sono esse stesse cattedrali.
In una di queste cappelle si cantava e si rappresentava una funzione
religiosa. Non ho mai vista una mimica sacra così fatta. Un sacerdote si levava
dal suo scanno: andava a toccare, ad abbracciare un altro sacerdote, e questi,
alla sua volta, un altro, e così di seguito.
I cantanti dell’orchestra avevano il rocchetto ecclesiastico e i baffi e la
cera da buontemponi borghesi. Il mio segretario aveva visti da un pezzo quei
tipi nei frati dell’opera la Favorita.
Le statue in San Pietro hanno tutte spallaccie da San Cristoforo, e piedi
proverbiali da apostolo o da gran sultano, come dicono al mio paese.
A certe nudità statuarie i moderni hanno messo una camicia di pudore
forzato, fabbricata con lamiera imbiancata in modo che simula il marmo. Per
accorgersi della sovrapposizione, bisogna tentennare e far suonare con la nocca
quella copertina.
A me San Pietro ispirò poca devozione; e al mio segretario comunale ne
ispirò di meno; imperocché, in un momento di distrazione, egli trasse fuori dal
taschino del pastrano l’astuccio dei sigari, e, senza un mio pizzicotto, ne
avrebbe abboccato uno senz’altro.
Altre chiese sono più profane di San Pietro, per esempio, San Paolo fuori
delle mura.
È una vera sala da ballo, con due ale fatte apposta per il mormorio di una queue
e con un pavimento lucido degno di riflettere gli inchini delle quadriglie
e i circoli di un valts.
Il cupolone di San Pietro visto da vicino non fa effetto.
A guardarlo in piazza sembra accasciato dietro il frontone della Chiesa. Ma
dilungatevi; la cupola cresce. Dilungatevi ancora; la cupola si innalza
vieppiù, vi insegue... Fantasma classico.
Vista dalla campagna, la cupola è una immensa mitria da vescovo
antidiluviano, posta sul capo di questo mastodonte che è San Pietro.
Sembra una minchioneria da nulla tirare una bella linea sull’orizzonte. Vi
credete da tanto voi altri; e quasi vorreste subito farne la prova con il
vostro indice.
Eppure una linea, una curva sono il segreto del genio e della bellezza di
Michelangelo, di Cleopatra e di Orsolina, la nipote del mio prevosto.
A proposito di nipoti, dicono che se il nipote Tevere allagasse Roma dalla
sommità di monte Pincio al cucuzzolo di monte Mario, come faceva un volta il
Tevere padre Ozio, resterebbe scoperto il lanternino della cupola di San
Pietro.
Prima di visitare un alloggio si dovrebbe vedere il .padrone di casa.
Invece io ho visto le cappelle, le loggie, i musei e le gallerie del Vaticano,
senza vedere il Prigioniero del Vaticano.
E le ragioni per cui ho fatto questo sono semplicissime. Anzitutto mi
spiace disturbare la gente senza necessità; e poi i miei amministrati non sono
tali, a cui possa portare un pugnello di paglia facendo loro credere essere un
campione di quella su cui dorme il Prigioniero.
Da ultimo, se io avessi veduto il Papa, quale diritto avrei avuto ad
intitolare le mie note; Un viaggio a Roma senza vedere il Papa. Quest’argomento
finale mi sembrò proprio perentorio, come mi sembra che dicano gli
avvocati; ossia uno di quegli argomenti che ammazzano il bue senza lasciarlo
più rifiatare.
Una volta io detestava i musei e le gallerie, perché mi facevano venire una
spranghetta nella testa, al pari delle fiere, degli organini e delle alzate di
gomito.
Ebbene il Vaticano mi ha convertito ai musei e alle gallerie.
I suoi quadri sono pochi e buoni più che i versi del Torti; e perché sono pochi
non vi frastornano, e perché sono buoni vi tengono un pezzo davanti a loro, e
vi mandano via con un’estasi riposata.
Nel solo cortile del Belvedere si trovano dentro le celle di un castelletto
sei meraviglie della scultura mondiale, che valgono le sette barbe dei sette
savi della Grecia; il Laocoonte, l’Antinoo, l’Apollo, statue antiche, e
poi il Perseo e due gladiatori del Canova.
Il popolo delle altre statue antiche, disseminate per i corridoi e le sale,
esalta anch’esso: quelle statue fanno vedere chi fossero veramente quegli
antenati più che non lo facciano vedere le storie e le commedie togate.
A mirare quel marmo giallo come cera per il vecchiume, quelle troscie di
nero, che rigano i fianchi delle statue gialle, come per una malattia cronica, a
guardare quelle teste snasate, quei mozziconi di braccia e di gambe, si
ricostruisce un mondo morto...
La fantasia soffia della vita, del rosso, del sangue su quel giallo, su
quel nero, completa quei nasi, quelle braccia, li agita, li fermenta; fa venire
innanzi delle donne, degli uomini, che avevano passioni, diritti e doveri
diversi dai nostri.
Oh che ghigno falso hanno quei Cesari?
Che colli grossi, grassi e torosi! Come stanno da padroni e da machioni,
avviluppati nella loro toga rossa di porfido, o nel loro paludamento rigato di
marmo cipollino!
Che mostaccioni da fontana hanno quegli eroi, quei semidei! Quali teste
pecorine! Come erano gagliardi e salaci quegli Dei intieri! Paiono torelli.
Che mazze, da voltare asini, portava Ercole!
E i muscoli e i gamboni dipinti di Michelangelo?
Quali pieghe! Le sue pieghe hanno l’andazzo di un’orifiamma, che corra
sventolando in un regno soprannaturale, nell’Inferno, nel Purgatorio e nel
Paradiso.
Come è venusto, aitante, intriso di antichità e di nudità il Canova!
A voler dare le prime impressioni c’è da ammattire - c’è da rabescare
spranghe storte di bambino che balocchi con la penna, senza essere ancora
andato a scuola.
Che musica e che amorini di dipinture e di nomi: Raffaello, Giulio Romano,
il Domenichino, il Guercino, lo Spagnoletto, e Donatello, e Pierin del Vaga!
Io ripeterei tutto il giorno il nome di Pierin del Vaga; ma non lo
tormenterò con nessun dramma, come ha fatto - mi fu detto - un certo signor
Proto di Maddaloni.
Dopo il Vaticano, non potei frenarmi; ed irruppi a visitare i musei e le
gallerie del Campidoglio, e le gallerie Borghese, Barberini, Pamphily-Doria,
ecc.
Devo confessarvi che io, negli anni scorsi, dopo lunga dimora nel villaggio
fra i bilanci municipali e i colloquii sui travi d’estate e nella farmacia
d’inverno, io, sissignori, ho dubitato parecchie volte del Bello e dell’Arte; e
certe volte, guardando un rosone di tappezzeria, una litografia di un almanacco
da muro, o un figurino della moda, ho esclamato dal profondo di me stesso: Chi
sa non risieda qui su questo pezzo di carta, su questo almanacco, su questo Tesoro
delle famiglie, il Bello tanto quanto nelle gallerie famose e nei musei!
Chi sa che Raffaello, Michelangelo, Leonardo da Vinci, Murillo, non siano
finzioni dell’economia umana, come l’arcivescovo della diocesi, il quale ha una
testa più debole del mio cappellano; eppure egli è arcivescovo, mentre il
cappellano è cappellano!
Ebbene se a qualche mio collega di villaggio spunti nella mente questo
dubbio fra le fatiche dei bilanci o all’accademia del trave o della farmacia,
per levarselo venga a Roma, portandosi sotto il braccio il volume vecchio di un
giornale di mode.
E confronti i figurini della moda con il San Sebastiano, di Guido
Reni, e con la Sibilla, del Domenichino.
Oh si avvedrà della differenza! I figurini, che pure parevano belli e
irreprensibili nel giorno in cui comparvero, dopo due anni diventano ridicoli;
fanno degli angoli e delle smorfie buffe, di cui non si sospettavano neppure
capaci; appariscono musi, pasticci, minchionerie inanimate di gesso e di
sapone. Invece il San Sebastiano e la Sibilla sono tuttavia, dopo
il trascorso di centinaia d’anni, e saranno sempre fino alla consumazione dei
colori e della tela, culmini di bellezza mascolina e femminina.
Oh nell’arte non si può essere scettici! Bisogna credere al bello di ogni
tempo e di ogni luogo, al bello assoluto e oggettivo, come diceva il mio
professore di metafisica, il quale, poveretto lui! aveva la testa della forma
di una tabacchiera e di una bruttezza assolutamente assoluta e oggettiva.
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