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Giovanni Faldella Un viaggio a Roma senza vedere il Papa IntraText CT - Lettura del testo |
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XProposta per l’instituzione di un Dickens e di un Auerbach romanesco
A Roma, sotto la cupola di azzurro tepente e dinanzi alla cupola michelangiolesca, fra le opere di Fidia, di Prassitele, e i colori e i volti delle ciociare, l’anima si adagia o sta paga nella forma dell’arte e del bello. La stessa fierezza trasteverina è più estetica che etica, o, per dirla più da galantuomo, è più artistica che morale. E questo sentimento della forma sta troppo da sé, e fa da sé più infelicemente dell’Italia di Carlo Alberto; né si cura troppo di svolgere e di mettere fuori gli altri germi dell’anima. Aspettatevi una grossa metafora. Oh! se si potesse piantare nell’anima romana il coltello dell’io barbarico, che, sotto cieli più bruschi e più bassi, va giù giù, profonda nelle anime a guisa di palombaro, e ne scava tesori riposti di bontà, di operosità, di utilità, e di molte altre cose stupende, che finiscono in à! Se si potesse rovesciare l’anima romana come una tasca o un paio di calzoni, quante ricchezze vi si troverebbero da mettere al sole! Se ne troverebbero più che in fondo al mare; perché deve essere ricchissima un’anima fusa in un ricettacolo così splendido e al crogiuolo di una storia - la più grande di tutte le storie.
Questo mi parrebbe ufficio di una letteratura romanesca allegra e scarpellina che bucasse le anime, facendo, si sottointende, loro piacere e non del male nell’operazione - vi mettesse dentro dei nuovi raggi di luce, e la rivelasse a loro stesse... E a siffatta letteratura mi sembra accomodatissimo l’ingegno romanesco. Certe arguzie, che uno scrittore settentrionale filerebbe lentamente a somiglianza di un baco da seta - un friggitore di Roma te le spiattella bravamente, senza pensarci su, e poi si volta in là, come non fosse suo fatto. Pigliate le commedie del Giraud e i sonetti maravigliosi di Giuseppe Gioacchino Belli. Che gazzarra di malizia indagatrice! Quali pitture nette, affilate, ridenti! Ma lasciamo stare, che eglino, a mio avviso, siano stati più berneschi che umoristi. Bisogna, ad ogni modo, ingrandire ed ammodernare i quadri. Ora, nell’arte, che sempre più si allarga, si avanza e si complica, importa aggiungere due ingredienti, che nominerò con parole straniere, perché portatici di fuori, il rêve e l’humour.
A proposito, se potessi, io vorrei inchiodare nella testa a tutti i professori di letteratura italiana nei licei d’Italia, che la letteratura, come la cultura in generale, non è più un monopolio italiano, ma è una ricchezza mondiale, e che dopo le strade ferrate e i trafori, hanno il dovere di saperlo anch’essi. Invece credo che in quasi tutte le nostre scuole si insegna tuttavia, come hanno insegnato a me, un balordo chez nous letterario, che pure si biasima ai Francesi, e forse esiste ancora, come ai miei tempi, un numero del programma governativo, che dichiara le letterature straniere o boreali, come le chiamano i professori, essere il Babau. Invece, secondo il mio modo di vedere, mi sembra che, senza uscire dal seminato della nostra tradizione letteraria, possiamo rimpolparci degli acquisti che fa il mondo a cui apparteniamo, sebbene Italiani. Ma nelle nostre scuole di letteratura italiana, Dio mio! che scheletri di letteratura! salvo le debite eccezioni. Orrrore, per lo meno con tre erre!
Adunque, nella nuova letteratura romanesca, io desidererei gli elementi del rêve e dell’humour; il rêve che raccoglie le cose dalla più umile realtà, dal selciato delle vie, dai pianterreni delle case ed anche dalle cantine, e le porta in su, in su, nella regione delle fantasie e delle idee; l’humour, che non ride per ridere, ma scherza per commuovere, e fa brillare negli occhi il pianto-riso, che è la luce più bella da cui possa essere illuminata una figura umana.
Ah! (lo scrivo con un soffione). Se in luogo di essere sindaco e sopraintendente alle scuole elementari di Monticello, io fossi ministro dell’istruzione pubblica, vorrei bandire un concorso per un posto da Dickens o da Auerbach romanesco. Titoli per l’esame: 1° età non maggiore dei trentacinque anni; 2° essere nato a Roma o nei luoghi circostanti; 3° conoscere la letteratura inglese e tedesca e il dialetto romanesco delle trasteverine, delle montigiane e delle vecchie streghe che si abbaruffano in via Fiumara; 4° ed ultimo - scrivere l’italiano, pressappoco come il Giusti dell’Epistolario.
Al giovane che trasceglierei, darei una buona provvisione e un alloggio nel Convento di Sant’Onofrio. Lì ci sarebbero il nome, l’ombra impiastrata a una muraglia, la gorgiera, la quercia e la. spada del Tasso per non lasciarlo tralignare dalla italianità. Quelle celle, quei corridoi, calmi e sereni - da convento, - riuscirebbero un ottimo granaio per una formica intellettuale. Di lì il poeta della prosa - scelto dal Ministero -, scenderebbe a Roma a cogliere l’epigramma, gli urti, e il cuore della gente che formicola nelle vie, scorazza negli omnibus e nelle botti dimenandosi - e fa la vita di famiglia. E questi elementi se li porterebbe a Sant’Onofrio, li pulirebbe, li renderebbe lucenti; - poi, affacciandosi alla spianata, o soltanto a una finestra, donde si vede ai piedi del convento quasi tutta Roma, agguanterebbe i pregi, i bisogni e le tacche principali che aleggiano su Roma. Così, potrebbe risuscitare potentemente e largamente in prosa la Musa del Belli; e potrebbe rendere la vita romana nei romanzi, in queste epopee moderne, borghesi, democratiche, che i professori sopra biasimati bestemmiano rancidamente ai giovani, perché dette epopee portano la cuffia e le scarpettine da modista, e i ferri da calza come le madri di famiglia in luogo del cimiero e dei coturni e dell’asta di Minerva. Vorrei che il mio futuro romanziere possedesse uno spirito alla Dickens, arguto e bonario, che penetrasse come l’aria nei buchi delle serrature, in tutte le fessure, e purificasse tutti i cantucci, soprattutto facesse dimenticare gli archi e le colonne, buone per le canzoni di Leopardi, anzi nemmanco buone secondo il Leopardi, che le mirava con dispetto spoglie della gloria antica. E vorrei che il mio Messia, facendo dimenticare gli atrii muscosi e i fori cadenti, rendesse in luogo loro care e parlanti le stoviglie e le suppellettili delle case e le più umili parti del cuore umano, che si pregiano quando un poeta ne illumina la bellezza. Vorrei infine che il poeta provvisionato cogliesse l’occasione per istillare nelle vene dei Romani un po’ di sangue settentrionale e a preferenza olandese, buono per le dighe e indicatissimo per la sistemazione del Tevere. Ma a Roma più che alle anime viventi, finora si è pensato pur troppo dai superiori alle pietre morte. Speriamo nell’avvenire e negli spintoni del generale Garibaldi.
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