VIII
Incomincia la storia di un ciociaro
e di una ciociara
Frastornato dalla
poesia dei fantasmi artistici, e imbizzito per la prosa del mio segretario
comunale, non seppi più infilare la scala della trattoria del Falcone, dove
soleva rifocillarmi; e mi trovai, senza avvedermene, seduto sopra una pancaccia
in una Osteria di cucina, anzi di cocina; perché l’iscrizione
dell’insegna diceva precisamente così: Spaccio di vino padronale de’
Chastelli romani con Ostaria di cocina.
L’osteria di cucina a Roma tiene il luogo di mezzo fra la trattoria e il
minestraro, Mescita di minestre, come direbbesi in Toscana: ma a Roma
finisce quasi tutto in aro: Minestraro, bavullaro, ventaliaro, coronaro,
scatolaro, immondezzaro, ecc.
Anche le trattorie dove bazzicano eziandio senatori e deputati, come il Falcone
e la Rosetta - intendo le trattorie proprio romane de Roma, lasciando
mancomale in disparte le sublimità esotiche di Spillmann e comp. - non peccano
per eccesso di eleganza.
Per esempio, al Falcone, i camerieri portano ancora il berretto
bianco, e la giacchetta bianca da cuochi, costume che credo abbiano già smesso
persino i tavoleggianti della Croce Rossa al Santuario di Oropa.
Per descrivere
l’osteria di cucina, in cui sono entrato io, sento il bisogno di ritirare
indietro la sedia dal tavolo, come dinanzi alla memoria di un raccapriccio e di
un ribrezzo.
Al fondo di uno stanzone unico, la lucciola di un lumicino ardeva davanti a
un quadretto della Madonna; perché la Madonna a Roma la ficcano nelle osterie,
nei caffè, in tutti i luoghi profani.
Per l’aria circolava un tanfo fra l’odore delle pietanze e quello
dell’acquaio.
Le panche, le tavole mandavano un rumore, un sentore di pece, di tarli e di
scricchiolii.
Per dipingere tutto ciò si richiederebbe il pennello dell’ungherese
Munckacsy.
Il peggio era la compagnia. Fra male gatte era capitato il sorcio. Io,
malgrado la mia faccia di sindaco galantuomo, correva rischio di parere alle
guardie di pubblica sicurezza un reclutante di ladruncoli, e ai ladruncoli un
agente di pubblica sicurezza travestito.
Mi portano davanti un piatto di maccheroni intabaccati di formaggio biondo.
Attraverso al fumo dei maccheroni e alle file di formaggio, vidi passare una
forma non di cacio parmigiano, ma una forma muliebre. Non potei capire, se era
una donna davvero, o un fantasma intellettuale, una di quelle spalle che
Raffaello e Guido Reni mettono alle loro Madonne.
Dopo i maccheroni mi portarono un pezzo di cinghiale. Quanti peli aveva e
quanto lunghi! Ce n’era per una chioma di Assalonne.
Frammezzo a quelle setole io vidi assiso di rimpetto a me un giovane
ciociaro.
Aveva una faccia gialla, di quelle che escono dalla porta degli ospedali e
delle prigioni.
In testa un cappello puntato, floscio e leggiero. E pure chi sa quale
fatica, quanto rompimento d’ozio doveva costare a quel giovane il levare il suo
cappello!
Egli aveva le braccia allungate sul desco e le mani strette contro il petto
sotto le pieghe del mantello, che gli avvoltolavano il collo e il busto.
Sotto il tavolo gli si vedevano i piedi infingardamente immobili, i quali
dovevano lasciare un’impronta sul pavimento allo stesso modo che la lasciano
sull’asfalto di un terrazzo i vasi dei fiori con la loro giacitura fissa.
Egli aveva mangiato, e non aveva di che pagare. Il garzone dell’osteria, un
bel fusto di giovane romanesco, con il viso condito di quella malizia birbona
che salta fuori dai sonetti del Belli, ronzava intorno a lui, e gli domandava
di tanto in tanto: - E li cutrini? -
Il
ciociaro rispondeva che qualcheduno o qualcheduna doveva venire a liberarlo e a
pagare per lui.
Intanto egli rimaneva ostaggio.
Le mosche volavano ad infastidirlo, cercando di appiccicarsi alla sua faccia
gialla da ammalato. Ed egli non aveva l’energia morale, e quasi nemmanco la
volontà di muovere le mani per pararsele. Dimorava immobile nella sua positura
e nella sua ignavia da modello. Solo oscillava, dondolava leggermente la testa
dispettosa, sospettosa e dolorosa.
E il liberatore o la liberatrice tardavano a venire.
Il povero ostaggio boccheggiava per suo consumo delle parole di dolore
selvaggio.
Il garzone seguitava a domandargli di tanto in tanto con un sorriso: - E
li cutrini? -
Sulla fronte
del ciociaro passavano delle paure, delle lagrime, e forse anche delle stille
di odio e di vendetta.
Il vino padronale dell’osteria era buono; onde io ne domandai dell’altro
per accompagnare un pezzo di cacio cavallo; vindicta fratrum, vendetta
dei frati, i quali si attaccano al formaggio quando non hanno potuto fare un
buon striscio di pietanze.
Qualche mia lettrice, misericordiosa del ciociaro e della mia anima, dirà
che avrei dovuto pagare subito io lo scotto per il poveretto e liberarlo.
Veramente io ci aveva pensato: ma certe volte un’opera buona, benché
voluta, è ritardata od anche impedita dal rispetto umano, dalla paura di fare
una cosa secondo la rettorica che non si usa più, e contraria all’economia
politica, che si usa troppo e proibisce l’elemosina - eccettuata l’economia
politica del senatore Lampertico.
E poi qualcheduno o qualcheduna doveva venire in aiuto di quel ciociaro.
Uscii dall’osteria, quasi dicendo come il Nerone del Cossa: “Mi piace la
taverna!”.
Come è diversa l’umanità, quando uno s’alza da tavola, e dal vino
padronale! L’umanità balena più nitida, più lucente.
Eppure, proferendo l’esclamazione neroniana, io mi sentiva contento di
essermi distaccato dalla pancaccia di quell’osteria.
Dimenticava volentieri la lanterna magica di crucci, che passavano sulla
fronte del ciociaro ostaggio; e richiamavo nella mente le ideine e le figurine
più gentili che mi erano capitate dinanzi nella vita. Ed andavo a rinvangare le
più lontane, come giocando alla tombola si va a scovare nel fondo della borsa
il numero più rincantucciato.
Mi fermai ad un tratto perché la vista di una donna mi diede una emozione.
Si stanno
degli anni, senza che si creda tampoco che la vista di una donna possa
commuovere.
Io nell’anno passato aveva provato delle forti commozioni, per esempio,
quando scadetti da consigliere e sentii che un forte partito di malcontenti
mi voleva far saltare. E poi provai una famosa agitazione elettorale
nell’ultima nomina di deputato. Io portava il conte Zampa contro
l’avvocato Mastica: i due partiti facevano a pigliarsi di mano gli omnibus;
ed io rimasi una mezza giornata, una lunga mezza giornata con il raccapriccio
di non aver omnibus sufficienti per i miei elettori.
Ma niuna
agitazione è paragonabile a quella che mi diede la vista di quella donna.
Mi misi i due pollici nelle aperture del panciotto sotto le ascelle, e la
osservai.
Era la stessa donna miracolosa, che mi sono sentito passare dinanzi
all’Osteria di cucina fra il fumo dei maccheroni e le file del formaggio.
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