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Giovanni Faldella
Un viaggio a Roma senza vedere il Papa

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  • XIII Seguita la veduta compendiosa di Roma dal Pincio
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XIII

Seguita la veduta compendiosa

di Roma dal Pincio

 

, sulle rive del Tevere, c’era una boscaglia opaca, un magnifico paesaggio di verde cupo, descritto da Virgilio, in mezzo a cui serpeggiava l’acqua del Tevere limpida e bruna bruna sotto l’ombra perpetua delle piante; credo di copiare il Purgatorio di Dante.

Fra quel silenzio verde (rubo il Bue del Carducci:)

 

“Pur ora del Tevere

Ai lidi tendea

La vela di Enea”.

 

Questi ultimi versi chi non lo sa che sono dello Zanella?

Mi sembrò di sentire il “Chi va ?” dato da Pallante, principe ereditario del regno di Evandro, ad Enea, e riferito da Virgilio, il Prati di Augusto.

Senza saccheggiare più nessuno, è certo che dagli arbusti pelasgici trapiantati in riva al Tevere e ingrassati dalla accozzaglia fattavisi intorno, pullularono quei gamboni che salivano senza ansare non solo i gradini spropositati degli anfiteatri, ma eziandio sui culmini delle montagne, e si affondavano nelle sabbie dei deserti, senza rimanervi ingambati; onde pigliarono per sé tutto ciò che si poteva pigliare allora, e menarono a Roma accaprettati dietro le loro bighe iddii, principi e popoli stranieri.

Voltaire attribuisce la maggioranza trionfale dei Romani alla loro moderazione utilitaria (il Gioberti avrebbe detto dialettica), per cui armonizzarono e si appropriarono tutto ciò che pareva loro buono, dalle navi cartaginesi alle divinità artistiche della Grecia, che si portarono nel loro Pantheon.

Sarà benissimo: ma io soggiungo che quella gente deve avere ricavato dal suo nido e portato nella testa un raggio maggiore di luce intellettuale per vincere nelle lotte darwiniane della specie.

 

Quei gamboni, a forza di camminare, si straccarono e persero l’equilibrio.

E allora, sul suolo romano, in cui si allargava stemperatamente la forma dorata dell’antichità classica, venne a piantarsi - sempre dall’Oriente - un’idea, che oso dire, senza vernice, in mezzo ai colori fulgidi, un pensiero mite in mezzo ai crudeli, umile in mezzo ai superbi, sofferente in mezzo ai gaudenti (per dire queste cose ci vuole assolutamente lo stile delle prediche); l’idea dei poveri, degli straccioni, dei servi, degli ammalati, delle femmine, l’idea che pigliava in una bracciata quattro quinti dell’umanità dimenticata, o malmenata, e li ridonava alla dignità umana, alla civiltà mondiale, in somma delle somme, l’idea cristiana.

Questa idea si abbarbicò nelle tombe sotterranee: lavorò sotto terra, come una talpa ideale e morale.

Signori! mi accorgo che la metafora è indegna. Ma vi assicuro che ne farò delle peggiori, sebbene la scusa non sia buona.

Poi questa idea sotterranea venne alla luce, molto più splendida delle mogli sepolte vive da Barbebleu. E si diffuse per il mondo, nei cuori delle serve, nelle bocche dei marinai, da per tutto, come il nome di Maria nell’ode di Manzoni: benedisse, consolò, emancipò.

 

Non sembra vero. A guardare il Vaticano, a girarvi attorno, non si riceve nell’animo molto sentimento di venerazione. Pare di girare intorno alla cura di un parroco più grosso degli altri; il quale se gli altri parroci mangiano un cappone ogni giorno e tengono al loro servizio una cuoca e un vice-parroco, egli debba scuffiarsi due capponi e due pernici al giorno, ed avere per i suoi comodi tre cuoche e due vice-parroci.

Eppure al Vaticano c’è di più di un parroco grosso. c’è il fuoco, o il perno, o la meta, secondo la parte di fisica che volete scegliere per il paragone; insomma c’è il principio, o il fine, o il la di intonazione di moltissime coscienze - di messe, prediche, incensi, collette, benedizioni, rogazioni, lacrime, missioni, inni, che ad ogni trarre di orologio voi potete figurarvi infiniti quasi in ogni parte del mondo...

 

Ma adesso ecco : sulla faccia della Roma presente, che è una crosta della antica, sono rimasti il simulacro dell’antichità classica, l’idea cattolica quasi netta dai suffumigi temporali; e poi sono venuti di nuovo la patria, la civiltà degli ordini civili, il desiderio di pulizia nelle strade; ed insieme con queste cose buone sono venute o rimaste altre niente affatto buone, come ad esempio un po’ di miseria da Buenos-Ayres, voglio dire appaltatori che ingrassano cambiando mestiere, professori di filosofia che muoiono di fame sulle gradinate delle chiese, ecc. ecc.

Del resto, sotto, c’è il Papa, il quale fa i vescovi, i cardinali e le encicliche, senza che nessuno gli dica ai né bai; ci sono i preti e i frati di ogni colore, che possono passeggiare per le vie e fumare la loro sigaretta ai balconi, senza che nessuno li fischi...

E d’altra parte il Re d’Italia, proprio quello aspettato da Dante, spesso e grosso, e vestito da generale ricottiano, con i suoi due figli, provati e tutti e due nelle patrie battaglie, raduna tranquillamente a Monte Citorio i comizi, e non i comizi centuriati, curiati o calati del popolo romano, ma i comizi universali di tutto il popolo italiano. E nella regione degli echi romani alla eloquenza di Cicerone andò ad accompagnarsi la voce del conte Zampa, il deputato del mio collegio, che ho portato io, e che da giovinetto ha cantato un magnifico Tantum ergo sull’organo della parrocchia di Monticello.

 

Ed insieme con il Papa e con il Re può venire trionfalmente e rimanere riposatamente a Roma un’immagine del colore di fiamma viva - garibaldino - la Rivoluzione, intendo la rivoluzione logica, quella che piaceva anche a Cesare Balbo, il quale diceva: - non serve deplorar sempre i fatti deplorabili; bisogna mutarli, ove sia possibile - la Rivoluzione che rivolgerà l’agro romano pestifero ed ozioso in un terreno sano e laborioso, cangierà parecchie locande in opifizi, e la consuetudine di vivere passivamente affittando camere mobiliate ai forestieri, nella consuetudine di vivere attivamente producendo qualche cosa, siano volumi della Biblioteca utile, o bottoni da camicia.

 

Che strano migliaccio la Roma presente!

Il terreno romano, così ferace e così dialettico, non può mentire alle nuove e alle vecchie sementi buone. ributtando le cattive

Ed io, allucinato da questi pensieri e memorie e speranze, mi sentii abbagliato negli occhi; non vidi più i fumaioli, le fronti, i buchi delle case, delle torri e delle cupole: vidi davanti a me una massa di metallo corintio, che si muoveva, tremolava, balenava, vicina a liquefarsi; e vidi sorgere da essa la statua della nuova Roma, bella come la più bella signora che venga alla domenica in carrozza alla passeggiata del Pincio, alta come la gigantessa sognata e desiderata da Carlo Baudelaire, veneranda come una Vetruria, come una Madonna...

E a quella immagine della nuova Magna parens mi sembrava proprio di toccare i capelli fulgidi, e di dare sulla fronte immensa un immenso bacio di venerazione.

 

Mi sentivo commosso.

Cacciai di nuovo nei capelli le dita delle due mani.

Sentivo una musica sottile, trasparente, ineffabile come quella delle leggi degli astri.

Mi voltai e vidi un bersagliere con le mani sotto la mantellina, con il cappello sulle ventiquattro, intento a guardare il busto di un musico illustre.

Dalla tesa del cappello gli discendeva sulle spalle un pennacchio nuovo, folto, morbido, lustro, cambiante e ricco di arcobaleni bruni. Fra quelle piume di cappone scherzava uno zefiro caldo, che ricamava, filava e trillava dei ricciolini e delle movenze.

Era da quel pennacchio che veniva a me la musica astronomica, veniva un soffio di poesia nuova e colma.

 

Mi trovai sulla rivolta del soprabito una lacrima.

Signore e signori! Posso piangere io, ora che a De Amicis glielo ha proibito la critica.

 

 




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