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Giovanni Faldella Un viaggio a Roma senza vedere il Papa IntraText CT - Lettura del testo |
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XVIFinisce l’episodio finale
Alla sera, senza dirselo l’uno all’altro, i cantori della parrocchia si trovarono tutti all’osteria della Volpe, dove l’oste e il droghiere li ricevevano man mano, risacchiando. - Bravi merli! Avete fatto San Giovanni di rilievo. Avete goduto gli avanzi di Troia lasciati da Don Ganassone... - È vero - rispondevano mortificati i cantori; e davano dei picchi dispettosi sulla tavola e facevano passare sulla loro fronte delle nuvole da congiurati. Quindi si sentirono su per giù i seguenti discorsi: - Il signor prevosto ha fatto un’azione indegna. Noi siamo bocche consacrate quanto lui... e più di lui... - Dobbiamo fargliela vedere. - Fossi così pentito dei miei peccati, come io sono pentito di aver accettato quel pranzo! - Ma non anderà a Roma a pentirsi. - Facciamolo mettere sulla Sciarpa Rossa. - È già qualche cosa; ma non basta ancora. - Certo, che non basta ancora. Perché ce ne ha già fatte troppe, e seguita a farcene. Non la finisce mai con le sue funzioni; adesso ha messo ad ogni Oremus quella coda: sia benedetto il nome, sia benedetto sul suo santissimo altare, sia benedetto invano, sia benedetto qua, sia benedetto là. In causa di quel benedetto, mi ha fatto mangiare parecchie volte la minestra fredda. E poi ci fa pagare troppo cara la cera nelle sepolture, cara come il fuoco; e non vuole nemmeno che la teniamo accesa, quando s’entra in chiesa. Quest’anno ha voluto persino cambiare la pastorale nella messa di mezzanotte. Perché lui è andato a Torino, ed ha sentito una pastorale nuova da qualche musicante-bicchierino, egli ha voluto comperarla, l’ha portata giù e l’ha data all’organista, affinché la suonasse nella notte di Natale. Dio mio! Che ciflis! Che pasticcio! Niuno ne ha capito niente. Ah! i pastori non suonano una musica così difficile. - E poi vuole fare alto e basso nella amministrazione della confraternita. - Tocca a noi mettervi ripiego. Dobbiamo noi impedirgli di fare alto e basso. Dobbiamo noi farlo camminare in riga. Dobbiamo noi fare i nostri statuti per la confraternita, e mettere per primo articolo: “Il parroco, quale membro nato, sarà escluso per sempre dalla amministrazione della confraternita...”. - Manderemo l’articolo all’arcivescovo, perché lo approvi. - E la sottoscrizione per il nuovo quadro del Sacro Cuore di Gesù? - Oh quella lì fu una mangeria del vescovo. - Taci lì tu; che sono tutti squattrinamondi alla stessa maniera. - La più bella, secondo me, sarebbe che non andassimo più a cantare in coro. Imparerebbe cosi a darci i pranzi di rifiuto. - Per me, non ci vado più. - Per noi, non ci andiamo più. - Firmiamoci tutti; mettiamoci tutti sulla carta bollata che non ci anderemo più. - No! basterà la carta semplice -. E firmarono tutti, sopra una carta da impannata, l’obbligazione di non andare più a cantare in coro. Poi: - Stefano! Un doppio litro! – Quindi: - Un altro doppio litro! - Bevettero tutti come lanzi, e fecero bere anche alla scritta di non cantar più, bollandola con gli orli di un bicchiere intrisi nel vino.
Il giorno dopo si doveva incominciare la devozione delle Quarant’ore. Il parroco si vestiva già per la funzione, quando il sacrestano corse ad avvertirlo che il coro era ancora vuoto. - Andateli a chiamare, che si affrettino quei lumaconi -. Il sacrista partì; e poscia ritornò, dicendo che i cantori erano tutti, fermi in co’ della chiesa, al posto degli studenti e dei birichini, e che non volevano muoversi di lì. Il parroco, grattandosi la testa, e allacciandosi stizzosamente il piviale: - Pazienza! pazienza! Allora, Tonio, intuona tu l’antifona. - Ma io non sono buono... ho paura... - Intuona tu, ti ripeto... del resto... - Non sono capace, non posso... - Ti do uno... - Al sacrestano fu un giocoforza piegare la collottola, e intuonare l’antifona.
Avvoltolò la lingua, richiamò nel gorgozzule tutto lo spirito che aveva in corpo, ed emise una voce. A quella voce, dal Sancta Sanctorum fino ai piedi dell’organo si diffuse per tutta la chiesa un serpeggiamento elettrico. - Che voce di pecora! - È una voce che andrebbe bene a fare la fonduta. Andrebbe anche bene ad ungere le ruote di una carrettella -. Le ragazze si coprivano la bocca con le mani per ridere fra le dita, senza scandolo. Al fondo della chiesa i cantori sul piano aventino del loro sciopero non si potevano tenere dal canticchiare a bassa voce, tanto per mostrare ai vicini come si doveva cantare. Insomma il sacrista non ebbe nemmeno un successo di stima; ebbe il peggiore successo di questo mondo per le persone serie come lui: il successo d’ilarità. I ragazzi, uscendo dalla chiesa, parodiavano la voce del sacrestano con certi versacci, che mettevano in solluchero tutto il gregge dei fedeli.
Nel giorno seguente il parroco tentò migliore sorte con il sostituire il suo massaio al sacrestano nell’intonazione dell’antifona. Il massaio fece una lunga prova tutto il giorno; studiò, ripassò le note rosse del messale, che paiono stille d’inchiostro vecchio irruginite, e le note nere, che sembrano prese di tabacco. Il prevosto ne sperava moltissimo; ma alla funzione, anch’egli, il nuovo cantore, fece fiasco, un fiasco seriissimo. Si assicura che dal coro dei ritirati sia partito contro un saeculorum del massaio nientemeno che la voce: - Brigante! - La Sciarpa Rossa narrò questo incidente, cominciando l’articolo con queste parole: “Finalmente il prevosto di Monticello, quella schiena di gesuita, quella pelle di reazionario, che ai nostri lettori abbiamo già fatto conoscere INTUS ET IN CUTE, fu svergognato, come ben meritavasi dai suoi stessi più fidi satelliti”. Fu allora che il povero prevosto mi pregò premurosamente per lettera, acciocché volessi ritornare nel villaggio a sedare quell’ammutinamento dei cantori della parrocchia.
Dopo una breve conferenza avuta con il parroco, io avvisai subito al modo di comporre quella differenza civile religiosa. Diedi un pranzo, a cui invitai il parroco, i cantori della parrocchia, il segretario e i consiglieri comunali, un pranzo originale, non riprodotto, un pranzo con i polli che avevano due gambe e una testa solo per cadauno, e con un bel pezzo di formaggio lodigiano che non aveva ancora conosciuta la grattugia. Tutti i commensali mangiarono e bevettero di buon accordo, come se niuna ruggine fosse mai stata fra loro. Prima della frutta io feci distribuire ai commensali, come ricordo di Roma, una piccola litografia colorita, rappresentante Vittorio Emanuele a braccetto con Pio IX. Poi, dopo il Caluso, mi levai in piedi, e pronunziai il seguente discorso commovente, che posso paragonare, senza peccare contro la modestia, a quello fatto da Dino Compagni al battistero di San Giovanni - ora che la cronaca di Dino Compagni va perdendo il suo credito: - Faccio un brindisi - io dissi in italiano piemontese - al signor Eusebio Capanna, assessore anziano, qui presente, perché, durante la mia assenza, tenne stupendamente bene le redini del paese, ed anche perché egli è proprietario del Caffè dell’Unione. Quindi io, bevendo alla sua salute, credo di bere alla unione di noi tutti, all’unione che ha sempre fatto la forza. Io sono ritornato da Roma, dove il generale Garibaldi fu a trovare il Re Vittorio Emanuele, e dove il ministro Minghetti andò a far visita al generale Garibaldi... Se fanno pace quelli lì, che sono pezzi grossi, domando io se non è una minchioneria che litighiamo noi, che siamo quattro gatti in un castelletto di quattro case. Via, lasciamo andare i puntigli, che sono la rovina degli individui e delle popolazioni. I puntigli sono una corda lunga lunga, che mena alla perdizione chi non lascia andare. Spero che mi avrete tutti inteso... - Sì! sì! - mi risposero tutti. - Allora per darmi a vedere proprio che ognuno mi ha inteso, prego i signori cantori del coro qui presenti a intuonare su questa tavola il Magnificat, con la loro bella voce, che mi sembra tanto tempo di non avere più sentita. - Sindaco! sindaco! questa è una profanazione - saltò a dire il prevosto. - Non è una profanazione, - ribattei io -, perché il salmo dice: Servite Domino in laetitia; ed il Signore è in cielo, in terra e in ogni luogo, e per conseguenza anche alla nostra tavola -.
Non c’è niun amo che possa tirare un cantante, massimo se ha cattiva voce, quanto il lasciarlo cantare. Con questo mezzo, sia pure egli avaro come la pietra pomice o pieno di lasciatemi-stare, ottenete da lui i maggiori sacrifizi di questa valle di lagrime: anche dieci lire in prestito, o che egli vi ascolti tutto d’un fiato la lettura di una vostra commedia di cinque atti in prosa. Quindi i cantori della parrocchia non intesero a sordo il mio invito; si levarono tutti, scostando le sedie, e raggianti il viso di buone intenzioni. Fecero una bocca rotonda e melliflua, come il bocchino di un vaso da confettiere; e alla battuta di Andrea Tirella, intuonarono: Magnificat anima me Dominum. La serva, che veniva portando il caffè, si arrestò colpita di meraviglia, con il sottocoppe in mano, sull’uscio della cucina, davanti a quel Magni-i-ficat, che rimbombava o si allargava a circoli sonori e concentrici sotto la volta del mio salotto da pranzo. Geromino Sindaco di Monticello (FINIS)
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