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Giovanni Faldella
Un viaggio a Roma senza vedere il Papa

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  • XV Episodio finale
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XV

Episodio finale

 

I parroci della Vicaria foranea, cui appartiene Monticello, si radunano ogni tanto a fare delle conferenze teologiche sopra casi designati dal calendario della diocesi.

E le conferenze hanno luogo per turno, un po’ dall’uno e un po’ dall’altro parroco.

Il prevosto, presso cui si raduna la conferenza, è dispensato dalla discussione teologica, dovendo sopraintendere alla cottura del timballo e alla schiacciatura delle mandorle per il pranzo, che è obbligato ad ammannire ai suoi reverendi colleghi.

Or bene, l’ultima conferenza si doveva fare dal prevosto di Monticello, il quale gode nella Vicaria una fama di eccellenza nel saper rosolare un pollo al fiore di latte, facendolo venir color d’oro, e attorniandolo di fagiuoli dell’aquila, cotti nel burro, e fatti venire parimenti del colore d’oro.

I casi, su cui dovevano conferire i reverendi pastori della Vicaria, erano tre:

Se sia peccato che una fanciulla accetti una castagna da un giovinotto, e gli metta le mani nelle tasche della giubba per pigliargliela;

Se si debba credere che lo Spirito Santo, raffigurato in una colomba, abbia un becco reale, ovvero simbolico;

Se un prete, che di buon mattino, prima di dir messa, abbia fiutata una presa di tabacco, o fumato un sigaro, o colta per distrazione una fragola nel giardino e mangiatala, possa ancora celebrare.

 

Benché si fosse nel cuore dell’inverno (anche l’inverno ha un cuore, a differenza di certi freddi banchieri d’usura), il prevosto di Monticello si era messo in maniche di camicia per ordinare un pranzo in modis et formis.

Egli voleva superare se stesso nel colorire d’oro il pollo arrosto e i fagiuoli dell’aquila imburrati.

Marcellina anch’essa, la cuoca, voleva coprirsi di gloria con un budino di molti colori, che raffigurassero da una parte un mazzo di fiori e dall’altro il cane di San Rocco - tutti i colori naturali e sani, di cui nessuno potesse far venire male di pancia. E già essa pregustava nella fantasia una chiamata al proscenio da quei reverendi signori preti, che portano tutti la mozzetta violacea in processione; i quali avrebbero battuto le mani, dicendole: - Brava, signora Marcellina! Vi siete fatto un onore immortale -. Ed ella con i pugni sui galloni li avrebbe ringraziati, facendo loro un inchino da autore drammatico.

Ad Orsolina, la bella nipote del prevosto, si era riserbata una parte modesta, ma mignola (mignonne): la cottura dello zabaione.

Oh povera Marcellina! povera Orsolina! povero prevosto!

 

Quel giorno si è messo a nevicare nella valle in modo deforme.

Fioccò molto più della gamba, che il padre dello studente di Torino scrisse al figliuolo.

E poi sopra la neve esalò, uscì una nebbia grassa, fitta, che pareva un fumo di torba.

Entrava da per tutto: riempiva tutto, non lasciava vedere più nulla alla distanza di un palmo da un naso discreto.

Se ci fosse stato allora a Monticello il senatore Ferraris, son sicuro che chi avesse visto il principio della sua proboscide, non avrebbe potuto scorgerne la fine.

Si racconta che quel giorno un cane vecchio del paese, il cane del droghiere, smarrì la strada, e non seppe trovarsi a casa all’ora del pranzo, e si fermò per isbaglio al macello. Appena fu, se ritornò al domicilio nell’ora della cena, dopo che si era dileguata la nebbia.

Sembrava che le piante alte ululassero nella nebbia, come immaginò un poeta, che mi venne mostrato un giorno, mentre egli sedeva con la toga nera, con la barba nera, con il naso bianco e con gli occhi da aquila al tribunale della Consolata di Torino.

Per cagione di quel tempaccio i parroci circonvicini non poterono muoversi per venire alla conferenza di Monticello, al budino di Marcellina e allo zabaione di Orsolina.

Alle undici e mezzo antimeridiane il povero mio prevosto sbadigliava contro alla nebbia sull’uscio della Curia, su cui sta scritto: Ostium non hostium, latinetto che i parrocchiani traducono così: Oste non oste, cioè oste che dei buoni pranzi senza annacquare il vino e senza presentare il conto.

Marcellina, asciugandosi con l’avambraccio la fronte sudata per i vapori della casseruola, borbottava di tanto in tanto in cucina: - Ah! sarebbe un po’ bella, sarebbe proprio grigia, che non venisse nessuno..., dopo aver apparecchiato tanta grazia di Dio! -

E non veniva proprio nessuno.

Marcellina e il prevosto erano così mortificati che passeggiavano silenziosi per loro conto, e non avevano più nemmeno il coraggio di sbadigliare e di borbottare.

Orsolina in silenzio imbandiva la tavola di quattordici coperti.

 

Finalmente, alle undici e tre quarti, si sentì uno scarpiccìo sotto l’atrio del presbiterio.

Il prevosto si affacciò sull’uscio della sala da pranzo, e Marcel1ina si affacciò su quello della cucina. Ad ambidue si era aperto il cuore per la speranza.

Essi videro in mezzo alla nebbia nuotare qualche cosa di grosso e di nero, una balena. Pareva un gruppo di quattro o cinque preti, per lo meno di tre preti. Ed invece era un prete solo, un pachiderma con il tricorno, Don Massimo Ganassone, il priore di Micottino.

Egli andò subito a salutare la cuoca, toccandole la mano e dandole del lei, perché è massima di Don Massimo, che per pranzare bene da un prevosto bisogna prima del pranzo riverire la signora cuoca.

 

Suonò il mezzogiorno con uno scampanìo lacrimevole, che pareva piangesse il pranzo derelitto.

Dopo Don Massimo, non erano sopravvenuti altri convitati; onde il prevosto di Monticello dovette mettersi a tavola con il solo collega di Micottino. Questi gode una riputazione meritata di essere il prevosto di più grosso pasto in tutta l’arcidiocesi. È capace di mangiare e di bere per tre o quattro. Si racconta di lui, che un giorno, prima di un pranzo che si ritardava, aspettandosi ancora qualcheduno, egli nel passeggiare lungo la tavola, così per distrazione, si leccò ventiquattro fette di salame crudo.

Si racconta eziandio di lui quest’altro fatto storico-bucolico. Trovavasi in un martedì di mercato a tavola da pasto all’albergo della Botte d’Oro, in Vercelli. Essendo dieci i commensali, il cameriere servì un piatto di dieci quaglie. Ma un commensale, negoziante di riso, per ghiottoneria, o per inavvertenza, tirò giù due quaglie sul proprio tondo; cosicché Don Ganassone, ultimo a servirsi, si vide giungere innanzi il piatto delle quaglie vuoto, senza un crostino. Che cosa fece egli? Visto un grosso tacchino arrosto, già imbandito, fu lesto a porselo innanzi, dicendo: -  Lor signori l’hanno già preso l’uccello; ed io mi piglierò questo -. In effetti si mangiò tutto da sé il tacchino, lasciandone spolpato lo scheletro, che pareva l’armatura di una chiesa parrocchiale.

Quanto al bere, egli a casa sua non mette mai a tavola il vino in bottiglie; ma lo tiene in un secchione, alla destra della sua sedia, e lo tira su e lo poppa a grosse ramaiolate.

Quel giorno Don Massimo mangiò per cinque o per sei; ma non potè sbarazzare un pranzo preparato secondo l’usanza dei villaggi nominalmente per quattordici, ma realmente per ventotto. (Ah! fossero così i valori nominali della Borsa!)

Oltre a ciò Marcellina, benché ossequiata strategicamente da Don Massimo, non volle portare in tavola il budino soltanto per quell’orcio.

E Orsolina, la nipote, disse che il suo zabaione non era fatto per quella bocca da lionfante.

 

Per questi motivi il povero prevosto di Monticello restò con quattro quinti del pranzo non esitati.

Don Massimo non potè seguitare la sua opera di distruzione, avendo promesso quella sera stessa il suo intervento a una cena del maiale; imperocché (soffrano i benigni questa nota di erudizione necessaria) nei nostri paesi si celebrano con una festa in famiglia l’uccisione e la preparazione dell’animale per antonomasia.

Verso sera poi giunse alla canonica di Monticello un espresso del vicario foraneo, che con suo monito rimandava la conferenza o il pranzo dei casi al secondo martedì dopo Pasqua.

 

- Che cosa ne facciamo adesso di tutta questa roba? - disse il prevosto alla sua Marcellina, con le braccia al sen conserte, e picchiando del mento sulla bocca del petto.

- Che cosa ne facciamo di tutta questa roba? - rispose Marcellina con le mani dietro la schiena, e guardando verso i travicelli del soffitto.

(Il prevosto) - Mah! (con un sospiro schiacciato).

(Marcellina) - Mah! (con un sospiro sbuffato).

- Per me, domani invito a pranzo tutti i cantori della parrocchia...

- Misericordia! Lasciar andare il mio budino in bocca a quei canarini da ghiande! ...

- Eppure, piuttosto che vederlo andare in malora...

- Piuttosto che vederlo andare in malora...

Marcellina si rassegnò, e l’indomani i cantori della parrocchia furono tutti regolarmente invitati alla tavola del signor prevosto.

 

Vennero tutti con la testa umida, inchinandosi e fregandosi le mani con unzione ecclesiastica.

Messisi a tavola, fecero repulisti di quanto comparve loro dinanzi. E del pranzo si può dire, come di Napoleone il Grande: “Ei fu!”.

Sopra gli altri si segnalò Andrea Tirella, il quale, dopo essersi servito due volte di agnellotti, capovolse la zuppiera, e se la vuotò nel suo tondo, dicendo che voleva leggere il nome del fabbricante di quella maiolica.

Uscirono i cantori dalla canonica a corpo pinzo e barcollando allegrociter per il vino bevuto.

Giunti in piazza, un frizzo di vento freddo mise di cattivo umore Andrea Tirella, quegli che aveva mangiato e alzato il gomito più degli altri. Il quale, voltosi ai compagni, disse loro:

- Miei cari amici, vi siete accorti della brutta figura che ci ha fatto il prevosto?

- Quale?

- Ci ha tenuti per stoppabuchi; ci ha invitati a mangiar ciò che aveva già preparato per i signori parroci, i quali dovevano venire alla circonferenza del caso... E noi abbiamo mangiati i rimasugli di Don Ganassone...

- È vero - disse uno degli astanti.

- È vero - risposero gli altri.

- Non vi siete accorti - riprese il Tirella - che il pollo arrostito, il famoso pollo arrostito del colore dell’oro, era bruciato come il caffè; perché sarà stato messo al fuoco chi sa quante volte?

- Hai ragione.

- Altro che ragione! - ripigliò il Tirella. - Quel pollo credo persino avesse due teste.

- E noi minchioni...

- Più che minchioni... perché ci lasciammo minchionare da una donna. Sicuro! quella smorfiosa della Marcellina ha pigliato due polli manomessi, ed ha voluto, ha osato farne uno solo intiero, e darcelo a intendere a noi... a noi... che sosteniamo per tutto il santo anno la messa grande, il vespero e la benedizione al suo signor prevosto...

- È una cosa che non va...

- È una birboneria, è una infamità, dico io, - ringhiò il Tirella. - E il formaggio? Voi non ve ne siete nemmanco addati. Ma io ho alzato il pezzo, ed ho visto che di sotto era già stato grattugiato -.

I cantori inorridirono tutti, e si separarono di pessimo umore, dirigendosi ciascun verso casa sua. Quivi cominciarono a porgere le loro lagnanze ciascuno alla propria moglie contro i cattivi trattamenti del parroco.

 

 




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