XIV
Attraverso la Toscana - Ritorno a
Monticello
Partii da Roma di
buon mattino per la strada ferrata di Civitavecchia. E dal finestrino del
convoglio dissi alla campagna romana, come la botta all’erpice: - Senza
ritorno -.
La campagna
romana è un mare di terra gonfia; e quei rigonfi paiono di cosa putrida. Non
c’è una consolazione di piante.
Un artista potrà consolarsi in quelle curve malinconiche e desolate. Io
sindaco campagnolo, no, corpo delle teste dei miei cavoli!
La campagna romana è intersecata da steccati, in cui pascolano, meriggiano
e pernottano mandre di cavalli vellosi e di pecore sudicie, quasi sempre a ciel
sereno e scoperto.
Qua e là si vedono dei paletti ritti, con stracci nella spaccatura della
loro sommità: sono segnali da capre e pecore.
Come si appressa il convoglio, gli uccelli fuggono a stormo, i cavalli e le
pecore scappano, trotterellano, mostrando ai viaggiatori le loro parti meno
nobili.
Adesso che scrivo, ho ancora quel trotto di bestie fuggiasche nella testa.
I bufali di rado scappano. Anche le capre fissano e orecchiano
stupidamente.
I bufali si impuntano in una posa selvaggia e artistica piena di sospetto.
Temono che il convoglio sia una cosa inventata a loro detrimento, e si
apparecchiano a salutarlo con una cornata.
Mi
piacerebbe entrare nelle teste di quei bufali; ché entrerei nella testa di
molta gente, che inimica e sospetta la civiltà.
Deo gratias! Cominciai a vedere qualche bue a lavorare la
terra.
I buoi
romaneschi hanno la cornatura lunga dei bufali, i cui rami si slanciano
nell’aria e formano una forca, una lira, un seggio da ciarlatano.
Vidi
scintillare il mare, come vi gettassero dei grani di luce. Le onde che si
avanzavano spumeggiando verso il lido parevano pecore lanose, la cui lana non
fosse stata tosata, né tinta da Giacobbe.
Un’Inglesina,
mia compagna di vettura, abbassò la cortina del finestrino, per non essere
disturbata dalle vedute del di fuori nella lettura della sua Guida.
Un’altra
mia compagna di vettura, una Tedesca, che aveva la cravatta azzurra come il
cielo di Roma, egli occhi azzurri come la cravatta, sonnecchiando, appoggiò la
sua testa alle spalle di suo marito.
Quell’atto mi fece pensare a mia moglie e mi riaccese il bruciore di
ritornare a casa, onde divenni come il destriero del Metastasio, che all’albergo
è vicino, - e più veloce si affretta nel corso.
Prima di
ritornare a Monticello, avrei però voluto studiare e goder bene la toscanità.
Invece la attraversai a brucia paesi.
Vidi appena di passata le solitudini e le macchie di Maremma, e le quercie
annose con tutte le foglie secche dell’annata scorsa, come teste di generali
austriaci con tutti i loro capelli bianco-gialli.
Nel primo caffè toscano, dentro cui misi i piedi, sentii un vocio, un
sfringuellio tale, che dubito non si senta il somigliante in niuna altra parte
di mondo.
Godei quivi ancora un’altra voluttà nuova, quella di leggere fresco fresco
della mia venuta da Roma un giornale caldo arroventato delle stizze della
città, in cui ero capitato. Quel giornale chiamava l’Europa a testimone degli
improperi che esso sfiondava contro un consigliere comunale, di cui l’Europa
non aveva nemmanco più sospettata l’esistenza, dopo che lo aveva dato a balia,
come dicesi.
Oh, come diventa mai piccola l’orbita, in cui si urticchia la vita di una
città di provincia, se la si guarda con gli occhi di un forestiere che viaggi!
Ed a questa stregua mi accorgo che la vita del mio Comune, a cui io do sì
grande importanza, sta tutta nell’uovo di un colibrì.
Vidi vendere in quel caffè, da librivendoli ambulanti, dei volumi buoni,
come il Giusti e i Promessi sposi, - nello stesso modo che nei
caffè piemontesi si vendono le scatole di fiammiferi e i fermagli da cravatta.
Uscito dal caffè mi avvenni in due bambini, che per un centino si
pigliarono a scappellotti, e poi piansero tutti e due in buon italiano
perché il centino ruzzolato in terra non si lasciava più vedere, o li aveva
corbellati tutti e due.
Udii le campane, che in Toscana hanno voci da bargello, voci guelfe e
ghibelline.
Vidi l’Arno incassato nei magnifici Lung’Arni punterellati di fanali a
perdita d’occhio; e alla sera vidi da una sponda all’altra strascicarsi e
curvarsi una filiera di lumi mobili e brontolanti. Era la famosa Compagnia
della Misericordia.
- Ah! sono una grande bella cosa questi Lung’Arni! - esclamò il mio
segretario comunale. E poi soggiunse: - Dovrebbero farne da per tutto. A
Torino, dove non si sbaglia poi sempre ogni cosa, hanno già cominciato a fare i
Lung’Arni di Po. Adesso toccherebbe a Roma di spicciarsi e dare una
buona botta ai suoi Lung’Arni del Tevere -.
In Toscana non trovai più gli arcobaleni e le curve grandiose della
romanità classica, ma finezze attiche, impiallicciature da tavolini per
gioielli, cattedrali, cimiteri e battisteri, che paiono immense scatole di
confetti.
Nei camposanti illustri rinvenni mescolati insieme grandi uomini e
minchioni e virtuose cantarine; e in quello di Pisa, dove c’è il lusso della Terra
santa portata proprio di Palestina su cinquantatre navi, io stetti buona
pezza, con il sangue pieno e battente nelle tempie, dinanzi alle famose catene
tolte dai Genovesi ai Pisani e restituite nel 1860, quando tutti gli Italiani
di buona volontà si dissero l’un l’altro il Pax tecum!
Mi ricordo che allora io era studente di rettorica, e che il professore ci
diede nell’esame dei posti mensuali per compito di composizione italiana il
tema: Scrivere il discorso che farà il sindaco di Genova nel restituire al
gonfaloniere di Pisa le catene, ecc.
Io mi trovai allora in buona vena, e guadagnai il primo posto. Chi può
immaginare la rettorica rettoricissima, che io ho allora sturato? Il mio
discorso per il sindaco di Genova doveva cominciare così: Messere, la
Discordia pazza stracca di gavazzare negli italici petti si è quetata alfine,
viva Iddio! E valga il vero, ecc. ecc.
Un’altra del segretario comunale. Egli trovò che le statue di Michelangelo
non finite ad unguem dalla impazienza del suo genio, avevano visi di
gufo ed erano bucherellate dal vaiuolo.
A me sopra ogni altra cosa bella andarono a sangue il Perseo del
Cellini e il piedistallo, su cui è posato, che formano tutti e due insieme una
sola lagrima di venustà. Il Perseo non si accorge nemmanco del bastone,
che gli brandisce incontro quel maccherone di un gigante scolpito dal nemico
del Cellini, Baccio Bandinelli.
E sopra il Perseo mi scesero nell’anima le Madonne di maiolica di
Luca della Robbia, e le Madonne e gli angeli del beato Fra Angelico da Fiesole.
Quelle Madonne non sono nemmanco donne; sono bambine che si tengono sulle
ginocchia un Gesù lattante per custodia delegata loro dalla mamma, per cortesia
sorellevole e con serietà anticipata di vezzi materni. Eppure su quei volti c’è
una trasfigurazione di Santa Infanzia che mi fece andare fuori del secolo.
Quegli angeli sono esili, rinfinocchiti, hanno il petto schiacciato, e
soffiano dentro tube lunghe, lunghe, come quelle dei musicanti nella marcia
dell’Aida. Ma hanno una testa condita di un amore, di una innocenza, che sono
benedizioni oltre umane. Poi quelle teste campeggiano dentro un nimbo, ossia un
napoleone d’oro ardente; cosicché si direbbe che quegli angeli si muovano,
nuotino nella luce del sole, come gli spiriti del Paradiso di Dante.
Dopo tante buffonerie, passatempi un’immagine malinconica, ed usatemi la
cortesia di considerarmela come malinconica.
Vicini a morire, con una gamba più di là, che di qua, se in quel passaggio
da una vita a un’altra, ci verranno delle figure, delle apparizioni a
consolarci, a darci di mano, quelle apparizioni avranno le sembianze degli
angeli del beato Angelico da Fiesole.
Da Firenze a Monticello fu una sola nottata in vapore, con dolori di
schiena, e con uno spuntino da addormentato alla stazione di Bologna, e con
chiamate di altre città fra le lineole del sonno.
Sotto i dolori della spina dorsale, io sentiva un rumore come di badili,
che dessero delle piattonate sopra strati di ghiaia - o di soldi di rame, che
si insaccassero.
Giunto al
villaggio da me amministrato, i miei occhi assuefatti alla levigatezza e alla
morbidezza della forma romana, trovarono le figure compaesane più angolose di
quello che mi sarei mai immaginato. Più angolosa di tutte, la moglie del mio
segretario comunale, che somiglia al zig-zag di una saetta del cielo, ed in
grazia dei suoi angoli riesce così sentimentale, sa commuoversi e piangere a
una recita di burattini. Meno angolosa di tutte, lo dico senza vantarmi, mia
moglie.
Adesso vi racconterò la ragione, per cui il signor prevosto di Monticello
mi aveva chiamato premurosamente all’ovile, come pecora principale.
Si trattava di un piato civile e religioso, più fiero di quello nato
dal catechismo di monsignor Magnasco, che ha scombussolata mezza Genova.
Comincerò la narrazione ab ovo contro le regole dell’Arte Poetica,
segnate da Orazio poeta Flacco.
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