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Giovanni Faldella
Un viaggio a Roma senza vedere il Papa

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  • VII La regina del mio Museo - Un evviva al Genere - Un pensiero da Erostrato
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VII

La regina del mio Museo - Un evviva

al Genere - Un pensiero da Erostrato

 

Nel ricostruire con la memoria i musei e le gallerie, che ho visitato a Roma, provo delle allucinazioni; per esempio mi sembra di diventare pontefice dell’arte, quando non sono nemmeno sotto-priore della confraternita locale di Santa Cecilia; e come pontefice mi picco di cresimare un re, anzi una regina dell’arte.

Si può dire che l’ho scoperta io questa regina per mio conto, provando un po’ di voluttà da Cristoforo Colombo.

Gironzolavo insieme con il segretario comunale in un corridoio del Museo Capitolino. A un tratto svoltammo in un gabinetto, che piglia la luce dall’alto, una specie di cappella pagana.

In fondo, in una nicchia, vedemmo una donna nuda e bianca.

Era una cosa che non si può dire: una bella, un palpito di bellezza.

Finché mondo sarà mondo, non si potrà indovinare un’altra linea, un’altra posa morbida, piacente, come quella nello spazio.

E non si minchiona!... Ficcai gli occhi sulla Guida; mi orientai...

Quella divinità era nientemeno che la Venere di Prassitele, la Venere Capitolina.

Il mio segretario comunale, che è anch’egli ammogliato con prole, - anzi con diverse proli, come rispose egli stesso una volta al sotto-prefetto - ed è prosaico finché ce n’entra, pure mi dichiarò che egli si sarebbe suicidato per quella donna di marmo.

Io uscii da quella cappella pagana; poi vi rientrai; dimoravo là immobile, tantoché il mio segretario comunale, svegliatosi dal proprio vagellamento, mi scosse, mi pigliò per un braccio, e mi trasse via di li, come una moglie del mio paese conduce via il proprio marito dall’osteria.

 

A noi quella Venere fece sì grande effetto, e ai custodi delle gallerie e dei musei, i capolavori che custodiscono, nulla di nulla. Essi passeggiano per quei corridoi con il capo chino, stropicciandosi le mani fratescamente; pensano al pranzo che ammannirà loro la moglie: se la minestra sarà di capellini o di cappelletti; pensano alle teoriche della mancia e degli stipendi, e mulinano in mente l’interrogazione: Mancia o stipendio? come uno studioso di economia politica può ruminare: Protezione o libero scambio? E rispondono in cuor loro al problema, come gli economisti di Milano: Una cosa e l’altra; ma non badano ai capolavori che custodiscono.

Se il Cancelliere del Fanfulla mi assicura di un processo di ingiuria, io vorrei ancora paragonare i custodi dei musei e delle gallerie a quelli dei serragli... No! no! poverini! li ingiurerei a torto. Nel loro poco attaccamento ai capi d’arte, c’entra non tanto la loro inettezza artistica quanto la troppa dimestichezza e pratica, che ottundono l’acume dei sensi, ossia la troppa confidenza che fa perdere la riverenza, quello che predico sempre a mia moglie, per regolare i suoi rapporti con la serva.

È la stessa storia del palato, che si intontisce all’uso dell’acquavite, e di certi preti di tutte le religioni, che a forza di maneggiare messer Domineddio, non lo guardano più quanto è lungo.

 

La Venere Capitolina mi fece del male: mi trasportò in un mondo che non è più il nostro.

Essa andava bene nei tempi in cui si credeva alle Ninfe, alle Driadi, alle Oceanine, in cui i fiumi portavano la barba da zappatore, e Alfeo passava sotto il mare per recarsi in Sicilia a fare all’amore con la fontana Aretusa.

Ma in questi ultimi tempi, in cui le acque servono di più ai motori idraulici che alle fantasie, quella Venere, nuda, bella, e nient’altro che bella, quella Venere oggettiva, che non sente, che non ama, che non soffre. ..ci strania, ci sconvolge, ci pone addosso dei turbamenti e delle estasi false, ci strappa alla utilità e alla moralità della vita presente. Onde io sentii il bisogno di staccare la mia mente dal pensiero di quella Venere attica e nuda, e di portarlo alle più belle figliuole d’Eva, [piemontesi e vestite] che io ho vedute nelle mie montagne: alle spose contadinotte dalla raggiera di spilloni in testa e dalla vesta di seta, ritta, e color di pavone; alle povere scolare con le dita azzurre dal freddo; alle fanciulle che piansero e guairono per un tradimento o per un patereccio.

 

Mi guarì dalla Venere, come una benedizione, l’essere entrato in una galleria di pittura straniera, specialmente fiamminga.

Mi inaffiarono di gioia quelle faccie, quelle pancie ordinarie, come si trovano in un banco o in un caffè, quei bottoni dei panciotti, che si toccano con voluttà da bambini, quelle rughe da vecchia, quegli utensili della prosa della vita, ecc., ecc., ecc. Mi trovai nel mio me, in casa mia.

E mandai dai precordi un Viva, un inno al Genere, al cosiddetto Genere, che portò la borghesia e la democrazia nell’arte, come il Romanzo lo portò nella letteratura; al Genere, infusorio bersagliere, che tocca tutto, bacia tutto, vivifica e santifica tutto; la gloria e il male dei denti; la spada con cui si conquista un regno e la pezzuola con cui una mamma netta un bambino; i balocchi di un cardinale con una scimmia; e il dolore di un pievano, a cui il gatto, rovesciando la lucerna, abbia rovinato il fascicolo delle prediche.

Evviva dunque il Genere, senza far torto alla Specie!

 

Il mio segretario comunale ed io eravamo incamminati alla Costoletta, e discorrevamo di arte, e c’infiammavamo delle bellezze che avevamo veduto nei musei e nelle gallerie che io chiamava superlative.

- Signor sindaco!

- Avanti.

- È vero che alcuni di quei quadri e di quelle statue, che anche il maestro comunale di Monticello giudicherebbe come lei di grado superlativo, è vero che potrebbero valere centinaia di migliaia di lire. ..?

- Sicuro.

- E che l’imperatrice di Russia, pochi anni fa, ha comperato una Madonnina piccola, una Raffaella di ultima qualità, per una somma enorme, e che per la partenza di quella Raffaella gli Italiani piansero e mugolarono come bambini, a cui il gatto avesse portato via mezza colazione?

- Sicuro.

- Ebbene, io invece, se fossi al posto del governo, piglierei tutti questi capi, queste gambe maiuscole da Satanasso, tutto questo sciame di angeli, queste Madonne che piegano la testa nella maniera morbida dei gatti, quando dormono, tutti questi Tiziani-Canova, e Raffaelli-Bonarroti, come diceva il cicerone, e li venderei ai governi stranieri per somme spettacolose. Con esse vorrei restaurare definitivamente le finanze dello Stato, che dalle promesse di Cavour buon’anima a quelle di Minghetti, di anima non ancora buona, - dimorano sempre nello stato cronico di quasi restaurate finanze... e vorrei abolire il macinato -.

Queste ultime parole il mio segretario comunale le pronunziò con un soffio di alterezza, spalancando certi occhioni, come avesse inventato un consorzio nazionale; ma si accorse che io mi oscurava, inorridiva, e quasi a sgombrare da me l’orrore, che egli aveva indovinato, soggiunse: - Non vorrei già lasciarli vuoti i musei, e nemmanco farne magazzini da cereali. Ma li riempirei, ordinando agli scultori e ai pittori italiani viventi i quali non dovrebbero essere strangolatori nel prezzo, quanto i defunti di fabbricare dei bersaglieri e delle Belle Gigogin da mettere in luogo degli angeli, delle Madonne e dei giganti venduti, i quali tanto non si usano più. Giurabacco! - conchiuse il segretario con una vivacità che aveva tutta la buona intenzione di convincermi - Giurabacco! Se i nostri trisavoli sono stati capaci di fare dei capolavori, i quali dopo la maturazione di tre o quattro secoli salirono al valore di milioni, chi sa perché i nipotini non saranno capaci di fare altrettanto! Chi sa che i bersaglieri e le Belle Gigogin dei nostri artisti di adesso, fra qualche paio di centinaia di anni, non abbiano a far gola alle Prussie e alle Russie, e servano a pagare i nuovi debiti, che allora avrà lo Stato! -

Io avrei fulminato, avrei incendiato quell’Erostrato di un segretario comunale: ma per non fare una scena, che chiamasse l’intervento di una guardia civica, mi contentai di piantarlo su due piedi e di spedirlo a far colazione da solo.

 

 

 

 

 

 

 




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