XII
Minuzie di Roma - e poi veduta
compendiosa dal monte
Pincio
Quando, - stanato
al ministero dell’Istruzione Pubblica il regolamento per i macelli pubblici di
Monticello - io ricevetti dal parroco la lettera che mi chiamava urgentemente
al paese, volli ancora una volta godere Roma in compendio, guardandola dal
monte Pincio.
Giunto alla spianata del monte, io dissi a Roma:
- Non
muoverti! ti guarderò di qui a qualche minuto; risaluterò i busti che fanno da
paracarro nei giardini del Pincio -.
In quei busti sono raffigurate tutte le cosiddette notabilità della
storia e della cronaca italiana, da Pitagora ad Urbano Rattazzi.
Mentre passeggiavo davanti a quei busti, riepilogavo certe piccininerie e
minchionerie di osservazioni fatte da me a Roma: proprietà di linguaggio -
intitolazioni di botteghe - incontri e sagrati popolari et similia.
Mi ricordo che allora mi ricordai come i carradori più fini a Roma si
chiamino facocchio, e i ferravecchi di stracci, i quali stracci
non sono ferri, si chiamino più propriamente robbivecchi. Mi
venne in mente il titolo di un’osteria: Me la fumo.
Nacque da
ciò, che il Papa un giorno passò davanti quell’osteria, mentre l’oste se ne
stava sulla soglia fumando la pipa; e gli domandò: - Che cosa fate? - E
l’altro: - Me la fumo -.
Ricordai i barocci campagnuoli con le cuffie da suggeritore, che servono da
ombrello e da guanciale ai contadini. Rammemorai le viuzze sanguinolenti per le
litanie di capretti scorticati e penzolanti nell’apertura delle botteghe; - e i
latinismi restati ai padroni di casa, che mettono l’est locanda in luogo
dell’appigionasi.
Questi proprietari usano eziandio far scolpire il loro riverito nome in una
lastra di marmo sul frontone dei loro stabili insieme con l’avvertenza, che la
casa è libera da ogni peso e canone.
Ciò deve
fare molto comodo ai giovanotti, che intendono sposare la figliuola del
proprietario.
Ricordai
la luridezza del Ghetto di via Fiumara, in cui si trova sempre una baruffa di
megere scarduffiate e su cui si fermò la penna d’oro (così non si limitasse ad altro
che a scrivere!) di Emilio Castelar.
Ricordai i portogalli capati - il caffè da due soldi - i friggitori
pubblici - il giuoco della passatella, in cui i giuocatori si passano
l’un l’altro un bicchiere di vino - la pietra, su cui pose le ginocchia San
Pietro, quando i demoni portarono Simon Mago per aria - gli errori della
grammatica romanesca, che fa dire noi andassimo, noi venissimo
per andammo, venimmo - le grandiose fontane, che coprono frontoni di
palazzi - i laghi d’acqua e le pozzanghere delle vie quando piove; imperrocché
Roma, la città della Cloaca Massima, ha pochissimi acquedotti sotto le vie;
onde l’acqua rigurgita e si riversa dai canali delle gronde in brutte cascate
fra i piedi dei passanti, come da un acquaio.
Quante contravvenzioni farebbe a Roma il mio inserviente comunale di
Monticello!
Non dimenticai le mostre del bucato sui balconi delle vie principali, e da
ultimo la retorica e l’atrocità delle bestemmie.
Un giorno sentii disputare due mercanti di campagna presso Santa Maria Maggiore.
L’uno stupito, perché l’altro ricusava credere ad una sua asserzione, aperse le
braccia, e disse: - Apritevi, tombe degli avi miei! - E il secondo di rimbalzo,
giù una maledizione non solo all’interlocutore, ma anche ai mortacci sui.
Codesto accrescitivo dispregiativo, che risale agli antenati, come la
nobiltà chinese, mi parve il non plus ultra dello scettico e del
mordente.
Ci sono altre cianfrusaglie da ricordare?
Io ne ebbi abbastanza di quelle lì, che ho affastellate alla rinfusa. Poi,
come un pretore dell’antichità, abbandonai le minuzie, e mi affacciai alla
balaustra del Pincio per riavere Roma in un solo colpo d’occhio.
Roma, mancomale, non si era mossa.
Essa mi stava tutta dinanzi: un fastello di tetti, di campani1i, di torri e
di cupole, che discende dall’Esquilino a Campo Marzio.
Non mi pareva vero di trovarmi davanti la sublime, l’alma Roma, l’Eterna
Città, che mi aveva riempita la testa da giovinetto, e che io credeva
qualcosa di strano, e non una città come tutte le altre, nello stesso modo che
la donna del Berni credeva che il Papa non fosse un uomo, ma un drago, una
montagna, una bombarda.
Ed invece
Roma è proprio una città come tutte le altre, anzi da meno di molte altre in
certe miserie moderne, una città con i suoi fumaiuoli, con i suoi marciapiedi
incomodissimi, con i baracconi dei giornali e gli spacci di lucido Dubois.
Le muraglie dei palazzi e delle case, i campanili e le torri mi mostravano
dei buchi nelle finestre, negli abbaini, e nelle altre aperture.
Io domandava a me stesso, se quei buchi erano bocche di scheletro sdentato
od occhi di luce.
Non c’era verso: bisognava mi commovessi: me ne correva l’obbligo sotto
pena di una presa di minchione, o di sasso.
Ma non ci riusciva a scaldarmi. Per aiutare la mia fantasia, ripetevo nella
mente le parole più rotonde che Roma ha fatto dire agli scrittori, quelle
parole che riempiono la bocca, come una cucchiaiata di fagiuoli: Tantae
molis erat romanam condere gentem - tu regere imperio populos, Romane, memento
- Imperiumque pater Romanus habebit... Pensavo che io tenevo lì sotto i
miei occhi: genus...latinum, Albanique patres, atque altae moenia
Romae, - Capitoli inmobile saxum... ecc., ecc., e tutta la Città Omnibus,
la quale nos ha dado fa jurisprudencia con sus pretores, los municipios con
sus proconsules, la libertad con sus tribunos, la autoridad con sus Césares, la
religion con sus pontefices... pedra miliaria ecc., arco de triunfo
ecc., templo, - academia - campo de batalla ecc., ecc., una città
più famosa di Babilonia, Tiro, Gerusalemme, Atene, Alessandria, Parigi, Londra
e Nuova York, perché abraza los dos hemisferios del tiempo, el mundo antiguo
y el mundo Cristiano...
A quel focolare sono venute a buscare una fiammata le fantasie più dorate e
le più cristalline dell’Arte; Goethe, Courier, Castelar, ecc., ecc. Ed io, per
riscaldarmi, mi spettinavo con le dita i capelli, ad imitazione di quel tiranno
da palcoscenico, che per entrare sulla scena furente, cominciava a montare in
bizza, attaccando briga fra le quinte con il vestiarista o con l’illuminatore.
Ma le parole degli scrittori, che si accavallavano nella mia memoria, mi
formavano dinanzi un tutto e un niente, un punto bianco che io volevo afferrare
e che mi scappava via velocissimo.
Finalmente mi soccorse a pigliare il filo una domanda di Gioberti:
Che cosa è Roma?
Roma storicamente è quasi tutto, e soprattutto una stupenda piantonaia di
forze.
Perdoniamo il ricordo dei battibecchi cosmici, delle vicissitudini
idrauliche e plutoniche nei tempi preistorici, in cui il Monte Circello era
circondato da acque, cioè formava la famosa isola della maga Circe, cui approdò
Ulisse. Imperocché allora l’acqua salata saliva sui greppi dell’Appennino e vi
lasciava la marna di oggidì; locché, dicono, sia proceduto dalla rotta del Mar
Nero, che costituiva un lago solo con il Caspio e l’Aral; onde inabissò il
Mediterraneo, che disfogossi poi con lo Stretto di Gibilterra.
Perdoniamo i tempi, in cui i giganti battagliavano con Giove nei Campi
Flegrei, e ruzzavano insieme i monti in modo da sbalordire Shakespeare e la
Bibbia.
Risparmiamo il re Giano e il re Saturno, introduttore di una civile
eguaglianza intermittente -cristallizzata nei saturnali, in cui era lecito ai
servi sedere a mensa con i padroni.
Risparmiamo il passaggio di Ercole, che scoperchiava con uno strappo di
mano le rupi, e immetteva la luce nelle caverne dei ladri.
Cominciamo a sfoderare da Evandro; che ce ne sarà a sufficienza per i miei
studi ginnasiali e liceali.
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