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Giovanni Faldella
Un viaggio a Roma senza vedere il Papa

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  • XII Minuzie di Roma - e poi veduta compendiosa dal monte Pincio
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XII

Minuzie di Roma - e poi veduta

compendiosa dal monte Pincio

 

Quando, - stanato al ministero dell’Istruzione Pubblica il regolamento per i macelli pubblici di Monticello - io ricevetti dal parroco la lettera che mi chiamava urgentemente al paese, volli ancora una volta godere Roma in compendio, guardandola dal monte Pincio.

Giunto alla spianata del monte, io dissi a Roma:

- Non muoverti! ti guarderò di qui a qualche minuto; risaluterò i busti che fanno da paracarro nei giardini del Pincio -.

In quei busti sono raffigurate tutte le cosiddette notabilità della storia e della cronaca italiana, da Pitagora ad Urbano Rattazzi.

Mentre passeggiavo davanti a quei busti, riepilogavo certe piccininerie e minchionerie di osservazioni fatte da me a Roma: proprietà di linguaggio - intitolazioni di botteghe - incontri e sagrati popolari et similia.

 

Mi ricordo che allora mi ricordai come i carradori più fini a Roma si chiamino facocchio, e i ferravecchi di stracci, i quali stracci non sono ferri, si chiamino più propriamente robbivecchi. Mi venne in mente il titolo di un’osteria: Me la fumo.

Nacque da ciò, che il Papa un giorno passò davanti quell’osteria, mentre l’oste se ne stava sulla soglia fumando la pipa; e gli domandò: - Che cosa fate? - E l’altro: - Me la fumo -.

Ricordai i barocci campagnuoli con le cuffie da suggeritore, che servono da ombrello e da guanciale ai contadini. Rammemorai le viuzze sanguinolenti per le litanie di capretti scorticati e penzolanti nell’apertura delle botteghe; - e i latinismi restati ai padroni di casa, che mettono l’est locanda in luogo dell’appigionasi.

Questi proprietari usano eziandio far scolpire il loro riverito nome in una lastra di marmo sul frontone dei loro stabili insieme con l’avvertenza, che la casa è libera da ogni peso e canone.

Ciò deve fare molto comodo ai giovanotti, che intendono sposare la figliuola del proprietario.

 

Ricordai la luridezza del Ghetto di via Fiumara, in cui si trova sempre una baruffa di megere scarduffiate e su cui si fermò la penna d’oro (così non si limitasse ad altro che a scrivere!) di Emilio Castelar.

Ricordai i portogalli capati - il caffè da due soldi - i friggitori pubblici - il giuoco della passatella, in cui i giuocatori si passano l’un l’altro un bicchiere di vino - la pietra, su cui pose le ginocchia San Pietro, quando i demoni portarono Simon Mago per aria - gli errori della grammatica romanesca, che fa dire noi andassimo, noi venissimo per andammo, venimmo - le grandiose fontane, che coprono frontoni di palazzi - i laghi d’acqua e le pozzanghere delle vie quando piove; imperrocché Roma, la città della Cloaca Massima, ha pochissimi acquedotti sotto le vie; onde l’acqua rigurgita e si riversa dai canali delle gronde in brutte cascate fra i piedi dei passanti, come da un acquaio.

Quante contravvenzioni farebbe a Roma il mio inserviente comunale di Monticello!

 

Non dimenticai le mostre del bucato sui balconi delle vie principali, e da ultimo la retorica e l’atrocità delle bestemmie.

Un giorno sentii disputare due mercanti di campagna presso Santa Maria Maggiore. L’uno stupito, perché l’altro ricusava credere ad una sua asserzione, aperse le braccia, e disse: - Apritevi, tombe degli avi miei! - E il secondo di rimbalzo, giù una maledizione non solo all’interlocutore, ma anche ai mortacci sui.

Codesto accrescitivo dispregiativo, che risale agli antenati, come la nobiltà chinese, mi parve il non plus ultra dello scettico e del mordente.

Ci sono altre cianfrusaglie da ricordare?

Io ne ebbi abbastanza di quelle lì, che ho affastellate alla rinfusa. Poi, come un pretore dell’antichità, abbandonai le minuzie, e mi affacciai alla balaustra del Pincio per riavere Roma in un solo colpo d’occhio.

Roma, mancomale, non si era mossa.

Essa mi stava tutta dinanzi: un fastello di tetti, di campani1i, di torri e di cupole, che discende dall’Esquilino a Campo Marzio.

Non mi pareva vero di trovarmi davanti la sublime, l’alma Roma, l’Eterna Città, che mi aveva riempita la testa da giovinetto, e che io credeva qualcosa di strano, e non una città come tutte le altre, nello stesso modo che la donna del Berni credeva che il Papa non fosse un uomo, ma un drago, una montagna, una bombarda.

Ed invece Roma è proprio una città come tutte le altre, anzi da meno di molte altre in certe miserie moderne, una città con i suoi fumaiuoli, con i suoi marciapiedi incomodissimi, con i baracconi dei giornali e gli spacci di lucido Dubois.

Le muraglie dei palazzi e delle case, i campanili e le torri mi mostravano dei buchi nelle finestre, negli abbaini, e nelle altre aperture.

Io domandava a me stesso, se quei buchi erano bocche di scheletro sdentato od occhi di luce.

 

Non c’era verso: bisognava mi commovessi: me ne correva l’obbligo sotto pena di una presa di minchione, o di sasso.

Ma non ci riusciva a scaldarmi. Per aiutare la mia fantasia, ripetevo nella mente le parole più rotonde che Roma ha fatto dire agli scrittori, quelle parole che riempiono la bocca, come una cucchiaiata di fagiuoli: Tantae molis erat romanam condere gentem - tu regere imperio populos, Romane, memento - Imperiumque pater Romanus habebit... Pensavo che io tenevo lì sotto i miei occhi: genus...latinum, Albanique patres, atque altae moenia Romae, - Capitoli inmobile saxum... ecc., ecc., e tutta la Città Omnibus, la quale nos ha dado fa jurisprudencia con sus pretores, los municipios con sus proconsules, la libertad con sus tribunos, la autoridad con sus Césares, la religion con sus pontefices... pedra miliaria ecc., arco de triunfo ecc., templo, - academia - campo de batalla ecc., ecc., una città più famosa di Babilonia, Tiro, Gerusalemme, Atene, Alessandria, Parigi, Londra e Nuova York, perché abraza los dos hemisferios del tiempo, el mundo antiguo y el mundo Cristiano...

A quel focolare sono venute a buscare una fiammata le fantasie più dorate e le più cristalline dell’Arte; Goethe, Courier, Castelar, ecc., ecc. Ed io, per riscaldarmi, mi spettinavo con le dita i capelli, ad imitazione di quel tiranno da palcoscenico, che per entrare sulla scena furente, cominciava a montare in bizza, attaccando briga fra le quinte con il vestiarista o con l’illuminatore.

Ma le parole degli scrittori, che si accavallavano nella mia memoria, mi formavano dinanzi un tutto e un niente, un punto bianco che io volevo afferrare e che mi scappava via velocissimo.

 

Finalmente mi soccorse a pigliare il filo una domanda di Gioberti:

Che cosa è Roma?

Roma storicamente è quasi tutto, e soprattutto una stupenda piantonaia di forze.

Perdoniamo il ricordo dei battibecchi cosmici, delle vicissitudini idrauliche e plutoniche nei tempi preistorici, in cui il Monte Circello era circondato da acque, cioè formava la famosa isola della maga Circe, cui approdò Ulisse. Imperocché allora l’acqua salata saliva sui greppi dell’Appennino e vi lasciava la marna di oggidì; locché, dicono, sia proceduto dalla rotta del Mar Nero, che costituiva un lago solo con il Caspio e l’Aral; onde inabissò il Mediterraneo, che disfogossi poi con lo Stretto di Gibilterra.

Perdoniamo i tempi, in cui i giganti battagliavano con Giove nei Campi Flegrei, e ruzzavano insieme i monti in modo da sbalordire Shakespeare e la Bibbia.

Risparmiamo il re Giano e il re Saturno, introduttore di una civile eguaglianza intermittente -cristallizzata nei saturnali, in cui era lecito ai servi sedere a mensa con i padroni.

Risparmiamo il passaggio di Ercole, che scoperchiava con uno strappo di mano le rupi, e immetteva la luce nelle caverne dei ladri.

Cominciamo a sfoderare da Evandro; che ce ne sarà a sufficienza per i miei studi ginnasiali e liceali.

 

 




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