XI
Le antichità - Le ville principesche
Anch’io ho voluto
vederle le antichità di Roma; - il Colosseo con e senza luna; le Terme di
Caracalla, dove rimane ancora qualche tratto dei tappeti e dei pesci di
mosaico, che una volta balenavano e guizzavano sotto l’acqua; ho visto le
rovine dei Palazzi dei Cesari, dissotterrate ancora in tempo per servire alla
retorica di Angelo Brofferio e del professore Giovacchino De Agostini; ho visto
la Piramide dell’epulone Caio Cestio, gentiluomo di bocca della corte
d’Augusto: le mura di Servio Tullio; i templi della Pace, della Concordia,
della Fortuna, ecc., ecc.; la Mole Adriana (Castel Sant’Angelo) che è un grosso
tamburo in muratura; i diversi archi, le diverse colonne...
Ed
anch’io mi sono procurate con la fantasia le mie brave notti e i miei bravi
giorni romani. Mi sono figurati i centomila spettatori dell’Anfiteatro Flavio,
il muoversi dei gladiatori e dei leoni, le signore romane che si compiacevano
quando un leone piegava la testa elegantemente in un assalto; le unghiate che i
sullodati leoni raspavano e scavavano come un aratro inglese, nella carne
umana; i guazzi di sangue; e poi le lavande d’acqua che riempiva la platea
dell’Anfiteatro, in cui si davano battaglie navali di artifizio... Diascolo! Ho
fatto anch’io la mia famosa retorica sotto il sullodato professor De Agostini,
che era il primo retore degli antichi Stati Sardi.
Ho detto parecchie volte fra me e me: qui può avere starnutato Cicerone;
qui Virgilio può aver domandato a Mecenate qualche sesterzio in prestito per
andare a scuffiarsi un pezzo di storione all’osteria.
Ho paragonato i laghi smaltati, dipinti, istoriati e rinchiusi, in cui gli
antichi pigliavano il bagno, con le tinozze, in cui si imbucano gli uomini di
adesso, ciliegie nello spirito; ho paragonato le gradinate enormi del Colosseo,
con i palchetti dei nostri teatri, celle da alveare.
E davanti a certi scalinoni, a certi muraglioni, a certi colonnoni, ho
conchiuso, come è impossibile non conchiudere: quella gente là doveva avere il
fiato più lungo, le gambe più lunghe, e doveva divertirsi e bagnarsi molto
meglio di noi.
Ma avrei dato un scappellotto al mio segretario comunale, il quale mi disse
con uno sbuffo di rincrescimento: - Eh! adesso non se ne fanno più di questi
Colossei e di queste Terme.
- Non se ne fanno più - risposi io; - perché adesso costa molto la mano
d’opera, dove una volta costava poco o niente; costava quasi soltanto delle
nerbate sulle gambe o alle costole degli schiavi -.
Però io preferisco i miei tempi, in cui non si hanno denari a buttar via
nei Colossei e nelle Terme; perché, in compenso, il bracciante portando delle
carrette di terra nella costruzione delle nostre strade ferrate, o portando la
secchia nell’innalzamento delle fabbriche moderne, si busca il suo nobile e sacrosanto
salario, con cui alla domenica può far cuocere il suo pollo, quel pollo che
Enrico di Francia desiderava ai suoi sudditi come il maggiore splendore del suo
regno; e mangiato il pollo, può piantarsi un garofano all’occhiello della sua
giacchetta, e uscire di casa allegro e trionfante, perché egli è cosa sua e non
d’altri, è pensiero di se stesso, di sua moglie e dei suoi figliuoli.
E poi, antichità! antichità...
Facciamo fra tutti una cosa: pigliamo il nostro buon senso con due mani,
acciocché non ci scappi, e badiamo di squattrinare il vero, secondo il suo
verso.
Antichità! Antichità! Tanto se vogliamo credere la materia sempre esistita,
quanto se la vogliamo credere creata, è certo che tutta tutta la materia, niuna
eccezione fatta, è antica a un modo; tanto è antico il mattone, che abbia
servito alla fabbricazione della torre di Nembrot, quanto il. quadrello di
carta, che io pesto adesso e che ha servito ad avviluppare una caramella
sfornata ieri. Nella lista di luce che il sole proietta da una fessura della
finestra dentro la mia camera, danzano e si accavallano antichità microscopiche
dello stesso tempo, forse peli della barba di Assalonne e certamente peluria di
un tappeto, che ha scosso or ora la mia serva.
Alla materia, dopo che esiste, non si è mai aggiunto niente e non si è mai
tolto niente. È una massa che per suo spirito e per la sua legge; si bacia e si
rimpolpetta; poi si odia o si discioglie per amarsi e aggregarsi nuovamente, e
ciò per omnia saecula saeculorum.
Se in questo viaggio circolare di forme, la materia naturalmente, o sotto
la mano e l’ingegno dell’uomo, ne azzecca una, cioè foggia una forma, che sia
utile, bella ed esemplare - la si fermi quanto si può di più, - che per sempre
non è fattibile: niuna barba di archeologo può piantare un bastone o mettere
una scarpa perpetua alla sua ruota.
Dunque le forme, che se lo meritano, si incornicino e si incastonino anche
quali gioielli, come fanno i Tedeschi, e non si lascino nella mota, come fanno
alcuni dei nostri, contenti a disseppellirle.
Ma a conservare un sasso, che non è bello, non è utile, non è esemplare,
solo perché si crede più antico degli altri, e tanto peggio rovistare i
selciati, disturbare il prossimo che vive, per cercare di queste pietre morte,
mi pare la più grossa corbelleria che si possa stillare sotto la cupola di una
testa umana.
I dilettanti di sassi si rivolgano ai tritumi scavati dalle viscere oscure
delle montagne per i lavori dei tunnels. Sono i sassi più nobili, più
gloriosi e più poetici di tutti gli altri sassi, perché, levando l’incomodo
della loro presenza, lasciarono penetrare la luce, il commercio, il vapore e la
fratellanza, dove questi signori e signore non se lo sarebbero mai più
immaginato.
Adunque i prelodati dilettanti se ne attacchino alla catenella
dell’orologio, di quei sassi; se ne riempiano bene le tasche, che non
iscomoderanno nessuno, e sentendo le loro tasche pesanti, non penseranno più a
romperle a noi.
Più che le antichità mi andarono a versi le ville dei principi romani, di
cui alcune dànno dei punti al Prater di Vienna.
Bisogna girarvi in carrozza, tanto sono estese e piene di laberinti.
Vi si trova tutto lo sfarzo della giardineria: agrumi a iosa, siepi di
verde, tagliate a colonne traiane e a cannoni sdraiati, paracarri e catene di
edera, boscaglie di aranci, fiori centenari, che somigliano piante, viali che
fanno archi ed archi di verzura, fichi d’India, peschiere, in cui guizzano dei
pesci rossi, grossi quattro volte quelli che si ammirano nelle bacheche dei
nostri pizzicagnoli, e poi vaghezze di fontane.
Vi sono dei getti d’acqua che paiono candelotti, sopra od intorno ad un
altare. Altri sbocchi di fontana vengono giù dolcemente e curvamente, formando
delle campane d’oriuolo, o delle lastre di cristallo da tagliarsi con il diamante.
Sono degne di considerazione le anitre nelle vasche e nei ruscelli
artificiali.
Quelle anitre, come stanno bene!
Pigliano dalla libertà la forza selvatica del volo, e dalla ricchezza del
guazzo il lustro domestico e civile. Le loro penne hanno dei colori da
paramento di chiesa. Esse sono canonichesse.
Eccole: tronfie, fendono il marmo grasso e verde di erba acquatica, che fa
da tappeto alla superficie della vasca; poi si fermano, voltano in su la coda a
leva per pescare un vermicello. Paiono clowns. A quante cose somigliano
quelle anitre!
Intanto i falchi passano neri sotto la volta azzurra del cielo.
In certi casotti vi sono dei conigli con occhi di agata o di amatista.
Vi sono dei fagiani, che portano delle acconciature da signore, che non ha
ancora descritto il signor Folchetto. Alcuni hanno un mantellino bianco,
che, con i suoi fiorami, striglia magnificamente la veste-sottana di seta nera.
Sugli stradoni trionfali scalpitano dei cavalli.
Compaiono dei cocchi trascinati da cavalli splendidi, neri di liquorizia.
I guardiani di questi giardini privati vanno in perlustrazione anch’essi a
cavallo.
Si incontrano pei viali dei branchi di seminaristi rossi o violacei, e di
preti esotici maravigliati.
Si incontrano a quando a quando delle stupende prospettive.
Si vedono di lontano sopra spianate, su profili di colline, cancellate
finissime e mezze cavallerizze di piante.
Si vedono nella campagna vicina delle stuoie di terra a gradazioni di
giallo, che si rinfocola fino al rosso della pozzolana.
Non mancano le statue greche e le memorie storiche del quarantanove.
Il mio segretario comunale conchiuse che ciò era troppo, e che il troppo è
sempre troppo, e che la ricchezza e la grandiosità di quelle ville sono
sproporzionate al concetto di una famiglia privata; tanto è vero che sono
aperte al pubblico. Quindi ruminando i suoi studi del seminario, e le letture
delle sue gazzette e delle leggi e decreti, che esistono nell’archivio comunale
di Monticello, egli seguitò a borbottare, che quelle ville potevano far nascere
l’idea di comunismo, di leggi suntuarie, o per lo meno di una legge di
espropriazione per utilità pubblica.
Io, quale primo magistrato di un comune, eletto dal popolo e ufficiale del
governo, mi credetti in obbligo di redarguire il mio segretario comunale, anche
lui uomo pubblico e rivestito della fiducia pubblica per le sue teorie avanzate
e retrograde, e lo invitai categoricamente a vergognarsi dei suoi discorsi.
Egli acconsentì agevolmente alla mia istanza; onde l’incidente fu chiuso
ed esaurito, e non gli si diede più oltre passo, evasione ed evacuo,
come scrive il mio signor segretario nelle lettere che io sottoscrivo.
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