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Giovanni Faldella
Un viaggio a Roma senza vedere il Papa

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  • VI Catalogo di un Museo fantastico classico, con intramesse moderne da ridere
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VI

Catalogo di un Museo fantastico classico,

con intramesse moderne da ridere

 

Adesso che mi trovo sotto il cielo di Monticello, il quale mi pare più basso del solito, e quasi mi leva il respiro - con le distese di neve nei campi forate dai fili di grano, con la nebbia che affiocchisce il bianco della neve, con il ghiaccio che scricchiola nel canale, con la brina che lavora della filigrana sui rami degli alberi, amo riscaldarmi nella mia fredda solitudine, non già pestando i piedi, ma evocando le fiamme dell’arte, che ho viste a Roma.

Io ho qui presenti e ardenti, come mi fiammeggiassero davvero, l’Incoronazione di Raffaello; la Trasfigurazione e la Madonna di Foligno; la Deposizione; la Madonna di Monte Luce; parecchie Mogli di Putifarre, che ruberebbero il cuore e il mantello a chicchessia; gli occhioni della Panattierina, eternati dal suo bell’amante maestro Raffaele; la Maddalena dolcissima di Guido Reni; quella dell’Albani, con un salice piangente di capelli insuperabili; l’altra squallente del Tintoretto; la Madonna tranquillina del mio Gaudenzio Ferrari, mio delle mie montagne; il San Sebastiano soprabello di Guido Reni; l’altro San Sebastiano sofferente e paziente del Caracci; i mazzolini d’Angioli dell’Albani; le figure maiuscole che grandeggiano nella Santa Petronilla del Guercino; la Santa Cecilia del Romanelli, vivida come un fiore campestre; le figure ben rosolate di Innocenzo da Imola; un terzo San Sebastiano, dolente e ben martirizzato del Perugino; le spaccature di colori che fa Lorenzo di Credi; il ritratto di Cesare Borgia, dipinto da Raffaello; che ha vellutato stupendamente quella fisionomia da Don Rodrigo; gli occhioni della Fornarina ripetuti da Giulio Romano; il troppo Garofalo e il troppo Pomarancio sparso in certe gallerie; la Danae del Correggio, uno splendore bianco di bellezza; le figure soavi e aduste di Andrea del Sarto; le sbardellate del Vasari; le scarse dello Scarsellino; le argentine di Pierin del Vaga; le zuccherine del Parmigianino; le pitture che direbbonsi miniate di Sebastiano del Piombo; la Sibilla Cumana del Domenichino e la Sibilla Persica del Guercino, in cui i pennelli cristiani fecero degli sfoghi di beltà turchesca; le grazie bambinesche di Raffaellino da Reggio; le misture del cavaliere d’Arpino; la Lucrezia nuda nudella di Elisabetta Sirani; la Madonna, tutta una santa aureola, di Carlo Dolci; la Flagellazione alla colonna di Luca Giordano; le figure di San Gerolamo e di Nettuno, che si allungano come cirri celesti nei quadri del Domenichino; la Caccia di Diana, in cui lo stesso Domenichino ha fatto esaltare la mitologia; le righe grandiose di Michelangelo da Caravaggio; le boscaglie poetiche di Salvator Rosa; quella carezza di un chierichetto che è il San Stanislao con il Bambino del Ribera (Spagnoletto); le Tre Grazie del Tiziano; Venere e Adone di Luca Cambiaso Veronese; la luce grossa e fragorosa del Giorgione; il Sansone, abbozzo potente del Tiziano; il Ratto delle Sabine di Pietro da Cortona; e cento altri diamanti; e cento altri miracoli d’arte.

Oh che stupenda pinacoteca di fantasmi mi sono fabbricata nella mia valle, senza costo di spesa! E che stufa rovente!

 

Mentre le allodole dalla capperuccia filano con un volo intirizzito da un paracarro all’altro in cerca di un palmo di terra scoperto, in cui riescono a razzolare - io richiamo in mezzo agli atteggiamenti e alle movenze colorite svariatamente, che ho annoverate di sopra, anche le pose statuarie ed i colori uniformi dei marmi e dei bronzi.

Io rivedo i Principi dell’arte che regnano nel cortile del Belvedere... Ecco, insieme con essi viene il Mosè di Michelangelo. Dal suo sguardo, dalla sua barba discende un fiume, anzi un mar Rosso di maestà.

Nella chiesa di San Pietro in Vincoli, dove hanno allogato il Mosè in mezzo a fregi papeschi, vi sono sempre dei visitatori, che stanno a contemplarlo, a succiarlo, non per minuti, ma per mezz’oraccie intere. Imperocché vi assicuro io, che si prova una seria difficoltà a staccarsi da quel barbone di Mosè.

I fregi papeschi imbrogliano un po’ il capolavoro di Michelangelo, il quale non era certamente un piatto di maccheroni bisognevole di formaggio.

Ma a Roma la fregola nei papi di ficcare la loro memoria e il loro nome dappertutto, anche dove ci entravano come Pilato nel Credo, è stata veramente senza confini. Su tutti i muricciuoli, sulle fontane, sugli abbeveratoi, sui parapetti dei ponti, e quasi potrei dire anche sulle pietre non nominabili, sta la scritta: Pius numero tale o Benedictus numero tal altro fecit, excitavit, che so io...

 

Se non appiopparono eziandio un’iscrizione al sole, alla luna e al cielo di Roma, narrando al pubblico della posterità di averli edificati essi stessi, fu soltanto perché non trovarono la scala per mandare un muratore fin lassù.

Questa frega papalina mi ricorda quella di Stefano Gallinaccio, albergatore della Volpe al mio paese. Egli, avendo fatto dare una mano di bianco alla sua osteria, e volendo spedirne la memoria ai più tardi nipoti, si raccomandò al prevosto per un epitaffio, come lo chiamava egli. Ed il prevosto fu lesto ad ammannirgli la seguente iscrizione, che l’albergatore della Volpe fece scarabocchiare a lettere d’arco trionfale: Stephanus Gallinaceus - Vulpis Diversor - Albitudinem Hanc - A Fundamentis Erexit.

Lascio i papi e l’oste della Volpe, e ritorno di trotto al mio museo fantastico.

 

Richiamo e rivedo i marmi antichi con il loro giallo di cera, fra cui serpeggiano le falde nere della vecchiaia; i nasi, le braccia, le gambe mozze; le ghigne dei Cesari; i colossi fluviali; le teste pecorine, le barbe lucignolate; il cavallo di Marco Aurelio, che non scappò alle fiere invettive di Enotrio Romano; le porpore di porfido; le cioppe di marmo screziato, che si aggiusta alle pieghe; le processioni, le lotte umane e cinghialesche scolpite sui bassorilievi dei sarcofagi; le Minerve rigide; le donne romane semplici e virtuose, quelle dal fuso e dalla spola; le sculture di mezzo genere, che già facevano capolino a quei tempi, come il fanciullo che scherza con un’oca, fanciulli che si baciano; orecchie con buchi che sentono; chiome di marmo nero su volti bianchi; e poi, frammezzo alle statue antiche, simulacri stonati di papi moderni, quindi il famoso gladiatore che muore boccheggiando verso il suolo, senza spasimi, senza rincrescimento palese, quasi per mestiere...

 

È da notarsi la calma, l’economia, l’avarizia di forme nell’arte antica: pochi tocchi, poche pieghe, che si direbbero uniformi; eppure rendono diversi pensieri, diverse figure, diverse vite.

L’arte antica, secondo il mio bestiale parere (così si esprime la modestia dei sindaci montanari), consisteva in una maniera parca di risalti ottici: eppure dava il vero.

Invece adesso si vogliono riprodurre sui quadri e peggio sulle statue tutte le linee fotografiche; e spesso si dà il falso.

 

Sentite che cosa mi è capitato nel visitare alcune mostre recentissime di belle arti.

Dinanzi a certi quadri di pittori così detti dell’avvenire, i quali hanno paura di fare dei paesaggi da paracamino e da ventaglio, mi hanno detto: questo qui è un prato; ed io ho veduta un’insalata cappuccina. Mi hanno detto: questa è una vacca, con la debita reverenza; ed io l’avevo pigliata per un mucchio di terriccio da spolverarsi sul trifoglio. Mi hanno detto: questo è un cane; ed io l’aveva scambiato per un mazzo di sigari.

Io terminerei la lite fra l’ideale e il vero, fra la convenzione e la realtà nell’arte con la transazione di un paradosso, poiché i paradossi non sono ancora considerati come reati in niun codice del mondo.

Io direi che è sempre una convenzione artistica quella che dà la realtà artistica, ossia è sempre un congegno matematico geometrico di idee quello che produce l’effetto o il sublime del vero nell’arte.

E mi spiegherò con un esempio grossolano, da par mio, da sindaco di campagna.

Un mio contadino alla caccia ha chiappato un nibbio, e come si usa da noi, l’ha appiccato in trofeo sopra un portone della cascina. Io ho fatto dipingere da un bravo pittore, il meglio della diocesi, un nibbio vivo sull’altro portone. Orbene, tutti i contadini, i quali hanno un paio d’occhi in testa, dicono che è più nibbio il nibbio dipinto che quello impiccato. Così la simulazione artistica vince il cadavere della realtà.

Vorrei che se lo attaccassero all’orecchio, i pittori dell’avvenire, e di qui imparassero che per dipingere una mosca non è necessario sfracellarne una contro la tela, non dimenticando che quando taluno si accorge di aver sbagliato, la miglior cosa che possa fare è quella di ritornare indietro, come sta scritto sul tempio dei protestanti a Torino. E io sono protestantissimo contro certi paesi dell’avvenire.

 

Il mio museo fantastico è completo.

I serpenti assaltano Laocoonte: Laocoonta petunt, stridono gli spasimi dei due bambini, muggono gli spasimi del padre, come nel secondo libro dell’Eneide.

I pugillatori del Canova aggiustano nell’aria dalle loro braccia giuste i loro pugni giustissimi. Le Madonne ninnano le loro spalle gocciolate dall’azzurro del firmamento; ninnano i loro Gesù Bambini, belli come tanti cuori, per adoperare il linguaggio della mia fantesca. Le Sibille, le Cleopatre sfavillano la loro bellezza da sultane.

In mezzo a questa vita, a questo incrociamento, a questo barbaglio caldo di meraviglie dell’arte, io perdo la bussola; e se dovessi adesso firmare un processo verbale del mio Consiglio comunale, una fede di battesimo, cioè di nascita, o un mandato dell’esattore, commetterei qualche bestialità; per lo meno verserei l’inchiostro del calamaio, invece della sabbia...

Ahi! Quasi mi capitava di farlo su questi scartafacci...

Che fortuna sarebbe stata, per voi altri!




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