IN CERCA DI MORTE
Pochi anni or sono, in un vecchio
palazzo della via Recourse a Londra, conosciuto sotto
il nome di Game of chance house (casa dei giuochi di rischio),
convenivano ogni sera tutti i giovani eleganti del quartiere così detto di Reckless-men,
per azzardarvi qualche migliaio di sterline al whist o al tarocco, ma più
specialmente al diamonds-game (giuoco dei quadri).
I fashionables, i zerbini di quel quartiere, dopo aver cavalcato lungo i
viali di Regent's park, o tirato di sciabola nelle sale di Mr. Wooden, il celebre
schermitore, o gareggiato nelle corse dei boats sul Tamigi, provavano
spesso degli assalti di spleen tormentosi, degli orribili istanti di
noja; di quella noia fredda, piena, profonda, mortale, che non può essere
provata che dagli inglesi, e che ha tanta analogia col loro cielo, colle loro
pioggie, e colle loro nebbie perenni. Era naturale che essi sentissero quindi
il bisogno di scosse più vive, di emozioni più
eccitanti, e che non potendo procurarsele altrimenti, venissero a chiederle al
giuoco. Il carattere degli inglesi è freddo e pacato,
ma nel fondo del loro cuore vi è sempre qualche cosa di palpitante e di vivo;
essi lo sentono e subiscono spesso, loro malgrado, il predominio della loro
natura lenta e inflessibile: le maggiori eccentricità inglesi non segnano
sovente che il limite estremo dei maggiori sforzi che essi hanno fatto per
dominarla e per vincerla. E se è vero che l'affetto del danaro
costituisce una delle loro passioni più tenaci, il giuoco che uno dei mezzi più
solleciti per moltiplicarlo o per perderlo, deve offrir loro naturalmente una
fonte di emozioni energiche e grandissime.
Ecco perché i giovani del quartiere
di Reckless-men si raccoglievano volentieri nelle sale di Game of
chance house, nelle lunghe sere d'inverno - per scuotere la loro anima
paralizzata dall'atonia, per ritemprare in qualche modo la loro sensitività
coll'attrito dei dadi del whist, o col giuoco
pericoloso dei quadri.
Abbiamo detto i giovani, chè nei vecchi inglesi la mania delle emozioni è trascorsa,
il periodo delle eccentricità è superato: un inglese a quarant'anni è la
personificazione del positivismo, è l'incarnazione vivente del calcolo: i
giovani soltanto possono azzardare sull'asse o sul fante d'una carta una
eredità vistosa, una fortuna accumulata in lunghi anni di speculazioni e di
lavoro.
E quante fortune non furono perdute
o menomate in tal guisa! quanti di quei giovani
eleganti che alla sera entrarono nella sala del palazzo in Recourse-street,
ricchi d'una bagattella di centomila sterline, ne uscirono più poveri
dell'ultimo operaio di Londra, e s'imbarcarono all'indomani sul postale delle
Indie con un posto pagato di terza classe per tentare di ricostruirvi la loro
fortuna perduta! Si osserva appunto ciò di singolare nei giuocatori inglesi,
che non arrischiano come noi una piccola somma, una porzione meschina della
loro proprietà, ma mettono anche nel giuoco
dell'ardimento e del senno. - Ecco una carta sulla quale si sono posti
centomila franchi - una, due, tre; una, due, tre; il
sette di fiori e la dama di cuori, l'asse di quadri, e il re delle picche -
perduto; si raddoppia la posta - perduto; la si triplica ancora - perduto: sta
bene! All'indomani si va a Hang-king o a Calcutta; vi si va
fiduciosi, imperturbati, tranquilli; vi si negozia nella gomma, nei datteri, o
nei chiodi di garofano; s'impianta una manifattura di conterie, si perfeziona
un tessuto, s'inventa una macchina, si acquista a metà prezzo un carico di
coloniali, e la fortuna è rifatta. Allora si rimpatria e si dice: io
sono quell'inglese che, otto anni or sono, ha sciupata
la sua proprietà al giuoco dei quadri; oggi ritorno col mio capitale
raddoppiato, e con un forte credito all'estero; i miei rapporti commerciali mi
assicurano in pochi anni l'accumulazione di un capitale importante.
A questo punto della sua vita,
l'inglese non giuoca più, non va in cerca di nuove
emozioni; rientra nella famiglia e nell'ordine, frequenta la borsa, si fa
eleggere membro di qualche associazione democratica, e trasmette a' suoi eredi
legittimi un patrimonio di un mezzo milione di ghinee.
Paese singolare, dove tutto è
grande e straordinario; dove anche nel vizio si rinvengono
le traccie di virtù non comuni, dove è riverito il genio e santificato il
lavoro; dove in ogni uomo vi ha parità di diritti, parità di doveri e
consonanza di aspirazioni. Più volte considerando i caratteri de' miei connazionali, studiando le loro qualità e le loro
tendenze, al confronto del tedesco grave e malinconico, dell'inglese dotto e
laborioso, del francese facile e colto, ho dovuto arrossire della generale
frivolezza degli italiani.... Oh perché non sono nato sotto quel cielo severo e
melanconico dell'Inghilterra, dove gli uomini crescono liberi, nobili e
dignitosi!
*
* *
Non sono molti anni che in Game
of chance house fu perduta al giuoco una delle più
ricche fortune d'Inghilterra. - Era una sera triste e piovosa, le strade di
Londra erano deserte, i teatri chiusi, i clubs poco frequentati; e il giovine barone di Rosen, non sapendo come schermirsi dal
tempo e dalla noia, era rientrato, suo malgrado, in quella casa dove aveva già
dissipate somme considerevoli, e dove aveva risolto pochi giorni innanzi di non
porre più piede. Ma i proponimenti dei giuocatori sono labili come quelli degli
amanti: tra il giuoco e l'amore corrono dei rapporti
ben definiti; l'amore non è che un giuoco, il giuoco non è che amore di danaro
- amore e danaro costituiscono le due passioni più ardenti dell'anima umana, e
partecipano entrambi nella stessa misura, di tutte quelle debolezze che sono proprie
della nostra natura.
Il barone di Rosen era dunque
ritornato in una di quelle sale e s'era seduto ad un tavolo già occupato da
buon numero di avventori. In quella stanza regnava un
silenzio assoluto, non interrotto che dal rotolarsi alternato dei dadi o dallo
sfogliarsi delle carte, o dal crepitio della fiamma del caminetto; i sigari e
le pipe esalavano nubi di fumo, tra le quali apparivano confusamente le
fisionomie calme e impassibili dei giuocatori.
L'arrivo di Rosen non fu avvertito
che dal lieve scricchiolio d'un'altra sedia che venne
a posarsi da un lato del tavolo; i vicini alzarono gli occhi, salutarono
accennando del capo, e continuarono il loro giuoco. Si sarebbe detto tuttavia
che essi attendessero qualche grosso guadagno da quel nuovo arrivato, poiché lo
sbirciavano di traverso colla coda dell'occhio, e parevano aspettare che egli
chiedesse le sue carte per l'intera somma che era
collocata sul tappeto d'innanzi al direttore del banco. La doveva essere infatti una triste sera per Rosen. La posta
era d'un migliaio di sterline: egli trasse di tasca un portafogli, ne tolse
alcuni biglietti, e deponendoli sul tavolo, e indicandoli col dito, chiese: -
carte!
Il banchiere ne diede tre a lui, e
tre a sè stesso.
Rosen le esaminò
spiegandole con una sola mano, che l'altra teneva costantemente nella
saccoccia, e poiché l'avversario ebbe rovesciate le sue, disse: - perduto; e
collocando nuovi biglietti sul vassoio, aggiunse: - raddoppio.
Gli furono date nuove carte, ma la
fortuna tornò ad essergli sfavorevole. Il barone vuotò le sue saccoccie sul
tavolo, e ripetè collo stesso suono di voce: - raddoppio.
Gli spettatori si radunarono in
circolo; il giuoco incominciava ad assumere qualche
interesse, e a scuotere in qualche modo quella loro natura impassibile. La
fisionomia del banchiere appariva, benché s'adoprasse a nasconderlo,
visibilmente alterata: il barone di Rosen aveva rimessa una mano nella
saccoccia, e coll'altra spremeva la punta del suo sigaro, cui non era ancora
riuscito a dar aria.
Talora l'impassibilità nel giuoco può condurre a grandi risultati, ma talora anche non
giova - la fortuna ha le sue predilezioni, e non le smentisce sì spesso, - in
quella sera Rosen era predestinato - perdette ancora.
Successe un momento d'indugio; fu
verificata la somma, erano trecento mila franchi. Il
vincitore guardò il barone con uno sguardo che voleva dire: si continua? Questi
accennando col dito al portafogli che vedevasi vuoto sul tappeto, guardò dal
canto suo il banchiere, in atto di chiedere: si fa credito?
Allora quegli avendo accennato del
capo in segno di acconsentimento, il barone di Rosen
levò la mano dalla saccoccia, sfogliò il sigaro colle dita, e gettandolo a
terra, e appressando la propria sedia al tavolo, disse: vada tutta la posta.
Furono gettate ancora le carte:
erano pari, nulla di fatto. Rosen si drizzò di tutta la persona, e come animato
da una inspirazione infallibile, disse: vada due volte
la posta.
Furono ridate le tre carte; il
banchiere aveva un sette e due fanti, l'altro una dama
e due assi - Rosen aveva perduto.
Egli ricadde sulla sedia, stette un
istante pensieroso, poi riaccendendo un sigaro, disse: vediamo se la fortuna
avrà migliore costanza di me; giuoco la mia proprietà
di Littleford contro la somma che è depositata sul banco.
A questo punto il
suo avversario parve esitare, alcuni amici gli si appressarono e dissero:
Rosen, moderatevi; ma la buona stella di Rosen era tramontata: anche questo
colpo doveva essergli sfavorevole - la sua proprietà di Littleford fu perduta.
Successe una viva emozione negli
astanti, IL banchiere assumendo quell'aspetto mortificato e increscevole che è
proprio dei vincitori di giuoco, disse con parole
interrotte e esitanti: vedo che la fortuna delle carte vi è contraria, nè io
vorrei approfittarne di troppo... se voi desiderate desistere, o mutar
giuoco.... tentare i dadi, o il tarocco, o.... - La mosca, interruppe Rosen.
- La mosca, disse l'altro in suono di adesione. E raccogliendo le
somme deposte sul tavolo, e rialzandosi, entrarono in un'altra camera.
Il barone e il suo avversario si
sedettero, e chiesero due tazze di birra doppia, che furono loro portate
assieme con un vaso ripieno di tavolette di avorio.
Quanto per ciascuna? chiese il rivale di Rosen.
Mille sterline l'una! rispose l'altro. E poichè se l'ebbero
divise in parti uguali, versarono d'innanzi a sè una goccia di birra di pari
grandezza, appoggiarono i gomiti sul tavolo, la testa tra le mani, e dissero al
cameriere: siamo a tempo.
Il cameriere avendo allora fatto
osservare che le goccie erano d'uguale dimensione, e
la luce favorevole in un modo ad entrambi; e avvertiti i giuocatori di non
alterare il respiro, e gli astanti di astenersi da qualunque movimento, pena il
pagamento della posta, mosse un cordone che pendeva lungo la parete, e fece
agitare una ventola, al cui movimento le mosche che coprivano a nubi il
soffitto se ne distaccarono, e vennero a posarsi in parte sul tavolo - le altre
continuarono a volare per la stanza ronzando.
Allora un'ansietà profonda si dipinse sopra ogni volto, gli occhi di tutti seguivano con
impazienza le varie direzioni delle mosche. Tre di esse avevano già
incominciato ad aleggiare intorno alla goccia di Rosen, e parevano volervisi
arrestare, quando, mutando divisamento, passarono dal
lato opposto, e si posarono su quella del suo avversario.
Era una fatalità disperante: il
barone diede al vincitore tre tavolette di avorio. Il
cameriere, dopo aver agitata una frasca di felce sulla tavola, disse: si
ricomincia; e scosse di nuovo la ventola.
Una mosca discese allora direttamente
dal soffitto e venne a posarsi sulla goccia sciagurata di Rosen, ma sette altre
si posarono ad un tempo su quella del suo rivale.
Rosen gli passò nuovamente sei
marche.
Decisamente egli era destinato a non vincere. Giuocò quanto era lunga la notte, ma sempre colla stessa fortuna.
Verso il mattino tutte le tavolette erano passate al
suo avversario; egli aveva perduto la sua bella proprietà di Littleford, e due
milioni e mezzo di lire...
La sua fortuna era rovinata.
*
* *
Partito da Game of chance house
per avviarsi a casa, Rosen passò sul ponte del Tamigi, e si fermò e si appoggiò
un istante al parapetto. Egli guardò il sole che sorgeva circonfuso di nebbia,
le barche che scivolavano lungo le rive, i tetti delle case coperte di schiste
color di piombo, la natura che pareva mesta e malata;
e pensò che la vita era triste, e che le onde del fiume erano profonde.
Una voce segreta gli diceva
all'orecchio: «Rosen, tu sei perduto; esamina bene la tua
posizione; aggiungi le gravi perdite d'oggi a quelle dei giorni antecedenti, e
vedrai che non ti rimane più un quinto della tua fortuna; quelle mosche ti
hanno rovinato: che farai tu qui, in un paese dove la povertà è disprezzata?
tu, inabile ad ogni lavoro di braccio o di mente; tu
barone, onorato, invidiato finora, guardato con invidia da tutte le belle
fanciulle di Redstreet? Vedi, il mondo è così fatto; viene una cattiva ora per
tutti, e anche la tua è venuta. Bisogna rimediarvi alla meglio: un giovine che non appartenesse alla illustre famiglia dei
Rosen, si darebbe alla mercatura e al lavoro, ma tu non lo puoi fare, tu: non
vi ha rimedio per te... Guarda come scorre bene il Tamigi, che profondità hanno
queste onde, che silenzio vi è lì sotto, che pace! E
che credi? Da questo parapetto all'acqua non corrono più di trenta piedi
inglesi... è una cosa da nulla, tanto come vuotare un
bicchiere di grog: risolviti, Rosen, coraggio, Rosen, buttati giù dal
ponte.»
E Rosen stava per buttarsi, quando
gli sovvenne che aveva una moglie, la quale non aveva che ventidue anni, e di
cui aveva avvizzita la fede e la gioventù colla sua
cattiva condotta, e dissipata in parte la grossa fortuna che gli aveva recato
per dote.
Sua moglie apparteneva ad una
famiglia patrizia di Dublino, e aveva sposato Rosen per amore. Si erano
conosciuti tre anni prima in un viaggio che il barone aveva fatto in Irlanda;
la mente immaginosa della fanciulla, esaltata dalla
lettura dei romanzi di Scott, aveva creduto di realizzare in lui quell'ideale
d'uomo che aveva portato fino allora nel cuore. Essa lo aveva creduto per quel
solo motivo che fa credere alla donna tutto ciò che le piace credere dell'uomo
che ama - perché Rosen era bello. La bellezza a venti anni ha grandi
attrattive.
Egli era infatti
uno dei giovani più avvenenti di Londra. Aveva statura alta e spigliata, lineamenti esatti, capelli lunghi e biondissimi,
occhi grandi ed azzurri, e vestiva colla negligenza ricercata dai fashionables
inglesi - i soli che per coltura d'ingegno e per robustezza di mente, emergano
in qualche modo su quella classe corrotta e viziosa della società che chiamasi
il mondo elegante. Oltre a ciò Rosen cavalcava come un paladino provetto;
tirava di spada e di sciabola, e non aveva chi gli togliesse l'onore di un
assalto; colpiva le rondini al volo, traversava a nuoto il Tamigi; e possedeva
per giunta una virtù che non è comune agli inglesi - cantava con dolcezza e
toccava l'arpa con gusto e con sentimento di artista.
Tutte queste doti avevano fatto
credere a Emilia Strafford che suo marito avrebbe
avuto anche un cuore; nè ella si era ingannata, che Rosen ne aveva uno, e non
lo aveva cattivo; ma quelle tristi abitudini della sua vita, quello
spensierirsi continuo, quel disgusto di tutto, quel bisogno che egli sentiva di
emozioni sempre rinnovate, lo avevano reso se non ignorante, almeno trascurante
de' suoi doveri più sacri, lo avevano fatto estraneo alle gioie caste e
tranquille della famiglia.
Vi sono molti uomini, dei quali si
dice: hanno cuore; e nondimeno li vediamo vivere sempre lontani dagli esseri
che loro appartengono, compiangerli, ma non sorreggerli di consiglio o di
sacrificio, spesso dissiparne la fortuna, e far pompa di un egoismo crudele.
Sono capaci di uno slancio di virtù, non di una virtù continuata.
Questi uomini costituiscono una
delle classi più numerose della società, e sono coloro di cui le donne esaltate
rimangono spesso le vittime. Meglio i giovani freddi e calcolatori, dei quali
si dice con disprezzo: - non hanno cuore!
Emilia Strafford, benchè avesse
indole dolce ed ingenua, non tardò ad avvedersi del cattivo temperamento di
Rosen, e del suo carattere turbolento e inquieto. Ella
non lo amava meno per ciò, chè per una strana contraddizione del cuore umano e
pel bisogno che esso ha di contrasti, di lotte, e assai spesso anche di dolore,
tali uomini piacciono di preferenza alle donne; ma lo amava senza gioie, senza
speranze, subiva la sua stessa affettività come una forza che era fuori di lei,
e alla quale non avrebbe mai potuto sottrarsi.
Non era così che essa avrebbe voluto essere amata da suo marito,
Rosen passava spesso giorni e notti
intere senza vederla; imprendeva piccoli viaggi, talora concertati in una
riunione di amici, e partiva con essi sul fatto senza
avvertirne sua moglie. Due volte le era stato riportato carico di ferite
ricevute in duello, un'altra volta era caduto rovesciato col cavallo nel salto
di una barriera, e ne aveva avuto un braccio spezzato.
Nelle ore della sua assenza Emilia viveva in un'inquietudine mortale, e non di
meno quelle sventure erano state l'unico pretesto che l'avessero
avvicinata a lui in un modo affettuoso e durevole. Perché
nello stato di malattia Rosen era buono, egli comprendeva le tacite sofferenze
di sua moglie, quell'interessamento caldo e pietoso, quell'affezione salda e
delicata: e spesso in momenti di sincera effusione, le aveva detto: -
perdonami, Emilia, d'ora innanzi sarò migliore.
Ma col rifiorire della salute tutti
i suoi proponimenti erano svaniti; a poco a poco egli aveva sentito disgusto di
tutto, il bisogno di nuove emozioni lo aveva tratto al giuoco;
aveva perduto, aveva sminuito sensibilmente il suo censo e introdotte delle
dure economie nella sua casa: quelle modificazioni avevano allontanata sua
moglie da quell'elegante società di cui era stata una delle bellezze più splendide,
l'avevano costretta ad un isolamento penoso, a un sistema di vita più modesto e
più oscuro. - Rosen aveva veduto tutte quelle privazioni, aveva sentite le proprie, e n'era diventato melanconico e triste;
aveva tentato di dimenticarle, aveva trascurata la casa; i suoi domestici
portavano le loro livree sdruscite, i suoi cavalli languivano da qualche tempo
nelle scuderie, i suoi cani impigrivano presso il focolare, egli stesso fuggiva
i suoi amici, i clubs, i teatri, ogni mezzo di divagazione - non viveva più che
della passione fatale del giuoco.
Ed ora che aveva fatto? Aveva perduta quella grande proprietà di Littleford che
apparteneva a sua moglie, e che ne costituiva unicamente la dote; aveva perduto
quasi tutto il resto della sua fortuna. Come vi avrebbe rimediato!
Ecco ciò che passava
per la mente di Rosen, mentre si appoggiava contro il parapetto del ponte, e
pensava se avrebbe potuto ancora accettare la vita al prezzo di quelle
sventure. La memoria di Emilia gli si affacciava con
un'insistenza tormentosa, con una esattezza e con una verità di dettagli
straziante. Egli la vedeva afflitta, scoraggiata, piangente; giovine
ancora e già tanto avvizzita dal dolore; ancor bella e costretta a sfuggire la
società, a celarsi nell'isolamento, e a lamentare nella povertà e
nell'abbandono le pene di una vedovanza precoce.
- No, diss'egli scuotendosi,
avvenga ciò che può avvenire, non mi ucciderò; fossi
io solo, e fossero queste onde più alte di quelle di Foreland, andrei a
cercarne il fondo col capo, ma così, con mia moglie, ah! no,
non diventerò l'assassino di mia moglie... andiamo a casa andiamo a letto,
dormiamoci sopra, vedremo ciò che si potrà fare domani.
E quella voce che lo aveva ammonito
poc'anzi riprese: «Hai ragione, Rosen, da bravo, metti giudizio, va a casa,
cacciati sotto le coltri; il sonno è fertile di buoni pensieri, rimedierai a
tutto; e, se non fosse possibile, il Tamigi non vorrà andarsene via per questo;
sarai sempre a tempo a buttarviti dentro.»
Rosen si rivolse e s'incamminò
verso casa. Strada facendo, uno di quei fanciulli che
vanno per le vie di Londra distribuendo gli avvisi che noi usiamo affiggere,
gli pose tra le mani un fascicoletto color di rosa. Il barone
lo prese ne lesse il frontespizio senza intenderne una parola, e lo pose
macchinalmente in saccoccia.
Giunto nella sua stanza ne chiuse
le imposte, si spogliò in fretta, buttò gli abiti qua e là sullo spazzo, entrò
con mal garbo nel letto, si disse da sè buona notte; e tirandosi le coltri fin
oltre alle orecchie, decise di non pensare a nulla fino al domani, e tentò di
addormentarsi.
*
* *
Ma non poteva prender sonno. Era
inutile: si volgeva su un fianco e sull'altro, e le lenzuola gli parevano piene
di spine; chiudeva gli occhi, e si vedeva dinanzi la tavola da giuoco e quel fascio di biglietti perduti, e quella faccia
fosca e impassibile del suo vincitore che lo guardava di sbieco; e sentiva
ancora nelle orecchie il ronzio di quelle mosche che per qualche inesplicabile
attrazione avevano preferito andarsi a posare sulla goccia del suo rivale.
Stette così sognando ad occhi aperti due ore, poi si alzò e prese a rivestirsi
senza saper bene ciò che si facesse o ciò che doveva
disporsi a fare; passò le mani nelle saccoccie, e avendovi trovato quel
fascicoletto di carta che aveva ricevuto da quel fanciullo sul ponte lo aperse
e lesse: Regolamento della Società d'assicurazioni sulla vita. - Norme per
assicurarsi, ecc.
Alzò le spalle
indispettito, sfogliò alcune pagine, e continuò a leggere:
«Art. 24. Si può assicurare allo
stesso modo la vita di qualunque persona, e costituirle una rendita vitalizia
adeguata alla maggiore o minor somma della rata annuale che si
intende versare per la persona assicurata, a tenore dell'annesso
prospetto.
«Art. 25. Anche il pagamento di
una sola rata da diritto all'intera rendita convenuta, ove la morte
dell'individuo che ha operata l'assicurazione avvenga
in via naturale, e non per volontà della persona stessa.
Parve a Rosen di fraintendere, non
gli pareva vero - rilesse: Si può assicurare la vita di qualunque persona e
costituirle una rendita vitalizia ecc., e poi: anche
il pagamento di una sola rata dà diritto all'intera rendita, ma ben inteso,
ove la morte dell'individuo, ecc., avvenga in via naturale.
Rosen comprese, previde, indovinò tutto, decise, un nuovo orizzonte si aperse a' suoi
occhi. Non v'era dubbio, egli poteva ancora rimediare al suo fallo, salvare sua
moglie da una rovina imminente, sdebitarsi con lei di tutti i dolori e di tutte
le privazioni a cui l'aveva condannata la sua
condotta. Finì di vestirsi con una specie di frenesia, frugò nei suoi scrigni,
e vi raggranellò un migliajo di sterline; prese con sè quell'avviso, uscì e
corse difilato all'ufficio della Società d'assicurazioni.
- Vengo, diss'egli presentandosi al
direttore della Società, ad assicurare la vita della baronessa Emilia
Rosen-Strafford, mia moglie, nativa di Dublino, senza figli e dell'età di
ventidue anni.
- Sta bene, rispose il direttore,
ma è d'uopo prima di addivenire a qualunque trattativa
che il signor barone si assoggetti ad una visita medica. E
indicandogli una porta a destra sulla quale era scritto: Certificati
sanitarii, gli accennò d'entrarvi.
Rosen ne uscì pochi istanti dopo
tenendo tra le mani un documento che presentò al direttore, il quale lesse ad
alta voce: «Dichiariamo che il barone Alfredo di Rosen, nativo di Londra, e dell'età
di anni ventinove, presenta tutti i requisiti di una
costituzione sanissima; ha temperamento sanguigno un notevole sviluppo
muscolare, membra esatte e ben conformate; ha subíta vaccinazione, e promette
di giungere ad età molto avanzata. Interrogato da noi, ha dichiarato tenere
sistema di vita regolarissima, ciò che apparisce dal suo stato di salute
attuale, e viene a confermare, per quanto lo permettono i limiti ristretti
della scienza, la sopra fatta asserzione.»
Il direttore si mostrò soddisfatto
di questa lettura, e disse rivolgendosi al barone:
- La maggior rendita vitalizia che
la nostra Società si assume di assicurare è di trenta mila sterline all'anno, per la quale, tenuto conto della di lei età e
costituzione, non che di quella della signora sua moglie, occorre che ella si
obblighi al pagamento di rate annuali anticipate di cinquecento e settantadue
sterline e due scellini e mezzo, come può scorgere dal disposto degli articoli
32, 42 e 44 del nostro Regolamento.
Rosen non avrebbe mai osato sperare
condizioni sì miti e sì favorevoli; convenne su tutto,
stipulò definitivamente il contratto, versò la prima rata, ne ricevette la
quietanza, e si accomiatò dal direttore che gli diceva:
- Crediamo superfluo raccomandare
al signor barone di Rosen la scrupolosa osservanza
dell'articolo 54, il quale prescrive la maggior cura possibile della salute
delle persone assicurate, e proibisce di esporre una vita così preziosa alla
Società, se non per qualche dovere di umanità universalmente riconosciuto, o
per qualche legge di onore.
Giunto a casa, Rosen si presentò a
sua moglie con un sorriso che era inusitato, e abbracciandola con tenerezza le
disse:
- Mia cara Emilia, sono succedute
nella nostra economia domestica le complicazioni più strane e più impensate. Ho
perduto stanotte al giuoco della mosca e dei quadri il
tuo parco e il tuo castello di Littleford, non che gran parte delle mie terre
di Kingston, ma per altro lato, ho trovato modo di assicurarti una rendita
annuale vitalizia di trenta mila sterline, decorribili da quest'anno medesimo;
ed io mi sono impegnato a fare un viaggio in Italia dal quale ritrarrò
difinitivamente la mia prosperità e la mia pace. Ti prego di osservare il
silenzio più assoluto su questa confidenza e su questo progetto, e concedermi che
io ometta di dartene i dettagli. Riceverai fra pochi giorni il contratto
formale che ti assicura la rendita di cui ti ho parlato, e la mia prima lettera
da Dover dove prenderò imbarco per Calais. Abbracciami, mia cara moglie; io ho
molti torti verso di te, ma spero di ripararli; abbracciami con tenerezza; io
partirò in questa sera medesima, e benchè un viaggio come questo che sto per intraprendere, non offra nulla di pericoloso e di
strano, l'Italia è una terra di furfanti, piena di donne infedeli e di uomini
di cattiva fede, e non si sa quel che possa accaderci, visitandola.
Così dicendo, Rosen, commosso suo
malgrado, si strappò dalle braccia di sua moglie, e rinchiusosi nella sua
camera, scrisse al suo amico Edoardo Barth la lettera seguente;
«Mio caro amico,
«Ti do con questa lettera il mio
ultimo addio. Mi sono rovinato al giuoco, e non mi
resterebbe che uccidermi, se l'art. 54 del Regolamento sulla Assicurazione
della vita non m'imponesse di morire di morte naturale. Io parto stassera per
l'Italia. Ti raccomando mia moglie, la buona Emilia
Strafford, di cui ho consumata la dote, e alla quale sto per assicurare col
sacrificio della mia esistenza una rendita vitalizia di trenta mila sterline. Il regolamento che ti acchiudo ti spiegherà tutto; io vado a farmi
uccidere, non so ancora da chi, nè in che modo; ma immagino che non mi riuscirà
difficile poter morire in guisa da eludere le importune disposizioni di
quell'articolo.
Credo che mia moglie abbia qualche
simpatia per te; quando io sarò morto obbligherai la mia anima sposandola, e
facendole conoscere come io mi sono ucciso per
rimediare allo stato in cui l'avevano posta le mie dissipazioni, e
disobbligarmi della perdita della sua proprietà di Littleford che ho giocato
stanotte alle mosche.
Il
tuo amico.
«Alfredo di Rosen.»
*
* *
In quella sera medesima Rosen prese un biglietto di
prima classe per Dover, e rannicchiatosi nell'angolo della vettura, si tirò il
bavero del soprabito fin sulle guance, si calò il cappello sugli occhi,
rintascò ben bene le mani, si lasciò cadere il capo sul petto come una testa di
fantoccio snodata, e incominciò a pensare in che modo gli sarebbe riuscito di morire, e se gli convenisse più l'indugiare fino al suo
arrivo in Italia, o approfittare subito delle prime occasioni che gli si
sarebbero offerte nel suo viaggio. Dopo molte esitazioni pensò di attenersi a
quest'ultimo partito.
Ma era presto detto - approfittare
delle prime occasioni. - Queste occasioni non sarebbero venute da sè, bisognava cercarle, prevederle, procurarsele; e, ciò che era
più, fare tutte queste cose in modo che non vi apparisse ombra di
premeditazione e di colpa. Rosen conobbe che non era tanto facile. Bisognava
tentare di essere provocati, e in ciò le vie erano molte; bastava assumere un contegno
aspro e insultante, e si sarebbero trovati di quelli cui sale presto la senapa
al naso; ma egli non avrebbe voluto uccidere un uomo innocente, nè
compromettere la sua fama di schermitore; e oltre ciò
l'art. 54 sembrava non giudicar validi quei duelli che non fossero stati
provocati da una questione di onore. Rimaneva l'implicarsi in qualche pericolo,
dare in un'imboscata di ladri, trovarsi trascinato in una rivolta, gettarsi in
un incendio o in fiume con pretesto di volervi salvare una persona pericolante,
l'essere travolto nella rovina di qualche edificio, procurarsi un'affezione
contagiosa, una caduta, una ferita mortale... ma tutto ciò dipendeva in gran
parte della fortuna, e, diciamolo pure, Rosen non temeva per fermo la morte -
gran chè se ci aveva pensato due volte in quel giorno!
- ma egli abborriva il dolore, avrebbe voluto morire,
sì, lo voleva fermamente, ma avrebbe voluto morire ad un tratto e senza
soffrire.
La morte non è cosa sì arrendevole
come la si crede, e la vita è più tenace e più salda
di quanto non sia universalmente giudicata.
Mostratemi una cosa che sembri
avvicinarsi alla morte più del dolore, e tuttavia mostratemi un dolore del
quale si possa morire. Si dice spesso: «io morrò di
questo affetto, io morrò di questa sventura, io morrò di questa o di
quell'altra cosa», e non si muore mai di quelle cause che credevamo
doverci condurre alla morte. Sembra che tutta la natura sia animata da una
forza di contrasti, da una legge, da uno spirito di contraddizione immutabile.
Gettate gli sguardi sul vostro passato, e vedrete che la vostra vita, le vostre
opere, i vostri affetti non sono stati che una serie di contraddizioni
continue. Volete vivere? morrete. Desiderate la morte? avrete
una vita lunga e affannosa. Che cosa è questa infelicità
di cui gli uomini si lamentano? A che allude questa eterna
elegia di dolore che l'umanità innalza da secoli al cielo, se non a questa
formidabile potenza di contraddizioni che ci governa? La contraddizione è
l'urto, è il moto, è la lotta, è il risultato di due forze misteriose nella cui
azione è forse riposto il segreto della vita
universale. Certo se dalla conoscenza dei nostri destini noi possiamo attingere
alcune idee di quelli che governano gli altri mondi e le altre creature, e
avventarci con esse nell'ignoto, possiamo asserire che
l'universo non è che un'enorme contraddizione.
Mentre Rosen volgeva nell'animo questi
pensieri, allungò macchinalmente una gamba, e pose il piede, senza volerlo, su
quello d'un viaggiatore che gli sedeva di fronte. Egli se ne avvide,
ma, pensando che ciò avrebbe potuto dar luogo a qualche diverbio favorevole a'
suoi progetti, non lo ritrasse, e volse al suo vicino uno sguardo pieno di
rancore che voleva dire: E osereste lamentarvi?
Il vicino tirò indietro il suo
piede, e guardando il barone di Rosen con espressione di dolcezza e di
deferenza:
- Perdonate, gli disse, se aveva
posto inavvertentemente il mio piede sotto il vostro.
- Non siete voi, rispose Rosen
risentito, che abbiate posto il vostro piede sotto il
mio; sono io che ho posto il mio sopra il vostro. E comprendendo quanto questo appiglio fosse puerile e ridicolo, chinò il capo sul
petto per nascondere il rossore che si sentiva salire alle guancie.
- Gran Dio, riprese l'altro, e
potrà egli accadere che due uomini assennati abbiano a
bisticciarsi per questo? Del resto, perdonate se insisto, ma se voi avete
asserito d'aver posto il vostro piede sul mio, è segno che il mio si trovava
evidentemente di sotto, e questo punto è appianato. In quanto
all'altro, il mio piede era lì da un pezzo, il vostro ve lo avete posto ora
allungandovi, ed è chiaro come la luna che fu primo il mio a cagionare questo
scontro e a porsi sotto del vostro. Ma io vedo che voi siete preoccupato
da qualche pensiero affliggente. È un pezzo che vi sto osservando, e che mi
sento nel cuore il più vivo interessamento per voi. Che
cosa avete? Posso io farvi questa domanda? E sarei mai
tanto fortunato da potervi giovare?
Cosi dicendo quell'ottimo signore
prese una mano del suo vicino, la strinse tra le sue e, togliendosi gli
occhiali dal naso, lo guardò con tale aria di affetto
che Rosen si sentì subito rappattumato e disposto, per quel sollievo che ci
procura la confidenza d'un grande dolore, a dividere il suo segreto con lui.
E poi quello sconosciuto aveva un aspetto
sì dolce, sì leale e sì aperto che avrebbe inspirato anche ad un uomo
diffidentissimo la fiducia più illimitata.
Egli pareva
essere sui cinquant'anni, aveva favoriti lunghi e canuti, gli zigomi
sporgenti, e i pomelli d'un rosso vivo, gli occhi grigi e scrutatori. Due
solchi laterali incavati dagli occhiali sul naso indicavano in lui una persona
d'affari. Vestiva lindo, ma severo; portava un'ampia cravatta
bianca che gli fasciava due volte la gola, e le cui due punte giungevano a
stento a riunirsi in un piccolo nodo davanti; aveva un panciotto verde a
rigoni, un ampio soprabito col bavaro di pelo - e faceva passare continuamente
da una mano all'altra una lunga canna di zucchero sormontata da un grosso pomo
dorato.
- Sì, voi potreste certamente
giovarmi, gli disse Rosen, rispondendo alla sua offerta.
- E in che
modo?
Rosen si chinò presso di lui, e gli
disse all'orecchio una sola parola che lo fece trasalire.
- Cielo! esclamò
l'altro, e lo dite voi seriamente? E per quali motivi?...
- Ascoltate, riprese il barone, e
tornò a parlargli all'orecchio.
Il colloquio fu lungo e animato;
quello sconosciuto si mostrava afflitto e sorpreso di ciò che intendeva da lui,
e spesso gli avea detto alcune parole che sembravano
accennare a una disapprovazione o ad un consiglio. Ma
alla fine incominciò a dimostrarsi quasi convinto e soprafatto dalla logica
stringente di Rosen che continuava a parlargli all'orecchio con calore; e
discostandosene un poco, come fosse stata esaurita quella parte della sua
confidenza che importava segretezza e silenzio, gli chiese ad alta voce:
- Ed ella
lo ignora?
- Lo ignora.
- Ma
converrà che lo sappia.
- Ne ho incaricato un amico,
- Bene, mi sarei assunto io stesso
questo mandato, ma se a voi non è discaro, vi seguirò, e potrò parlarle del
modo con cui avrete compiuto il vostro progetto.
- È ciò che io desidero. Vi incaricherò d'una lettera per lei e dell'esatto racconto
del mio fine.
- Ve ne ringrazio. Ove andate?
- Non ho
direzione fissa... pensava di andare in Italia, ma quasi... E voi?
- Io pure non ho
un piano premeditato, viaggeremo di concerto.
- Come vi chiamate?
- Benvenuto Lamperth.
- Siete un uomo che mi va a genio.
- Ve ne sono obbligato, e mi duole
che vi abbia a perdere sì presto. Ma dove contate di
sostare stassera?
- A Dover.
- Ecco appunto la stazione di
Dover, disse Lamperth ascoltando il fischio della locomotiva; e
avvicinandosigli, aggiunse a bassa voce: È un paese di litigiosi questo Dover,
vi troverete a far qualche cosa di buono.
Così dicendo il convoglio si era
arrestato. Rosen ne discese col suo compagno, si buttò con lui in una vettura,
e si fece condurre al Chicken's hotel
(Albergo del Galletto).
Giunti in camera, egli disse a
Lamperth:
- Tant'è, il morire è lo stesso che
farsi estrarre un dente; dal momento che ci duole e che deve essere estratto è
meglio che ciò avvenga presto che tardi; e giacché voi mi dite che questo è un
paese di accattabrighe, io conto di tentare in questa
sera medesima qualche cosa di decisivo.
Rosen tirò il campanello, ordinò
carta, penna e calamaio, e scrisse la lettera seguente:
Mia cara Emilia,
Il signor Benvenuto Lamperth ti
consegnerà questa lettera che ti scrivo da Dover. Il mio amico Edoardo ti avrà
fatto conoscere le condizioni di quel progetto, mediante il quale ho potuto
sottrarti alle terribili esigenze del nostro dissesto economico. Lamperth ti
completerà queste notizie ragguagliandoti distesamente sulla mia morte. Spero che questo mio sacrificio ti farà perdonare tutte le crudeli
ingiustizie di tuo marito.
Alfredo
di Rosen.
E piegata la lettera in quattro la
porse al suo compagno dicendogli: - Mi sento appetito, scendiamo; odo laggiù
delle voci di bevitori, e ho in animo di cimentarne qualcuno e di mettermi
tosto alla prova.
E discesero nella sala da pranzo.
*
* *
Era una sala elegante e spaziosa,
illuminata da alcuni vecchi lampadarii guarniti di ciondoli di rame e di prismi
di cristallo, e decorata di alcune marine di Viardot
mezzo scolorite dal tempo. Intorno alle pareti erano disposte delle lunghe
tavole di quercia coperte di tappeti a dadi oblunghi, di un colore alternato
tra il rosso di mattone e l'azzurro - quei vecchi tappeti di Germania così in
uso fino a questi ultimi anni, che si può dire non esservi stata famiglia che
non ne abbia avuto uno - e a ciascuna di quelle tavole
sedeva buon numero di persone, tra le quali alcuni crocchi di viaggiatori e di
negozianti, e alcuni ufficiali di marina addetti alle navi di trasporto pel
tragitto dello stretto.
Quando Rosen e Lamperth entrarono
nella sala, tutti i posti erano occupati, Rosen girò attorno
lo sguardo, e mormorò tra sé stesso:
- Incominciamo bene, è un appiglio,
li costringerò a restringersi per cedermi un lato del loro tavolo: vo' vedere
se avranno l'arditezza di rifiutarsi.
E si approssimò ad uno di essi.
Alcuni marinai francesi che vi
stavano seduti discutendo calorosamente di certi loro viaggi, troncarono
all'istante la loro conversazione, portarono la mano ai loro berretti, si
alzarono; e restringendosi alla meglio, fecero cenno a Rosen e a Lamperth di
sedersi.
- Maledetta questa compitezza
parigina, disse Rosen fra sé stesso, che mi toglie ogni pretesto per
bisticciarmi onestamente con questi paltonieri; ma....
e' sono francesi, li toccheremo nel loro orgoglio nazionale.... già, in fatto
di brighe c'è da ripromettersi molto da questa sorta di gente.
Il barone e Lamperth sì sedettero, ed ordinarono la loro cena: i loro vicini
ripresero la loro conversazione interrotta.
- Vogliono del Bordeaux Laffitte, del Saint Julienne, dello Champagne, o del vino legittimo di
Boullon o di Abbeville?
- Vogliamo del vino inglese, disse
Rosen vivacemente, nient'altro che del vino inglese; già... in
quanto a me abborro tutti i vini di Francia, e aggiunse ad alta voce,
tutte le cose che ci vengono dalla Francia.
Così dicendo, guardò involto a'
suoi vicini, ma essi o non aveano udito, o avevano fatto
le mostre di non udire.
- Miserabili! bisbigliò
Rosen all'orecchio di Lamperth, non sono pur suscettibili d'un risentimento sì
doveroso.
Poco dopo il cameriere avendo
collocato dinanzi a loro alcuni piatti dipinti, su cui erano rappresentati i
principali episodii della vita di Napoleone, Rosen ne prese uno e presentandolo
al suo compagno, gli disse in modo da essere udito:
- Che ve
ne pare? Eccovi qui un uomo che in Inghilterra sarebbe
divenuto tutt'al più un tamburino, e che in Francia è stato creduto un gran
generale. Ma non importa, tutti sanno che a
Waterloo le ha buscate dagli inglesi.
Anche queste parole non ebbero
l'effetto che egli si aspettava; uno solo de' suoi
vicini si volse e vedendo Rosen che lo guardava, e immaginando forse che
volesse prender parte alla loro conversazione gli chiese:
- Il signore ha viaggiato?
- Sì, rispose
Rosen sono stato un'altra volta da Dover a Calais, passando per
l'arcipelago greco.
- Avete detto?
- Da Dover.
- A Calais?
- A Calais, precisamente, e
attraversando l'arcipelago greco.
Tutti gli astanti diedero in uno
scoppio di risa, e lo stesso Lamperth fece mostra di chinarsi a raccogliere il
tovagliolo cadutogli dalle ginocchia, per nascondere il prurito che si sentiva
di ridere, e non guastare i progetti del suo compagno.
- Signori, disse Rosen gravemente,
a meno che voi non abbiate navigato sopra una conca di
cartone in una vasca artificiale del vostro giardino, o vestiate in questo
momento l'uniforme della marina francese per fare una comparsa da teatro,
dovreste sapere che si può partire da Dover, attraversare tutta la terra, non
solamente l'arcipelago greco, e giungere a Calais dopo aver compiuto il viaggio
più semplice e più naturale del mondo
- Voi avete delle cognizioni
geografiche molto profonde, disse uno dei viaggiatori, ma io vi consiglierei a
non manifestarle pubblicamente, se v'importa che non si rida di voi, e a
difenderle con meno calore se non desiderate di trovare qualcuno che v'abbia ad accorciare le orecchie.
- Per il cielo, esclamò Rosen
sollevandosi e battendo del pugno sul tavolo, mentre si rallegrava internamente
del buon esito del suo tentativo e si sforzava di dissimularne la gioia, non
sarete certamente voi quello che saprà tagliarmi le orecchie, ed è ciò che
potremo vedere sull'istante, appena io sia giunto all'osso di questo beefteack,
se avete tanto ardimento nei fatti quanto avete
arroganza nelle parole.
- Uscite, uscite, disse il francese cui erano salite le fiamme sul viso...
E Rosen dando una strappata al suo beefteack
come per affrettarsi, si curvò all'orecchio di Lamperth, e gli chiese:
- Vi pare che il pretesto sia
valido? Già... si tratta di amore nazionale... di una
questione di scienza, che...
- Oh! senza
dubbio, validissimo, interruppe Lamperth stringendosi nelle spalle.
Rosen gettò allora il resto del suo
beefteack nel piatto, quasi in atto di compiere un ultimo sacrificio, e
riprese:
- Giacché io sono lo sfidato e sta
a me la scelta delle armi, scelgo la spada, che da noi
non si amano le scalfitture della sciabola, e si sanno fare gli occhielli a
dovere... Questo gentiluomo, mio compagno di viaggio, sarà mio padrino: ma ove
ci batteremo?
- Vi è qui presso, lungo la spiaggia,
un terrapieno che non potrebbe essere più adattato a questo bisogno, andiamo.
- Vi seguo.
Rosen e i suoi compagni giunsero
dopo pochi momenti sul luogo.
Inutile dire che Rosen aveva deciso
di non difendersi che per quel tanto che era necessario a nascondere il suo
disegno, e a scoprirsi appena il suo nemico avesse saputo drizzargli un colpo
decisivo.
Furono recate le armi: i due
avversari posero mano alla spada, e si avventarono l'uno contro l'altro. Il
francese si batteva con fuoco, faceva delle finte rapidissime, era uno
spadaccino brillante.
Rosen lo respingeva con calma, e
sorrideva seco stesso, benché si arrovellasse di non
poter mostrare tutta la valentía in quel giuoco. La lotta durò alcuni istanti.
Rosen era sul punto di lasciarsi ferire, quando s'avvide che il suo avversario
si ostinava a tener alta la punta per sfregiarlo nel viso. Questa circostanza
fu causa che egli perdesse tutta la sua freddezza, e si dimenticasse
dello scopo di questo duello, per non ricordarsi più che di colpire il suo nemico.
Proseguirono con accanimento; il francese aveva già sfiorata
una spalla a Rosen, quando, scoprendosi a un tratto nel ritirarsi, fu colpito
nel petto e cadde.
Rosen si avvide allora del suo
fallo, ma era troppo tardi. Lamperth gli si avvicinò, e gli disse: - Che avete
fatto? voi avete ucciso un uomo innocente.
- Sì, disse Rosen, ma sarà
l'ultimo; che volete? sono un insensato... partiamo
subito per la Francia: giuro al cielo che al primo scontro che io potrò avere
in quel paese, mi lascerò sparare come un coniglio.
E al domani s'imbarcarono per
Calais, e presero la via di Parigi.
*
* *
Strada facendo, Rosen pensava con
dolore al triste risultato di quella sua prima avventura. Egli aveva ucciso un
uomo in duello; ciò non era poi letteralmente un omicidio, ma questo duello era
stato provocato da lui, non v'era discolpa, quel giovine
era stato costretto a battersi, e doveva a Rosen la sua morte.
Egli è uno strano e insensato
apprezzamento questo che noi sogliamo fare d'un omicidio secondo il modo e le cagioni
per cui è avvenuto. Non ne facciamo tanto una causa di umanità di principio morale quanto ne facciamo una causa
di forma: lo stesso atto ci solleva alla gloria o alla fama, o ci abbassa fino
al delitto più turpe ed alle punizioni più atroci; può essere eroismo o
assassinio, così nella guerra e nelle contese private; può essere coraggio ed
onore, così nel duello.
Rosen, lungo la via, ritornava
colla mente su questi pensieri, e meditava con dolore
su quella triste avventura di Dover.
- Che ne
pensate? diss'egli rivolgendosi a Lamperth che
dormicchiava rannicchiato in un angolo della vettura.
- Di che cosa?
- Del mio duello di ieri.
- Male, male; se
avete intenzione di farvi uccidere, non dovete però uccidere gli altri; vi sono
mille maniere di morire; vi confesso che fui dolorosamente impressionato da
questo fatto.
- Avete ragione, soggiunse Rosen
con aspetto mortificato, non mi cimenterò più in duello, vi è qualche cosa
d'istintivo che ci spinge nostro malgrado a
difenderci; ma, giacché la natura ci ha dato una sola via al nascere - come a
cosa triste - e ce ne ha aperte mille al morire - come a cosa molto più dolce -
io approfitterò in altro modo di questa prodigalità della natura. Dite. Credete
voi che non mi sarà difficile il morire? Lo sperate?
- Speriamolo, sì, disse Lamperth;
se il voto di una persona che vi ama può avere qualche influenza sul vostro
destino, vi giuro che io faccio voti al cielo perché il vostro desiderio venga esaudito.
- Vi ringrazio, rispose Rosen
scuotendo la mano che il suo amico gli aveva sporto senza voltarsi, come a
meglio rassicurarlo della sincerità del suo voto, vi ringrazio dal più profondo
dell'anima: e pronunciò queste parole quasi commosso,
e colla più schietta effusione di cuore.
In quella sera stessa Rosen e
Lamperth giunsero ad Amiens. Alla porta del paese Rosen, essendosi arrestato
per contemplare lo spettacolo della città, come è
costume d'ogni buon inglese, vide affisso alla parete un ampio cartellone
decorato da alcune figure d'animali in inchiostro rosso, e vi lesse queste
parole:
«Grande
serraglio di belve viventi del signor Gustavo Lachard. Due tigri, quattro
pantere, una grande varietà di scimmie, un elefante, e
due leoni africani. Alle ore otto vi sarà il pasto delle fiere. Mezz'ora prima
il rinomato domatore Gustavo Lachard entrerà nella gabbia dei leoni.»
Rosen guardò l'orologio, erano le
sette ore passate; mancavano pochi minuti alla rappresentazione. Egli si
rivolse a Lamperth, e gli disse, indicandogli quel manifesto:
- Volete che andiamo a visitare
questo serraglio? può essere che vi abbia a trovare
qualche avventura favorevole a' miei disegni.
- Andiamo, disse Lamperth, e giunsero in breve al recinto.
Dopo che il signor Lachard uscì
dalle gabbie dei leoni, e la folla si ritirò a poco a poco e si disperse, Rosen
disse al suo compagno stringendogli la mano:
- Credo, mio caro
Lamperth, di aver trovato un modo infallibile per farmi uccidere; permettete
che non vi dica altro; andate all'albergo del Ciclope dove fra un paio d'ore o
mi rivedrete vivo, o avrete la notizia della mia morte. Vi raccomando la lettera per mia
moglie.
- Non temete della mia puntualità -
e si portò la mano sul cuore - mi dispiace di perdervi sì presto, ma se ciò è
inevitabile... Vi auguro buona fortuna.
- Rosen, lasciato solo, chiese di
parlare col signore Lachard, e trattolo in un angolo
del recinto gli disse:
- Io sono un barone inglese
appassionatissimo del lottare e bramo cimentarmi con qualche lottatore
evidentemente più forte di me. Desidero di combattere con uno dei vostri leoni, ma è necessario che ciò rimanga un segreto
tra noi; occorre che voi mi lasciate solo in questo serraglio, e che si creda,
per vostra e mia giustificazione, che io vi sia entrato senza il vostro
consenso, e avendo aperta io stesso la gabbia, come farò, sia stato assalito
dalla vostra bestia. Quanto è il prezzo di questo animale?
io ve lo pagherò due volte.
- Non meno di
cinque mila franchi, disse il domatore; parlo di Behemet, il più alto e il più
forte: l'ho comprato io stesso a Bourck, sul limite occidentale del deserto;
non ha ancora due anni compiuti e non gli manca un pelo. Ma, intendiamoci, io non debbo saper nulla di ciò; io mi ritirerò dal serraglio come
faccio tutte le sere, e voi sarete un imprudente che vi sarà entrato senza mia
licenza, ecco tutto; se poi voi ucciderete il leone, la cosa rimarrà tra noi, e
non avrà altra conseguenza.
Rosen gli sborsò dieci mila
franchi; e siccome la sera era già molto inoltrata, il domatore licenziò il suo
guardiano, e lasciò Rosen nel recinto di cui socchiuse appena la porta, dopo
avergli detto:
- Vi auguro che abbiate ad uscirne
gloriosamente, ma temo che Behemet vi saprà spianar le costure.
Rimasto solo Rosen comprese di
esser posseduto da un panico indefinibile, e vi fu un istante in cui si sentì tentato
di rinunciare a quella specie di morte, e di raggiungere Lamperth all'albergo
del Ciclope, per combinare con lui su qualche mezzo di distruzione meno
inumano. Ma era troppo tardi. E
d'altra parte, giacché era d'uopo morire, conveniva accettare quel mezzo che
era più pronto, più sicuro e che non avrebbe lasciato concepire alcun sospetto
d'inganno sulla sua fine. Chi sa! Forse il morire tra le zanne d'un leone
poteva essere più dolce, più rapido che il morire di
ferita o di veleno, o per altra causa qualunque - certo era più verosimile e
più ardito.
Animato da questo ragionamento,
Rosen si avvicinò alla gabbia, e sollevò le tre aste di ferro che né formavano
l'uscio. Paralizzato dal timore, colle mani appoggiate sull'orlo dello
steccato, in atteggiamento di vittima rassegnata aspettava
che Behemet uscisse.
Il leone dopo essersi allungato due
volte e aver sbadigliato lungamente inarcando la lingua come una bestia che sa di potersi pigliare i suoi comodi, si affacciò allo
sportello, guardò con aria d'indifferenza il barone di Rosen cui era venuto,
suo malgrado, la pelle di cappone; e discendendo nello spazio riservato agli
spettatori, incominciò a passeggiarvi per lungo e per largo, agitando la coda,
e mandando un certo suo ruggito prolungato e sommesso in suono di soddisfazione
e di gioia.
Quando Rosen si
avvide che Behemet non si curava di lui, avendo ripreso animo in quel breve
intervallo di tempo, discese ed affrontò arditamente il leone, cui percosse
d'un colpo di frustino.
A quella provocazione, Behemet, come una bestia ubbidiente, si ritirò
precipitosamente nella sua gabbia, Rosen lo inseguì, ed essendosi munito d'un asta appuntata di ferro, lo stimolava con quella ad
uscirne. Il leone, rannicchiatosi nel fondo del suo covacciolo, ruggiva e
spalancava le fauci orribilmente senza avventarsi; Rosen era al colmo
dell'impazienza e dell'ira.
Dimenticando che egli parlava con un leone - Uscite, gli gridava, uscite da
cotesta gabbia, miserabile. Ma tutto era indarno, Behemet, non intendeva questo
linguaggio provocatore, e rimaneva quieto come olio.
Disperando di potersi misurare con
lui, Rosen decise di entrare nella gabbia delle pantere, ma si avvide che
Lachard, toltone quel solo, aveva assicurati tutti gli sportelli con due buoni
giri di chiave.
- Ah! Lachard assassino, esclamava
Rosen acciecato dalla bile, egli sapeva che questo era un coniglio, e mi ha
arraffato dieci mila franchi senza lasciarmi il compenso d'una scalfittura, ma rivedremo le nostre partite domani.
E gettando uno sguardo pieno di
disprezzo nella gabbia di Behemet, uscì dal serraglio, e corse difilato
all'albergo del Ciclope.
*
* *
Lamperth che stava rivedendo alcune
sue carte presso una tavola su cui si scorgevano gli avanzi della sua cena, si
mostrò molto meravigliato del ritorno di Rosen, il quale era si acciecato dallo
sdegno che a stento potè fargli il racconto di questa sua nuova sventura.
- Che
domando io? Che voglio? Che
spero? Morire, ecco tutto; la cosa più semplice, più facile, più naturale del
mondo, diceva Rosen nel conchiudere il suo racconto, e tuttavia eccomi
condannato da una desolante fatalità a sopravvivere a tutti i miei sforzi, a
tutti i pericoli cui mi espongo per impedirlo. Ahi vi
giuro che io affronterei in questo momento qualunque rischio, approfitterei di
qualunque circostanza per uscire di questo stato.
- Calmatevi, gli rispondeva
Lamperth, non ve ne mancheranno mai le occasioni, bisogna aver fede: intanto
ordinate la vostra cena, lo stomaco ha le sue esigenze, e credo che voi
dobbiate avere appetito.
- È vero, disse Rosen, cenerò;
l'uomo è il servitore d'uno stomaco, anzi l'uomo è uno stomaco, la credo la
definizione meno inesatta fra le tante che si son
fatte di questo animale. E ordinò una costoletta di
castrato colle patate.
Non aveva Rosen addentato la sua costoletta,
che un nuovo arrivato entrò nella sala, e venne a sedersi di faccia a lui, dal
lato opposto del tavolo.
Rosen era tutt'occhi
nell'osservare i movimenti di quel suo commensale, e si augurava che la punta
d'uno de' suoi stivali venisse a colpire uno de' suoi stinchi per aver ragione
di bisticciarsi, quando l'altro cacciando il naso nel suo piatto e indicandolo
col dito al cameriere gli disse: - portami una vivanda come quella... è una
costoletta di castrato in salsa dolce.
- Voi mentite per la gola, o
signore, disse Rosen sollevandosi un poco dalla sedia,
questa costoletta è in salsa piccante.
- Per il cielo, esclamò l'altro un
po' turbato da quella sorpresa, voi ci tenete molto al sapore della vostra
costoletta e ne fate una questione di onore; del resto
non c'è che dire, vi siete servito di una espressione felicissima; trattandosi
di sapori, io ho precisamente mentito per la gola. Voi siete
inglese?
- Di Londra.
- E contate di attraversare la Francia?
- Precisamente.
- Dubito se arriverete al termine
del vostro viaggio senza trovare qualcuno che...
- Che
cosa?
- Che
v'abbia a rivedere il pelo. Siete mai stato in
Guascogna?
- Oh! che
voi siete Guascone?
- Per l'appunto.
- È una provincia che in fatto di
millanterie ha delle tradizioni grandiose; spero che saprete farmi conoscere
tutta la estensione del pericolo che io avrei corso se
vi avessi insultato nel vostro paese.
- Voi siete un pazzo o un
imbecille, disse l'altro che era tutto sangue di guascone, illividendo fin
sulla punta del naso; venite qui dietro le mura, e ci
taglieremo due dita di fegato.
- Sono a vostra
disposizione, rispose Rosen. E si accommiatò da
Lamperth che gli diceva all'orecchio: - abbiate giudizio, contenetevi da uomo
onesto, lasciatevi ammazzare, pensate a vostra moglie, pensate che quell'uomo
fu provocato da voi e che la fortuna non vi regalerà tutti i giorni di queste
magnifiche occasioni.
- Non dubitate, disse Rosen, spero
che mi vedrete tornare in lettiga.
Rosen e lo sconosciuto giunsero in breve tempo dietro lo spaldo; alcuni avventori
dell'albergo che avevano inteso quel battibecco li seguivano da lontano, e un
amico del guascone portava le due sciabole sfoderate sotto il mantello.
- Avete i vostri padrini? chiese lo sconosciuto all'inglese.
- Non ne ho alcuno.
- Non importa,
questi signori serviranno come testimonii ad entrambi. Già, non
escluderemo i colpi di testa e di punta, e ci batteremo fino a che uno di noi
non sia rimasto sul terreno.
- Siamo intesi,
era la mia intenzione.
- Allora possiamo incominciare.
- Incominciamo.
E il Guascone, senza attender altro,
si assicurò bene nel pugno la sua sciabola, e si scagliò furiosamente sul suo
avversario. Rosen lo attendeva di piè fermo. La notte era sì
buia che l'uno poteva distinguere a stento la direzione dei colpi dell'altro:
gli spettatori vedevano nulla o pressoché nulla; distinguevano due masse nere
agitarsi, avventarsi; vedevano di quando in quando il lampeggiare delle lame su
cui si rifletteva un debole filo di luce che proveniva dal fanale dello spaldo,
e sentivano il cozzo frequente delle sciabole senza poter giudicare quale dei
due avversarii avesse maggiore perizia nelle armi, e desse indizio di uscirne
vincitore.
Ma ad un tratto uno di essi si arresta, vacilla, cade: gli spettatori si gettano
sopra di lui... era il guascone.
Che cosa era avvenuto? Il francese era
un pessimo schermitore, Rosen non aveva ancora trovato il tempo di scoprirsi
opportunamente, quando avendogli fatta una finta di destra, l'altro vi
rispondeva con una parata di sinistra, e, investendo la sua sciabola, si feriva
gravemente al collo, senza che il suo avversario avesse alcuna
intenzione di farlo.
Rosen era rimasto pietrificato dal
dolore e dalla meraviglia. Vi era senza dubbio una strana fatalità che pesava
sopra di lui, che rendeva vani e funesti tutti i suoi tentativi di morire.
Mentre egli stava così appoggiato colle
mani riunite sull'elsa della sciabola, intese uno degli spettatori chiedere:
Chi è costui che lo ha ferito? E un altro
rispondergli: È un inglese. - Bene. Bisogna chiedergli
ragione di questo fatto: non si può dirlo un duello questo; non v'erano
padrini, non v'era nulla di regolare; è stato un omicidio bello e buono.
Guardate, il morto è un francese, è un guascone, e si sono
battuti per una costoletta; c'è qui il suo collega Pirolet a confermarlo; non
bisogna permettere che questo marrano d'inglese se ne vada via liscio liscio:
facciamo le cose per bene, conduciamolo al Commissario di polizia.
Rosen che all'intendere da
principio quelle parole, aveva sentito discendergli nel cuore un debole raggio
di speranza, rabbrividì tutto quando udì discorrere del Commissario di polizia;
e conobbe che era necessario l'andarsene quatto quatto, se era ancora
possibile, e partire in quella notte stessa da Amiens.
Ma egli non aveva fatto ancora
questa risoluzione che si vide circondato da tutta quella folla, e udì uno di essi che gli s'era avvicinato più degli altri, imporgli di
consegnargli la sciabola, e di seguirlo all'ufficio del dipartimento. Rosen
prese allora una grande determinazione. Avendo
osservato che alcuni fra loro erano armati di stocco,
e che uno di essi teneva tra mano la spada del suo avversario, immaginò che gli
sarebbe riuscito agevole il farsi uccidere da tutta quella gente, gettandovisi
in mezzo come uomo perduto, e menando botte alla cieca per costringerli a
restituirle.
Detto fatto - non è che un punto -
Rosen impugna la sua sciabola a due mani, e piomba in mezzo a quei malarrivati
picchiando a destra e a sinistra, ove gli capita meglio,
e gridando con quanto ha di fiato - paltonieri, miserabili, anime di conigli,
difendetevi, arrestatemi se ne avete il coraggio.
Ma egli conseguisce così uno scopo
affatto opposto: tutti quegli uomini spaventati da tanto ardimento si danno
alla fuga, e Rosen non ha che il dispiacere di vederne quattro cadere feriti al
suo fianco, e la certezza che questo avvenimento va a
creargli una terribile responsabilità in faccia alla sua coscienza, e ciò che a
lui più importa, una responsabilità non meno fatale in faccia all'autorità
governativa.
Rosen si decide
su due piedi: nessuno lo conosce ad Amiens; non ha detto il suo nome a nessuno;
appena ne hanno intravista la figura alla luce del fanale; egli si getta alla
campagna e tenta di giungere nella notte a Montdidier, servendosi di qualche
cavalcatura che spera acquistare in una fattoria, lungo il viaggio.
Un'ora dopo questo
avvenimento Lamperth riceve da un contadino un biglietto così concepito:
«Caro Lamperth, - Un destino
singolare, altrettanto che inesorabile, rende infruttuosi e funesti tutti i
miei disegni di morire. Io vivo a dispetto mio, ad
onta di tutto e di tutti. Avrete inteso che ho ucciso quel guascone, e ferito
quattro o cinque francesi che volevano tradurmi, come un malfattore,
all'ufficio di polizia. Questo avvenimento mi costringe a riparare a Montdidier
senza esser visto, giovandomi d'un cattivo cavallo che
ho acquistato ora in una casa di coloni da cui vi scrivo. Vi aspetto dunque a
Montdidier, al Caffè della Pace, dove si beve il miglior fiore di latte che si trovi
in tutta la Francia.»
*
* *
Mentre Rosen cavalcava per quelle ridenti
campagne che corrono da Neufchatel, fino a Hermont e fino alla riva dell'Oise,
pensava a quella sua vita spensierata di Londra, a sua moglie, a' suoi amici,
alle sue ricchezze dissipate, e a quello strano capriccio della fortuna che gli
aveva indicato per rimediarvi una via sì colpevole e sì singolare.
La notte s'era fatta piovosa, e
Rosen era triste. Mai, come in quel momento, egli aveva sentito un più vivo
desiderio di morire: mai come in quel momento, la
fortuna aveva sembrato allontanarlo di più dalla morte. Era cosa sì difficile
il morire? Egli sentiva in sé una pienezza di vita straordinaria, un'armonia
inusitate in, tutte le, funzioni della sua macchina:
un ordine, uno scorrere del sangue sì calmo, sì regolare, sì dolce, che non
aveva conservato memoria di aver provato mai un simile stato di benessere,
anche negli anni della sua fanciullezza.
Quel trotto monotono della sua
cavalcatura sembrava cullarlo a guisa di un bambino; l'acqua che gli percoteva
a spruzzi leggerissimi e quasi vaporosi sui capelli e sul viso, pareva
accarezzarlo come una mano di donna adorata; il vento che spirava leggerissimo,
pareva soffiargli sul viso come l'alito profumato d'una fanciulla;
oltre a ciò gli alberi erano pieni di usignuoli che cantavano nonostante
l'imperversare della pioggia; e vi era nell'aria qualche cosa di sì voluttuoso
e sì molle che rendeva impossibile qualunque sentimento che non fosse stato
calmo, affettuoso e gentile.
Ad onta di questo stato di cose,
Rosen pensava in che modo gli sarebbe riuscito domani di morire, giacché egli
era intollerante d'indugii, e vagheggiava nuove venture e nuovi progetti.
Ad ogni ombra che pareva disegnarsi
ai lati della via, ad ogni lieve rumore di passi, il cuore di Rosen batteva più
concitato e si riapriva alla speranza e alla gioia. Egli entrò ad arte nelle
macchie, e attraversò il piccolo bosco di Cok-sautin trattenendo quasi il respiro tanta era la sospensione d'animo in cui si
trovava, e l'impazienza di imbattersi in qualche pericolo, o di dare in una
imboscata di malandrini.
Ogni gruppo di piante gli pareva un
assembramento di ladri, ogni cespuglio un assassino appostato sul suo sentiero,
ogni ramo coperto di lichene bianco una lama di coltellaccio, o una canna di
trombone.
Egli pensava in che modo si sarebbe
contenuto con essi. Certo i ladri non sarebbero stati
meno di due o di quattro, forse anche di più - che gioia!....
e avrebbero avuto delle buone armi.... E come trattarli?... Colle buone?.. peggio!
non si sarebbe fatto nulla: bisognava dir loro -
assassini, furfanti, paltonieri, non mi sfuggirete; sono il Commissario
generale io, domani sarete arrestati, e giuro al cielo che vi farò impiccare
come tanti cani, senza darvi il tempo di fare un esame di coscienza.
Rosen si era talmente investito
della sua parte che inveiva ad alta voce contro questi assassini immaginarii
come se li avesse avuti dinanzi, ed era già uscito dal bosco di Cok-sautin
senza avvedersene.
Il giorno era sull'albeggiare allorché
egli incominciò a scorgere in lontananza i campanili della città, e sentì i
rintocchi misurati di una campana che pareva suonare l'allarme. Aguzzando lo
sguardo su quella linea bianchiccia dell'orizzonte, sul cui fondo si
disegnavano a masse oscure e confuse le case di Montdidier, gli parve
distinguere un'ampia colonna di fumo che si sollevava a spire nere e pesanti e
si riuniva alle nubi che pendevano ancora fitte ed oscure sulla città. Rosen
spronò il suo cavallo, e come fu più dappresso alle mura, distinse delle lingue
di fiamme che uscivano dal tetto e dalle finestre d'una
casa, e conobbe che si trattava d'un incendio.
Rianimato da questa nuova speranza
abbandonò le briglie sul collo della sua cavalcatura, le ficcò nel ventre gli
sproni e giunse alle porte di Montdidier prima che gli abitanti di quel paese,
che hanno fama di essere la gente più dormigliona, e le teste più tarde di tutta la Francia, fossero accorsi a domare in qualche
modo l'incendio.
Rosen arrivò dunque dei primi, e
non aveva ancora avuto agio d'osservare da che parte e con quale pretesto
avrebbe potuto gettarsi, nella casa incendiata, che lo colpirono
queste voci:
- Bisogna salvare papà Caupin,
povero papà Caupin! egli deve essere inchiodato sul
suo letto dall'artritide... egli morrà soffocato. Non vi è alcuno che voglia
salvare papà Caupin?
- Sono qua
io, disse Rosen, dove è la stanza di questo malato?
- O signore, che il cielo ve ne
rimuneri; è la prima stanza a sinistra, al secondo
piano, vi è l'uscio lì sulla scala; se non vi fosse lo trovereste nel gabinetto
appresso.
Rosen senza aspettar altro, sicuro
che quel mezzo di morte era infallibile, entrò sorridente nel pianerottolo e si
avviò risoluto su per le scale, esclamando tra sé stesso: è la provvidenza che
mi ha mandato a Montdidier.
Ma non aveva
salito due gradini che le fiamme lo circondavano da tutte le parti, e
gli toglievano il respiro; i capelli e la barba friggevano cagionandogli
terribili scottature alle guancie; i suoi abiti incominciavano ad arricciarsi;
e fu caso se un sentimento istintivo di umanità e la fermezza sua nel proposito
di morire, valsero a spingerlo fino al secondo piano nella stanza di papà
Caupin che giaceva svenuto sul pavimento. Sollevarlo, recarselo sulle spalle,
ridiscendere a precipizio le scale, fu l'opera d'un istante per Rosen, che si
presentò alla folla accolto da una salva di grida e di
battimani; e stava per rigettarsi nell'incendio, quando si sentì afferrare
l'abito da una giovine donna tutta discinta e coi capelli disciolti a onde giù
per le spalle, che gli diceva lacrimando: - Deh? per
carità, signore, salvate i miei due bambini, li troverete nella terza stanza a
destra, al terzo piano... ma fate presto.... andate... pregherò sempre il cielo
per voi!
Rosen non aspettava altro, e si
ricacciò nell'incendio. Fu visto ricomparire poco dopo, tenendo nelle braccia i
due fanciulli che venne a consegnare alla loro madre,
ma sì sfigurato dalle bruciature e dalle fatiche, che lo si poteva riconoscere
a stento. Nondimeno egli non aveva smarrito ancora la
ragione, né dimenticato lo scopo vero e diretto del suo disegno.
Benché stordito dal dolore, affannato
dall'anelito, e quasi acciecato dal fumo e dalla luce, si gettò una terza volta
nelle fiamme. Gli spettatori tentarono invano di trattenerlo, gridando: - Cosa
fate? È inutile... non c'è più nessuno da salvare.
Povero giovine, non capisce più nulla... già... non
discenderà più questa volta. Che eroismo! che cuore! Ed è dei nostri? È di
Montdidier?
Ma Rosen non aveva inteso o voluto
intendere nulla: era suo disegno di raggiungere il piano più elevato, buttarsi
sul primo pavimento che minacciasse di sfondare, e farsi travolgere con esso nelle rovine.
Era giunto così al quarto piano,
sotto l'arco di un uscio che poneva in comunione due stanze; le travi dei due
solai crepitavano, e le fiamme ne uscivano qua e là lungo le pareti; egli
scelse quello tra i due che pareva sarebbe sfondato
più presto, ma vi s'era appena gettato che vide l'altro piegarsi nel mezzo,
aprirsi e precipitare scompostamente con un orribil rovinio, mentre quello su
cui egli stava distaccatosi soltanto dalle pareti, scendeva dolcemente tutto
intero, e senza piegare, sfondando i piani sottostanti che ne ammorzavano
l'urto e la rapidità col loro ostacolo.
In una parola Rosen si trovò in
fondo come se ve lo avessero calato con delle carrucole, e non aveva avuto tempo a meditare sulla sua situazione, che gli
spettatori, vistolo dalle finestre del pian terreno, vi penetravano da tutte le
parti, e lo estraevano, suo malgrado, da quelle rovine.
Rosen era sì sofferente e sì
addolorato che svenne. La folla piena di gratitudine e di ammirazione
per lui, lo accompagnò, acclamandolo, fino ad un'altra casa del signor Caupin,
dove fu portato in lettiga, e posto a letto per essere medicato delle sue
ferite.
Nella sera di quello stesso giorno
Lamperth, giunto a Montdidier, si recò al caffè della Pace, dove Rosen gli
aveva dato convegno, e dopo avervi bevuto il fiore di latte, che ha fama di essere il migliore che si beva nella Francia,
tolto in mano il giornale della provincia, vi lesse con suo stupore queste
parole:
«Eroismo. - Un grande
incendio si è sviluppato stamane nella casa del signor Caupin. Si avrebbero avuto a deplorare perdite dolorose, - quella dello
stesso Caupin impedito nel camminare, e di due piccoli fanciulli - se un
viaggiatore inglese arrivato in quel momento nella nostra città, non li avesse
tratti a salvamento, gettandosi, senza esitare, nelle fiamme, e riportandone
tali ferite che lo costringono al letto nell'altra casa dello stesso signor
Caupin dove venne ricoverato. Egli è certo barone Alfredo di Rosen, nativo di
Londra. Siamo lieti di annunciare che il comune di Montdidier, in seduta
d'oggi, gli ha conferita ad unanimità di voti, la medaglia d'argento al valore
civile.»
*
* *
Lamperth, dopo essersi informato
del luogo ove era situata la casa del signor Caupin, andò a rendere una visita
a Rosen. Lo trovò profondamente abbattuto, e sì trasfigurato dalle scottature e
dalla perdita delle sopraciglia, dei capelli e della barba, che durò fatica a
riconoscerlo. Lamperth stesso che non aveva un cuore tenero come la giuncata,
si sentì tutto rimescolare a quella vista, e stendendogli la mano con atto di
pietà e d'interessamento che pareva, ed era certo, sincero, gli chiese: Come
state?
- Voi vedete in me, gli disse Rosen
con aria di abbattimento profondo e senza rispondere
direttamente alla sua domanda, voi vedete in me un uomo che è
incontrastabilmente il più sventurato fra quanti abbiano patite sventure d'ogni
sorta nel mondo. E ciò non di meno sento che questo
dolore non ha il potere di uccidermi; e ho non so quale presagio nel cuore che
mi dice che io devo vivere, vivere inesorabilmente a dispetto della mia
volontà, e de' miei progetti. Ah! domandare soltanto
di morire.... e non poter morire! È una cosa orribile! - Che
volete? sono travagliato da un'idea fissa, da un
dubbio, da un sospetto che mi atterisce. Sarei io mai dotato di una natura
immortale? È un pensiero che mi fa rabbrividire, e non di meno non lo posso
scacciare dalla mia mente. È un pensiero che se io fossi suscettibile di
morire, basterebbe solo ad uccidermi.
- Sentite, riprese Rosen dopo
qualche intervallo di silenzio, se io potessi morire di veleno, dopo il fatto
di ieri, dopo che si conosce a Montdidier la mia qualità di barone, credete che
potrei destare sospetto di suicidio?
- Non lo credo, disse Lamperth, ma
dovete pensare che ne cadrebbe il sospetto sopra persone innocenti. Le cronache
giudiziarie registrano a questo proposito dei fatti terribili, e i primi
tentativi che avete fatto per morire vi hanno già creata
una responsabilità abbastanza grave.
- È vero, interruppe
Rosen, con accento mortificato, ma la verità verrebbe poi sempre alla luce,
E avendo veduto che Lamperth aveva
come accennato del capo in atto di adesione, dopo un
istante di silenzio, afferrò le sue mani, si sollevò un poco sul guanciale, e
gli disse con suono di voce supplichevole:
- Lamperth, mio buon amico, ve ne scongiuro, deh! procuratemi un
veleno.
- Impossibile,
rispose Lamperth con aspetto grave e severo; io posso assistere alla vostra
morte, posso assecondare fino ad un certo punto i vostri disegni, giacché ho
compreso che è impossibile di potervene distogliere; ma non posso procurarvi io
medesimo i mezzi di morire, Rivolgetevi ad altri, La mia coscienza m'impedisce
di favorirvi,
- Bene, bene, disse Rosen, sia come
non detto, ma ciò non di meno voi sapete che ho della
simpatia per voi…. voi siete incaricato di una lettera
per mia moglie... avete ricevute le mie confidenze... ve ne prego, ottimo
signor Lamperth, non mi abbandonate sì presto.... Se non posso morire qui,
conto di venire con voi in Italia, dove credo che un uomo che non chieda che di
morire, possa correre miglior fortuna che in Francia,
- Oh! in
quanto a questo rassicuratevi, disse Lamperth, io vi seguirò dappertutto, e
indugierò a partire da Montdidier fino a che non sarete guarito. Tanto più che
si beve realmente dell'ottimo fiore di latte a
Montdidier... bisogna dirlo, non è un cattivo soggiorno...
- No, no, riprese Rosen, vi ho passati alcuni mesi nella mia infanzia, e non è veramente un
soggiorno dispiacevole, ma io non domando che di morirvi.
- Speratelo,
conchiuse Lamperth stringendogli la mano, e accomiatandosi da lui; la fortuna è
capricciosa, e può concedervi domani ciò che vi ha rifiutato oggi; e quando
meno state in aspettazione delle sue grazie, colmarvi de' suoi doni e de' suoi
favori. Ma rimanete tranquillo; verrò a rivedervi domani; spero trovarvi
peggiorato.
Appena Lamperth si fu allontanato,
ciò che Rosen aspettava con impazienza, egli fece chiedere d'un giovine commesso di farmacia che gli aveva recate alcune
medicine, e applicate alcune striscie di taffetà nel giorno antecedente, e gli
disse:
- Voi dovete essere un ottimo
ragazzo, e ho in mente di giovarvi per quanto mi è possibile, combinando
l'interesse vostro ed il mio in un affare che vado a
spiegarvi in due parole. Il cuore mi dice che noi riusciremo a qualche cosa. Ecco come sta il fatto. Si tratterebbe di un.... bisognerebbe.... ascoltatemi.
- Dite, io sono
tutto orecchi.
- Vado a spiegarmi: io ho un'amante
nel mio paese, una ragazza a dovere... figuratevi...
una bellezza rara, una bellezza prodigiosa; una di quelle donne che hanno
diritto a pretendere in un amante delle attrattive irresistibili.... ora... non
dico d'averle avute io, ma certo... voi lo vedete, la mia faccia, i miei
lineamenti sono alterati, io sono ora un uomo brutto, diciamolo francamente,
brutto, è la parola. Io non ho più il coraggio di farmi rivedere da lei in
questo stato, ho preso una risoluzione energica, irremovibile; ho deliberato
di... Come vi chiamate signor Tricotèt?
- Tricotèt, l'avete detto.
- E a che
somma ascendono i vostri onorarii?
- Oh! ad
una somma assai lieve, se volete, ma considerevole sempre per un giovine
commesso di farmacia, a venticinque lire mensili.
- Bene! riprese
Rosen, sappiate adunque che per i motivi che vi ho esposti, io ho deliberato
di... morire; e vi darò qui su due piedi venticinque mila franchi se voi mi
procurate un veleno per farlo.
- Un veleno! esclamò
Tricotèt alzandosi due spanne dalla sua sedia; ma, signore, se non è che il
timore della vostra deformità che vi consiglia questa determinazione, io vi
assicuro che voi guarirete: fidatevi di me, sono in grado di accertarvelo, io;
studio il terzo anno di farmaceutica; e non sono più di due mesi che colla
pomata vergine di Vernicot, ho fatto rinascere le ciglia e i capelli
all'illustrissimo signor Verrier, che è l'avvocato generale del dipartimento, e
che era raso quanto una guancia... Avete detto venticinque mila franchi?
- Venticinque mila.
- E che
veleno vi occorrerebbe?
- Oh! un
veleno qualunque..... purché sia potente, pronto, efficace, ma sopratutto
potente.
- In quanto
a questo, non avreste a temere.... credo avervi detto che studio il terzo anno
di farmaceutica; queste cognizioni le ho sulle punta delle dita.
- Bene, bene, riprese Rosen,
pensateci seriamente, ne va della vostra fortuna.
- Ci penserò,
disse Tricotèt avviandosi verso la porta per uscirne. Ma non aveva ancora
chiuso l'uscio dietro di sé, che ritornò nella stanza
di Rosen e gli disse:
- Signore, ci ho pensato... parmi
di poter accettare.... ho a mia disposizione una certa
pasta nera, il cui effetto è terribile, è immediato, benché procuri una
irritazione intestinale abbastanza sensibile... se voi credete... se persistete
nella stessa offerta, io ve la potrei procurare dietro la riscossione della
somma su cui abbiamo convenuto.
- Non v'è che dire, riprese Rosen,
voi mi darete il veleno... la pasta.... ciò che dite,
ed io vi sborserò i venticinque mila franchi.
- Accettato, rispose Tricotèt con
risolutezza, volo a provvedermene: fra due minuti sarò di ritorno.
Rosen, sicuro finalmente di morire,
si abbandonò tutto alla voluttà di questo pensiero.
Un istante dopo Tricotèt ricomparve
portando con sé un piccolo vaso ripieno d'una pasta nera che liberò con molta
precauzione da cinque o sei fogli di carta in cui era
avviluppato, e lo presentò a Rosen dicendogli: - Non avrete tempo a prenderne
quattro boccate che sarete freddo.
Rosen gli sborsò i venticinque mila
franchi che erano tutto ciò che gli rimaneva della sua
fortuna. Tricotèt li intascò con tutta l'impassibilità d'un uomo d'affari;
ridiscese a saltelloni la scala, e, preso un posto nella diligenza di Lafitte,
partì in quella stessa mattina per Parigi
- Rosen, rimasto solo, si raccolse
tutto in sé stesso, richiamò tutte le sue memorie, ripensò alla sua
fanciullezza e a sua moglie, fece un breve esame di coscienza, si pose in pace
alla meglio con essa e con sé medesimo, e dato un
addio alla vita e alle sue rimembranze, rinchiuse gli occhi e ingoiò in
quindici o venti boccate tutto il suo veleno.
Era un sapore acre ma dolce, e
pareagli d'averlo gustato altre volte; non aveva nulla di disgustoso, nulla di
forte, e Rosen stava per dubitare della fede di Tricotèt, quando lo
incominciarono ad assalire degli spasimi colici così potenti che non potè
trattenere suo malgrado le grida. Erano dolori
orribili, insopportabili, atroci. Rosen, come tutte le nature vivaci, ma deboli,
era vile dinnanzi al dolore. I suoi lamenti fecero accorrere il signor Caupin
che, non ostante le sue proteste, si affrettò a mandare pel
medico.
Rosen nell'entusiasmo del suo
sacrificio non aveva preso tutte le precauzioni opportune, e aveva dimenticato
sul tavolo il vaso del veleno. Se ne avvide troppo
tardi quando il medico se l'era già tolto in mano, e esaminandone le reliquie
gli diceva:
- Che diavolo avete
preso o signore? Chi è quell'asino di dottore che vi ha fatto una simile
ordinazione? Oh la scienza! E c'è tanto da vergognarsene... siamo giunti
davvero a un bel punto!... Quattr'oncie di conserva di
prune coll'emetico! È una cosa orribile, un'ordinazione da cavallo!....
- È il signor Tricotèt, mormorò
Rosen tra lo spasimo, un commesso di farmacia che....
- Il signor Tricotèt!.... diamine... ho trovato or ora il suo padrone, il degno
farmacista Sapiston, che ne va in cerca per monti e per mari; egli ha ricevuto
in questo momento una sua lettera in cui gli annunzia che parte oggi stesso per
Parigi, e va ad acquistarvi una delle farmacie meglio avviate della capitale.
- Ah Tricotèt scellerato! disse Rosen, tenendosi il ventre colle mani, piccolo
malandrino! giuro al cielo che io vo' guarire a posta,
rinunciare a tutti i miei progetti per andargli a strappare le orecchie a
Parigi.
- Via, via, disse il dottore in
aria di conciliazione, quel piccolo monello vi ha fatto uno scherzo di cattivo
genere, ma la cosa non ha in sé nulla di conseguente,
prima di domani sarete perfettamente guarito.
Venti giorni dopo questo avvenimento, Rosen ristabilito della sua malattia,
prendeva con Lamperth la strada della capitale.
Un nuovo campo di
avventure doveva aprirsi adesso per Rosen. In quel gran centro che è Parigi dove le statistiche registrano ogni giorno
centinaia di furti, di aggressioni, di delitti, di calamità d'ogni genere, non
doveva riuscirgli difficile di morire. Almeno Rosen lo sperava; considerava le
avversità passate come un brutto giuoco della fortuna,
ma nulla più che un giuoco; era impossibile ch'essa potesse contendergli più a
lungo la realizzazione di un desiderio sì semplice e sì naturale, il compimento
di un destino inevitabile e comune a tutte le cose. Oltre a ciò egli era
divenuto triste e soffrente; bisognava aggiungere alle cause che lo eccitavano
a desiderare con tanta ostinazione la morte, quel non so
che di mesto e di inusitato che gli era provenuto dalla sua infermità, e il
dispiacere delle traccie che ella aveva lasciato sulle sue fattezze. Perché
Rosen ci teneva alla sua avvenenza, e non aveva totalmente mentito quando aveva
detto a Tricotèt che non avrebbe potuto reggere al pensiero di rivedere l'Inghilterra così malconcio.
Il più delle volte noi amiamo di essere belli per noi stessi, perché amiamo anzi tutto noi
stessi, e consideriamo la bellezza fisica come un riflesso, come un'espressione
della bellezza morale.
I fanciulli
che ignorano ancora tutta l'influenza che la beltà esercita sugli affetti,
ambiscono nondimeno di essere leggiadri, ed è questo il primo istinto di vanità
che apparisca ordinariamente nell'uomo. Vi furono in ogni tempo delle donne
segnalate per avvenenza straordinaria, le quali non amarono alcuno, e furono
tuttavia felici, e trovarono nella sola coscienza di questa loro beltà un
conforto a mali grandi e reali della vita che non avrebbero saputo tollerare
altrimenti. Egli è che esse amavano potentemente e sovra tutto sé stesse; e si
è spesso tentati di credere che quell'amore che si dà ad altrui non sia che
un'esuberanza, un residuo di quello che si dà a noi medesimi. Si toglie a sé, e
si dà ad altri; più amate altrui e meno amate voi stesso: da ciò il sacrificio
in amore, e quella legge immutabile di egoismo che lo
governa provvidamente e lo frena.
Rosen incominciò da quei giorni una
nuova serie di tentativi.
Risoluto a non ritentare le sorti
del duello che non gli avevano fruttato fino allora che dei rimorsi crudeli,
immaginò nuove imprese e nuovi disegni: ma non era così agevole l'immaginarne di efficaci e di utili. Ne concepiva molti, e molti ne rigettava come ineffettuabili. Vi era sempre in ciascuno di essi qualche ostacolo, qualche conseguenza probabile che lo
distoglieva dall'eseguirla. Perché egli si era fatto saggio dopo quelle prime
prove, e la sua coscienza infiacchitasi, come suole
nella malattia, gli suggeriva rimedii più cauti e più onesti.
In quel primo periodo della sua
dimora a Parigi aveva cercato, ma indarno, di morire con qualche mezzo comune;
si era buttato tre o quattro volte tra le carrozze che gli attraversavano la
via, come persona che ha difetto d'udito, o che non bada molto a sè per
distrazione soverchia; ma i cocchieri erano sempre stati troppo avveduti, e
s'erano sempre trovati importuni che gli avevano strillato alle orecchie: -
Ehi, signore, la si guardi, badi che le viene addosso
una carrozza; e talora ne l'avevano sottratto a forza, afferrandolo e
trattenendolo violentemente per l'abito. S'era provato a passeggiare lungamente
e pazientemente sotto i ponti e sotto le bertesche degli edificii in costruzione,
sperando la caduta d'una tavola, d'una pietra, o di un arnese qualunque che
avesse potuto ucciderlo, ma indarno: aveva girato tutto il
vecchio Parigi, e cercato tra quelle case antiche e tra quei vecchi
recinti di giardino qualche muro che minacciasse di sfasciarsi, e vi aveva
passato notti intere aspettando che rovinasse, ma non era stato più fortunato
in ciò, di quanto lo fosse già stato dapprima. Un destino misterioso
altrettanto che strano, governava la vita di Rosen.
Spesso nello scorrere per
passatempo i giornali della sera, si arrestava con un senso di sdegno e
d'invidia a meditare sull'elenco dei morti nella giornata - tre o quattrocento
ogni giorno; e tra essi molti più giovani di lui,
molti fanciulli che vi avevano diritti infinitamente minori..... E tuttavia
egli viveva…. Talora si sentiva sgomentato nello scorgere che la maggior parte
di quei morti erano vissuti fino ad una età molto
avanzata, fino a settanta, a ottant'anni; ve n'erano spesso alcuni che per poco
non avevano toccato il secolo.... Se egli avesse avuto lo stesso destino.... se
fosse stato condannato ad una vita sì lunga!
In quegli intervalli di
scoraggiamento tornavalo ad assalire il sospetto che egli fosse
dotato di una natura immortale, che tutti i suoi sforzi sarebbero riusciti
vani, eternamente vani... Non poteva reggere al pensiero di una vita che non
doveva aver fine; era questo fine che egli voleva affrettare, che egli voleva
raggiungere; e quantunque si avvedesse dell'assurdità di un simile sospetto,
n'era soventi in timore, e passava giornate angosciose, travagliato, come era,
da un pensiero così scoraggiante e terribile.
In quei giorni avendo appreso che
molti assassinii succedevano la notte nei quartieri più remoti di Parigi, sui boulevards,
al bosco di Boulogne, in quelle vecchie e strette viuzze che si trovano dal
lato occidentale della città, Rosen vi si cacciava tutte le sere, e vi errava
per lunghe ore senza frutto; rientrava a notte inoltrata, e talora, verso il
mattino, scoraggiato, prostrato, vinto da quella cieca fatalità che vigilava
con tanta costanza sulla sua vita. Oltre a ciò egli doveva struggersi di celare
l'entità della sua persona: le sue avventure di Dover e di Amiens
avevano messo la polizia sulle sue tracce, e benché egli non avesse palesato a
persona il suo nome, bastava un indizio, un sospetto, perché si fosse venuto in
chiaro di tutto. Più che di una pubblicità disonorante, Rosen temeva della
violazione del suo segreto, dell'inutilità del suo sacrificio, e delle
ristrettezze domestiche di sua moglie. Si era creato mille sorgenti di dolori,
mille motivi di pene e d'inquietudini, e comprendeva di non potervi rimediare
che morendo.
Aveva risolto di abbandonare
Parigi, quando una sera essendo entrato in una bettola, come soleva fare, per
corrervi qualche avventura, e essendosi seduto colle
spalle rivolte a un assito che tramezzava la camera, scorse da una fessura
delle tavole quattro persone, che sedevano in un angolo della stanza,
discutendo a bassa voce circa un complotto di furto che si proponevano di
effettuare in quella notte medesima. Quantunque essi
parlassero assai piano, non riuscì difficile a Rosen che stava origliando alla
fessura, d'intendere queste parole:
- Vi ripeto che il teatro
dell'Opera non finisce che dopo la mezzanotte. È impossibile che egli ritorni
prima di quell'ora.
- Ma siete
poi sicuro che il signor Meustrier vi vada tutte le sere?
- Tutte le sere.
- Bene! ma
io credo ad ogni modo che convenga indugiare fino alle undici. Sapete che al
secondo piano la signora Ronson non si corica mai prima di quell'ora, e si
ferma spesso sul pianerettolo ad inacquarvi i suoi vasi di basilico. Già, io
temo di voi, mio caro amico, perdonatemi, ma siete così smemorato; metterei un
occhio della testa che prima che siate partito e tornato per le nostre
provviste, avrete dimenticato la strada, la casa, il numero, e perfino la
qualità di dottore dell'onorevole signor Meustrier, e lo scopo per cui andiamo a rendergli quella visita.
- Via, e lo so a mente come le
litanie: vicolo della Chiusa, n. 42, piano terzo, uscio a sinistra, quattro
finestre sul vicolo, abitazione del signor Meustrier, dottore in ambo le leggi.
Ma a me passano pel capo ben altri timori.
- E sarebbero....
- Ve l'ho già detto; voglio dire
quella persona che ci spiava alla cantina del Falcone, e che sarebbe stato
scambiato per un ispettore di polizia anche da un cieco. Temo che ci abbia
uditi.
- Voi non vedete che ispettori di
polizia. Ma è tempo che andiate per le cose nostre...
già non vi dimenticherete del convegno... al tocco delle undici sull'angolo.
- E se...
- Cosa?
- Se nel
discendere e nel salire, incontrassimo il signor Meustrier, se lo trovassimo in
casa...
- In casa è impossibile, non
torniamo sulle questioni già appianate: se lo incontreremo per le scale sarà un
altro paio di maniche, bisognerà fargliele ridiscendere a capo fitto.
Rosen non volle udire altro, non
mancava più alcun dettaglio al suo piano; uscì a precipizio dalla bettola,
deciso di rappresentare la parte del signor Meustrier, e di appostarsi sulle
scale del suo palazzo. Ma la cosa più difficile era
trovare il vicolo della Chiusa; non è sì agevole il trovare un vicolo a Parigi
sulla semplice indicazione del suo nome, e Rosen temeva di compromettersi
chiedendone notizia a qualche passeggiero. Non erano però le nove, e gli
avanzavano due ore per farne ricerca: poteva sperare ragionevolmente di
riuscirvi. Fino dal primo momento che aveva sentito i
ladri accennare a quel luogo, aveva supposto che non sarebbe stato molto
lontano da quel quartiere, perché essi non si sarebbero radunati in un punto
opposto della città: era d'uopo passare ad una ad una per tutte quelle vie e
leggervi le indicazioni dei viottoli traversali: dopo ciò se tutto fosse stato
inutile, richiederne con franchezza qualche persona, e non trovando chi glielo
indicasse, cacciarsi in una vettura pubblica e farvisi condurre come a casa
propria.
Concepito questo piano, Rosen si
accinse di buon animo alle sue ricerche. Ma era inutile; il tempo volava con una rapidità spaventosa, e Rosen non era adesso
più fortunato di quanto lo fosse stato in quei giorni. Ad ogni breve intervallo
di tempo guardava con trepidazione sull'orologio, e vedeva la lancetta
affrettarsi a raggiungere l'ora fatale, senza che potesse aver indizio alcuno
di quella strada. Erano le dieci e mezzo, mancava
mezz'ora al convegno... Risolse allora di chiederne notizia ad alcune persone
che gl'inspiravano qualche fiducia, ma nessuna di esse seppe indicarglielo. Si
azzardò a interpellarne una guardia di polizia, che lo
guardò di traverso come una persona sospetta, ma anche questi non ne sapeva più
dei primi. Intanto erano già trascorse le undici, Rosen era sulle spine;
conobbe che bisognava tentare rimedii estremi, e aprendo lo sportello d'una vettura pubblica vi si buttò dentro come una persona disperata
strillando alle orecchie del cocchiere: vicolo della Chiusa, n. 42, a gran
corsa.
Il cocchiere dopo essersi raccolto
un momento quasi per chiamare a rassegna tutte le sue
cognizioni topografiche, fece scoppiettare la sua frusta, e spinse il cavallo
in una direzione opposta a quella per cui era venuto Rosen. Si corse per una
buona mezz'ora; Rosen era al colmo della desolazione; mancavano pochi minuti
alla mezzanotte, e già aveva deliberato seco stesso di
rinunciare a quel tentativo e di farsi condurre invece da Lamperth, quando vide
la carrozza voltare in una piccola via, e appena girato l'angolo, arrestarsi.
Rosen ne discese, guardò in alto e vide il numero 42 illuminato dal fanale
della strada che pareva dirgli: questa è la casa, venite. Pagò sontuosamente il
cocchiere, e raccogliendo tutto il suo coraggio entrò nell'atrio, e cominciò a
salire le scale. Era giunto appena al terzo piano, quando gli parve d'intendere
del rumore nell'appartamento del signor Meustrier; e appressandosi all'uscio,
conobbe che le imposte ne erano socchiuse, e vide
uscirne un filo di luce che le illuminava di dentro.
Non v'era dubbio, ladri non ne erano ancora usciti; bisognava usare dell'audacia, far la
parte del signor Meustrier, entrarvi, assalirli, e lasciarvisi sgozzare come un
agnello. Ma Rosen non aveva ancor messa la mano
all'imposta, che udì una voce maschia chiedere di dentro: Chi va là?
- Io, disse Rosen, spalancando la
porta e precipitandosi nella stanza, io, il dottore
Meustrier; chi è che è entrato in mia casa?
- Onorevole dottore, rispose una
persona che Rosen riconobbe subito per un gendarme, li abbiamo
pigliati nella trappola; e aprendo l'uscio della seconda stanza disse: il
signor Meustrier è arrivato in questo momento.
Rosen guardò, e vide una quantità
di gendarmi, intenti ad ammanettare i quattro personaggi che aveva conosciuto
alla bettola. L'ispettore di polizia, appena vedutolo, gli si appressò con aria di soddisfazione, e togliendosi rispettosamente
il berretto, gli disse:
- Egregio signor Meustrier, ella ci vorrà perdonare se abbiamo dovuto violare la sua
casa, ma la giustizia ha esigenze sulle quali non è possibile transigere...
D'altra parte le abbiamo ricuperati i quaranta mila franchi di deposito che
ella incassò stamattina, e che questi galantuomini avevano già fatto passare
nelle loro saccoccie. Fu un fatto molto onorevole per la polizia di Parigi,
questo; non lo dico per vantarmene, io, ma... già, tutto il merito è dovuto al nostro agente, il signor Chaperron, che ha saputo
scoprire il complotto nella cantina del Falcone, dove questi signori si erano
radunati per concertare il loro piano. Aveva fatto cercare di lei, ma non ci è stato possibile di trovarla. Ho sentito in questo
momento la sua carrozza, e ho detto tra me stesso: il signor Meustrier è qui,
egli rimarrà ben stupito di trovar tanta gente in sua casa. Come fare? E
bisognerà ora che ella abbia anche la bontà di
accompagnarci all'uffizio della sezione, dove redigeremo il verbale, e le
restituiremo il danaro rubato, appena verificata esattamente la somma.
- Sono ben grato, disse Rosen, che
si sentiva calare il sudore gelato dalla fronte, sono ben grato delle cure che
questa benemerita autorità si assume per la tutela della proprietà privata, e
mi duole di non poterle offrire che un attestato verbale della mia
riconoscenza: del resto, signor ispettore, io mi farò
un dovere di far conoscere a tutti la di lei avvedutezza e il di lei zelo,
segnalandolo per le stampe alla ammirazione ed alla gratitudine del paese.
L'ispettore s'inchinò fino a terra.
Rosen, avendo ammiccato dell'occhio ai quattro arrestati, che
lo guardarono stupiti, come avesse voluto dir loro: non temete, non mi tradite,
non sono il signor Meustrier, io; lo so bene che non mi conoscete, ma sono uno
dei vostri, uno che saprà liberarvi, purché abbiate un'oncia di giudizio,
riprese:
- Signor
ispettore, io sono ai di lei ordini, andiamo.
E si avviarono all'ufficio di
polizia.
Quivi Rosen che si sentiva i
bordoni alla testa, dovette subire un lungo interrogatorio, declinare
il suo nome, la sua qualità, la provenienza del danaro rubato; dopo di che,
avendo firmato il verbale che faceva constare del fatto, l'ispettore generale
gli disse, consegnandogli i quarantamila franchi, che erano stati tolti a
Meustrier:
- Signor
dottore, ella può ora ritirarsi, ma è necessario che ritorni domani al nostro
ufficio per assistere all'interrogatorio degli accusati.
Rosen, intascando alla meglio il danaro, si cacciò giù per le scale, leggiero come una
rondine, si ficcò in una carrozza da nolo, si fece condurre dal suo amico
Lamperth, e gli disse:
- Io parto in questo
istante per Melun; sono stato costretto a rubare quarantamila franchi, e
non potrei rimanere un'ora di più a Parigi; raggiungetemi domani in quella
città, dove desidero di giustificarmi con voi di questa appropriazione.
- Sta bene, ci rivedremo domani a
Melun, rispose Lamperth con freddezza.
*
* *
Quel piccolo gruzzolo del signor
Meustrier non era giunto inopportuno per Rosen; egli era stato a un filo dal vedersi senza un quattrino; e d'altra parte
considerava quel dono singolare della fortuna, come un compenso alle somme che
Lachard e Tricotèt gli avevano arraffate prima del suo arrivo a Parigi. Ciò di
cui egli si sgomentava non era tanto il ritardo che tutte quelle mille fatalità
frapponevano al raggiungimento del suo scopo, quanto quel non so che di ostinato e di derisorio con cui quelle stesse fatalità
tentavano di paralizzarne l'azione. Tuttavia, appena arrivato a Melun, si era
avveduto che una nuova serie di avventure le attendeva
in quella città. La Senna, ingrossatasi per le pioggie che erano state
frequenti in quei giorni, era uscita dal suo letto e aveva
allagato buona parte di quelle campagne. Molte case di coloni erano
rimaste sepolte a metà dalle acque, senza che le famiglie che le abitavano
avessero avuto il destro d'uscirne: non poche di esse
mancavano di provvigioni, o erano minacciate in altro modo nelle loro case
medesime, che scalzate dal fiume alle fondamenta erano in procinto di rovinare.
Ogni giorno si numeravano nuove vittime, e quei pochi
generosi che s'erano spinti in loro soccorso ne costituivano la maggior parte.
Rosen aveva appreso queste notizie
non appena partito da Parigi, ond'è che giunto a Melun, era corso tosto alla
riva del fiume per vedere le cose da sé, e confortarsi della certezza di questo avvenimento.
Tutta quell'estensione di campagna
così allagata presentava uno spettacolo stupendo. Dalla parte di Corbeil,
l'occhio non giungeva a distinguere il limite estremo dell'allagazione, e l'orizzonte
si chiudeva in una linea confusa e bianchiccia, come avviene in una scena di
mare, quando le onde agitate presentano alcune creste
di una bianchezza abbagliante sopra un fondo oscuro e verdastro. Dal lato
opposto, la via di Fontainebleau, dove le acque si erano arrestate in un
declivio, porgeva l'aspetto di un serpente smisurato che stesse
per uscire dal fiume. Dappertutto biancheggiavano delle case, quali scoperte in
gran parte, quali sepolte fino al tetto, di cui non si scorgevano che i comignoli,
simili ad alberi di nave naufragata; le piante investite dalla corrente
oscillavano sui loro fusti; e molte di esse sradicate
erano travolte impetuosamente dalle onde; in alcuni punti il fiume era limpido
e calmo, in alcuni altri scorreva con un fragore spaventoso, e si riversava
negli avallamenti, che riempiuti si scaricavano negli altri seni più bassi.
Mille altri particolari completavano la scena stupenda di quel quadro.
Rosen gioiva dal più profondo del cuore nel contemplarlo. Quanti pericoli non avrebbe
egli potuto corrervi domani, e quanti pretesi non avrebbe egli avuto per
correrli? Come doveva essere facile il morire in quel luogo! - una barca
rovesciata, una riva franata, una casa sfasciata dall'acqua, un naufrago che
invoca soccorso.... no, era impossibile che questa
volta non riescisse a Rosen di morire.
Dopo che egli ebbe passato alcune
ore beandosi in quella vista, rientrò nella città che la notte era di molto
inoltrata, si gettò sul letto fantasticando, ebbe sogni pieni di voluttà e di
visioni. Gli pareva che, essendosi gettato nella Senna, le onde lo avessero
travolto e inghiottito senza che egli od altri avessero avuto tempo di opporvi
la menoma resistenza; le acque si erano chiuse sopra di lui, egli si sentiva
affondare affondare, scendere scendere continuamente
senza poter giungere al fondo, la corrente lo portava con impeto e lo faceva
girare su sé stesso come una foglia investita dal vento. In quel lungo
sommergersi Rosen provava una strana sensazione di piacere, avrebbe
voluto scendere così eternamente senza toccare il letto del fiume; ma
non avea concepito questo desiderio che ne scorse il fondo tutto coperto di
musco e di conchiglie, e non l'ebbe raggiunto che disse a sé stesso con un
senso di tranquilla rassegnazione: sono morto sono finalmente morto!
Allora una miriade di pesciolini e
di piccoli mostri acquatici si precipitarono sopra di lui per divorarlo.
A quella vista Rosen si spaventò e
destossi.
- Sia lodato il
cielo, diss'egli, questo sogno è una previsione, andiamo. E vestitosi in fretta si avviò verso il fiume.
Appena giunto
alla Senna fu lieto di apprendere che si era costituita fra alcuni filantropi
di Melun una società di soccorso per le persone che si trovavano chiuse nelle
case allagate.
Rosen domandò sull'istante di farne parte e lo ottenne. Da lungo tempo egli
godeva nel suo paese fama di abile nuotatore, e pensò
con piacere che prima di morire avrebbe potuto rendere realmente qualche
servigio a quegli sventurati: in fondo in fondo egli non era cattivo, e un
istinto di umanità lo aveva tratto sovente a sacrificare per l'utile altrui, il
bene proprio, come aveva fatto in occasione dell'incendio di Montdidier.
Rosen chiese che gli fosse affidata
una barca colla quale avesse potuto trasportare alcune provvigioni nelle
fattorie che ne avevano difetto, o tentare di trarre
in salvamento gli abitanti di quelle case che minacciavano rovina.
Per due giorni fu un prodigio di attività e di fortuna, e rese beneficii immensi alle
vittime di quell'innondazione - tutta Melun era occupata di lui e del suo
coraggio, il nome di Rosen era sulle bocche di tutti - ma, al terzo giorno,
quando appunto prostrato da quelle fatiche e impaziente di morire, aveva
risolto di tentare qualche cosa di decisivo, avvenne che guidando egli una
barca su cui trasportava alla riva due fanciulle raccolte sopra un piccolo
rialzo di terra che era stato circondato dal fiume, questa investì in un albero
che scendeva giù trascinato dalla corrente, e n'andò rovesciata. Al momento in
cui Rosen incominciava a sommergersi guardò alla riva, vide la folla che
assisteva al triste caso; e non potendo più dubitare che la sua morte non
potesse venir impedita e non dovesse essere
considerata affatto accidentale, provò nel fondo dell'anima una strana gioja, e
disse: oh finalmente.... Ma non aveva ciò pensato, che si sentì afferrare da
una di quelle fanciulle che si erano sommerse con lui, e che gli s'avvinghiava
alla persona con tutta quella disperata tenacità che da l'istinto della vita.
Il cuore di Rosen non era eccessivamente pietoso, ma pure ne sentì compassione,
e slacciandosi alla meglio dalle sue braccia, e stringendola con una mano alla
cintura, incominciò a nuotare verso la riva. V'è un'altra vittima da salvare pensava egli tra sé stesso, mentre lottava disperatamente
colle onde, nessuno mi toglierà il pretesto di rituffarmi nel fiume.
E messo in pace da questo pensiero
continuò ad affrettarsi alla sponda.
Rosen vi giunse sì spossato, sì
oppresso dalla fatica che appena potè intendere le grida e gli applausi della
folla, che stava schierata lungo la riva. Ma non ebbe posata a terra la fanciulla, che, fingendo di voler correre alla salvezza
dell'altra, tornò ad immergersi, e prese a nuotare verso il largo della Senna.
Intanto alcune barche si erano
distaccate dalla sponda; Rosen le vide, e fosse la fatica fosse il timore che potessero venire in suo soccorso, si sentì venir meno,
incominciò a perdere la vista dell'orizzonte, a gettare le braccia inerti
sull'acqua, a diventare leggiero, nel tempo stesso che si sentiva inghiottire dalle
onde; e smarrendo in un istante ogni forza ed ogni coscienza di sé, si
sommerse.
In quell'intervallo di tempo due
barche lo avevano raggiunto, e due francesi si erano già gettati nell'acqua per
salvarlo. Rosen non aveva avuto tempo di toccare il letto del fiume, che uno di
essi lo aveva afferrato alla cintura e trattolo fuori
e coricatolo nella barca, lo aveva ricondotto alla riva. Tutto ciò era avvenuto
in istante, e senza che Rosen, che era svenuto, avesse potuto
avvedersene.
Ma quale non fu
la sua maraviglia, quando nel risensare si trovò nella sua stanza, nel suo
letto; e vide Lamperth seduto al suo fianco; e richiamando in un istante le sue
memorie, potè indovinare agevolmente tutte le particolarità della sua sventura.
- Ah! sono
ancora vivo, egli disse, sono ancora vivo!... e si riposò con dolore su questa
parola.
Egli era sì debole che un istante
dopo si pose a piangere e singhiozzare come un fanciullo,
esclamando colla voce interrotta dalle lagrime: - Io non morirò più!... Io non
potrò più morire!...
Indarno Lamperth si provò a
consolarlo: il suo abbattimento era estremo.
- Io morirò di crepacuore, io
morirò di angoscia, ripeteva Rosen ad ogni frase del
suo amico. E l'altro a soggiungergli: - è il genere di morte più valido dinanzi
alla società di assicurazione.
Alcuni giorni dopo Rosen guarito
aveva detto a Lamperth: - Andiamo via di qui, non fermiamoci più fino a che non
saremo giunti in Italia. E stavano per partire, quando una deputazione del
municipio di Melun entrò nella stanza recando a Rosen un indirizzo di quel
comune, nel quale lo si ringraziava del soccorso
prestato durante l'inondazione, e gli si offriva, come unico compenso degno di
tanta abnegazione, la cittadinanza di Melun.
Rosen volle rispondere, ma provò
tale un eccesso di sdegno contro la sua fortuna e contro sé stesso, che si
sentì soffocare dalla bile; e non potendo reagire e superare la sua emozione,
cadde svenuto sopra una sedia.
- Egli è ancora assai debole, disse
un membro della deputazione a Lamperth, e questo attestato
di onore che ha voluto porgergli la nostra città, lo ha profondamente commosso.
- Sì, disse Lamperth, lo ha
commosso molto profondamente.
*
* *
Dopo quindici giorni di viaggio, Rosen
e Lamperth giunsero a Grenoble, col pensiero di passare le Alpi presso
Brianzure, e di passarle a piedi come due buoni inglesi. Rosen era prostrato
dalle tante disillusioni sofferte; ma come suole avvenire in tutte le nature
immaginose e fantastiche, si confortava di nuove speranze. Gli pareva che in
Italia sarebbe riuscito, che anzi sarebbe riuscito alla prima prova, e aveva
deciso di non tentare più che avventure serie, avventure utili, nelle quali la
sua sensibilità e la sua coscienza non avessero più a
distoglierlo dallo scopo immediato dei suoi tentativi. Oltre a ciò sentiva in
sé stesso un presagio consolante, il presagio che egli si avvicinava al suo
fine, che qualche cosa di solenne, qualche cosa di decisivo doveva accadergli
in quei giorni.
Gli s'erano già offerte tre o quattro
occasioni, ma aveva ricusato di approfittarne, come quelle che non promettevano
un esito sicuro, quando, essendo giunto ad un piccolo villaggio alle falde
dalle Alpi, e avendo saputo che in una foresta vicina era imboscata una grossa
masnada di assassini che vi commettevano delitti
inauditi, risolse di andarli ad incontrare.
Fino allora non s'era dato esempio
di viaggiatori che fossero capitati nelle loro mani e che ne fossero usciti
vivi, per quanto danaro avessero lor dato, e per
quante preghiere avessero rivolte; era naturale che Rosen, deciso a difendersi
e a provocarli, potesse lusingarsi di correre lo stesso destino.
Accomiatandosi da Lamperth che
sicuro della morte del suo amico lo abbracciò colle lagrime agli occhi, Rosen
tolse pretesto di una passeggiata su pel monte, e
s'inoltrò arditamente nella foresta.
Camminava triste e pensoso,
guardando gli alberi che distendevano i loro rami sopra di lui, come un
ombrello gigantesco; raccogliendo per distrazione qualche corbezzolo, e
compiacendosi di sentire sotto i suoi piedi quel non so
che di molle e carezzevole che hanno gli alti strati di foglie così accumulate
da anni nelle montagne. Era pensoso, è vero, ma lo era pel
timore di non imbattersi nella masnada: oramai Rosen era sì indispettito dei
suoi casi trascorsi e della sua triste fortuna, che quasi avrebbe bastato quel
suo risentimento, quella specie di amor proprio che lo rendeva incaponito nel
suo progetto, a fargli desiderare e affrontare qualunque sorta di morte.
Ma i suoi timori erano vani come le
sue speranze. Non aveva camminato più di mezz'ora che udì
suonarsi all'orecchio un: Chi vive? uscito da un petto
così robusto, e pronunciato così d'appresso a lui e con suono di voce così
minaccioso, che Rosen, assorto in quell'istante in altro pensiero, si arrestò,
e emise, suo malgrado, un leggiero grido di spavento. Nel tempo stesso un uomo
uscì fuori da una macchia, e spianando verso di lui il
suo fucile, gli disse:
- Fermatavi, o siete
morto.
- Miserabile! disse
Rosen; e fingendo di prendere la mira, sparò un colpo di pistola verso
l'assassino. La palla passò in aria fischiando; l'assassino dal canto suo sparò
il suo fucile, ma sparò in fallo.
Rosen si percosse la fronte col
pugno.
Al rimbombo di quello scoppio, cento
masnadieri comparvero da tutte le bande; e Rosen si vide ad un tratto
circondato. Pieno di speranza e di gioia, deciso a difendersi per eccitarli ad
ucciderlo, impugnò le sue pistole, e avventandosi contro coloro
che gli erano più d'appresso sparò i tre colpi che gli rimanevano, evitando di
ucciderne alcuno.
I masnadieri erano rimasti sì
colpiti da tanto ardimento, che nessuno di loro aveva tentato di trattenerlo; e
solamente quando lo videro slanciarsi, già disarmato, contro il nucleo maggiore
della loro banda, si avventarono per colpirlo coi loro
coltelli.
A quella vista il capo dei
masnadieri accennò loro di arrestarsi, venne incontro a Rosen, ordinò che non
gli si torcesse un capello; e afferrandolo per le mani, che gli diedero una
stretta simile a quella d'una morsa, gli disse:
- Che cosa
volete fare? arrendetevi; avete coraggio, ma siete un
insensato, credete di poterla spuntare con noi?
- Io non mi arrenderò mai, disse
Rosen, dovessi combattere a morsi; e tentò di slacciarsi una mano per menargli
un colpo alla guancia, ma era impossibile,
Il suo avversario riprese con
tranquillità:
- Voi siete decisamente
un uomo coraggioso; acquietatevi, avete nulla a temere da noi; non uccidiamo
gli uomini della vostra tempra, noi; uccidiamo quelli che guaiscono come le
femmine, che ci ricusano la loro borsa, che non vogliono ammettere il diritto
che noi abbiamo sulle sostanze dei ricchi, e la missione che ci siamo imposta
di migliorare la società, distruggendo la disparità delle fortune. Voi siete un
uomo straordinario: è a deplorarsi che vi sciupiate così miseramente nella vita
corrotta della città.... ma sareste ancora in tempo a
riabilitarvi; io vi offro uno dei posti più onorevoli nella mia banda; spero
che non sarete per ricusare.
Il capo dei masnadieri aveva
rallentato sensibilmente la stretta delle sue mani nel pronunciare queste
parole; Rosen annientato da tanta avversità di fortuna, taceva.
Dopo un istante di silenzio,
l'altro riprese:
- La vostra fisionomia, il vostro
coraggio... sareste voi mai un inglese?
- Sì, disse Rosen rianimato dalla
speranza.
- Oh! permettete
che io vi abbracci; ho goduto per quattro anni dell'ospitalità del vostro
paese, e ho sempre sentito una simpatia irresistibile per la vostra nazione.
L'Inghilterra è l'asilo di tutti gli uomini liberi. Non ci vogliate usare
scortesia, aggiunse abbandonando le mani che teneva
strette nelle sue - qui vi sono uomini che hanno ammirato il vostro coraggio, e
che sanno di dovervi rispettare.... Sono lieto di aver fatto il vostro incontro,
e vorrei dimostrarvi in qualche modo la gratitudine che ho pel vostro paese....
Il governo pontificio in Italia mi offre un posto di capobanda con un corpo di
quattrocento uomini; io sono disposto a cedervi il comando di questa onesta
brigata... accettate?
- No, mormorò Rosen, è
impossibile...; dei legami di famiglia.... dei
doveri... duolmi sinceramente di dover respingere un'offerta così onorevole;
anzi io devo accommiatarmi; sono atteso per stassera al villaggio.
- Bene, bene, disse l'altro, sia
come non detto; aggradite ad ogni modo prima di
partire un attestato della mia ammirazione per voi e della mia gratitudine pel
vostro paese.
Così dicendo si
tolse dal dito un anello di molto valore, e lo fece passare nel dito di Rosen;
quindi, riconsegnandogli le sue pistole, ordinò a due dei suoi soggetti che lo
accompagnassero fuori del bosco per difenderlo da qualunque malvivente; e lo
abbracciò con effusione, mentre molti dei masnadieri venivano a stringergli la
mano e offrirgli rispettosamente i loro servigii.
*
* *
Rosen, giunto a casa, si pose a
letto; era malato, aveva la febbre: ciò che gli era successo era stato superiore a tutte le sue previsioni più scoraggianti.
Oramai gli era venuto meno il coraggio di tentare altre vie, e doveva
risolversi a tornare in Inghilterra.
Dieci giorni dopo stava per
riprendere il suo viaggio, quando gli giunse all'orecchio la notizia di un
disastro accaduto in quel giorno lungo la via che egli doveva percorrere. Una
carrozza, il cui cavallo aveva perduto il freno era precipitata, in un abisso
profondissimo che costeggiava la strada, e che era chiamato il Picco del
diavolo; non una persona si era salvata.
Una nuova luce si fece allora nella
mente di Rosen; andò a visitare quell'abisso, e conobbe che era impossibile
sopravvivere a quella caduta: risolse sull'istante, uscì solo in vettura,
spinse il cavallo alla carriera più concitata, e si precipitò giù dal picco. La
carrozza, discendendo orizzontalmente, si impigliò
nelle liane che crescevano lungo il fianco dell'abisso, e si rovesciò
rimanendovi sospesa, quando non rimaneva più che un terzo della rupe a
raggiungere il fondo.
Rosen ne fu sbalzato fuori, e cadde sul corpo del cavallo che era morto.
Raccolto da alcuni terrieri fu
trasportato all'albergo, dove aveva lasciato Lamperth. Da principio fu creduto
estinto, ma alcune ore dopo la sua caduta rinvenne; e il chirurgo constatò che si era spezzato il femore sinistro, e che era
d'uopo amputare la gamba nello spazio di quattro ore, prima che si sviluppasse
la cancrena di cui avrebbe dovuto morire.
Quando Rosen, che era già poco meno che
morto per la meraviglia di ritrovarsi vivo, udì parlare della cancrena, sentì
finalmente che tutto era finito, che tutto era compensato; e rivolgendosi al
chirurgo gli disse:
- Voi potete ritirarvi.... io non mi farò amputare mai.... io sono vile dinnanzi
al dolore.... preferisco morire.
- Pensateci, rispose l'altro, ripasserò fra due ore, e mi lusingo che sarete di parere
diverso.
Partito il chirurgo, Lamperth entrò
nella stanza dove Rosen era stato lasciato solo; e levandosi gli occhiali dal
naso, ciò che non era solito fare che nelle circostanze solenni, e assumendo un
nuovo tuono di voce gli disse:
- Signor Alfredo di Rosen, è tempo
che noi definiamo la nostra posizione, è tempo che io cessi
dal rappresentare una parte che mi affligge per quanto sia doverosa, e che io
desista da una finzione che è oramai divenuta inutile. Io sono un'agente della
Società d'assicurazione. Quando ella è venuta ad
assicurare la vita di sua moglie, la nostra società non ignorava la di lei
posizione finanziaria e le gravi perdite che ella aveva subite al giuoco nella
notte precedente. Si sospettò ciò che era vero, che ella
volesse, cioè, ingannare la società con una morte volontaria; e io fui
incaricato di seguirla e procurarmi le prove che avessero constatato questa
determinazione. Questa è la lettera che ella mi ha
incaricato di rimettere alla signora baronessa sua moglie, e nella quale ella
dichiara di voler morire spontaneamente per darle diritto all'assegnamento vitalizio.
Ancorché ella avesse ora a morire, a questa lettera
che i doveri della mia qualità m'impongono di consegnare alla società,
priverebbero la signora Rosen di qualunque compenso. Ella
intende ora che non le rimane una via più onorevole e più doverosa che quella
di sottoporsi a questa amputazione e di tentare di vivere per compiere quei
doveri di uomo e di marito che ha troppo trascurato finora. In
quanto a me io non ho fatto che obbedire alle esigenze della mia carica.
Rosen stette lungo tempo senza poter
rispendere, tanto il dolore, lo sdegno e la meraviglia lo avevano
reso muto e agghiacciato. Quando fu in grado di
pronunciare alcune parole, disse:
- Oh Lamperth, voi mi avete
rovinato.... Un colpo simile in questo momento!... una
rivelazione di questo genere nell'istante in cui io stava per raggiungere la
mia felicità!... ah, voi avete un cuore di tigre, Lamperth!... fingere in
questo modo... trascinarmi a questo punto... senza una gamba!... Ma noi ci
batteremo, per l'inferno noi ci batteremo; io vi domanderò conto di questa
indegna simulazione.
- È inutile, non
avrete più che una gamba.
- Ci batteremo alla pistola,
seduti.
- Via, via, disse Lamperth
riponendosi gli occhiali; sono un padre di famiglia io, ho sette figli, e ci
penso alla mia vita e a miei doveri. Voi avete profusa
una fortuna, avete tenuta una condotta riprovevole, avete tentato d'ingannare
una società di onesti speculatori, l'avete tentato a costo della vita degli
altri; vergognatevi, io sento in questo momento tutta la superiorità morale che
ho sopra di voi.... Non costringetemi ad abusare del vostro stato.
- Avete ragione, esclamò Rosen
piangendo come un fanciullo, oh! avete
ragione; voi siete ciò che io non sono più, un uomo onesto... Io vedo troppo
tardi il male che ho fatto.
- No, no, non è
troppo tardi, riprese in tuono affettuoso Lamperth, tornandosi a levare
gli occhiali, e stringendo le mani del malato. Ecco qui, io
vi restituisco la lettera che vi accusa dinanzi alla società; voi guarirete, me
ne ha accertato il chirurgo; e io vi farò ottenere un posto elevatissimo in
questa stessa società di cui avete voluto eludere le disposizioni.
Potrete essere ancora felice, perché potrete ancora meritarlo.
Due mesi dopo, Rosen amputato e
guarito, ritornava in Inghilterra, dove Lamperth che ve lo aveva preceduto,
manteneva la sua promessa.
La natura che gli aveva ricusato
fino allora le gioie della paternità gli diede ora dei
figli. Lamperth divenne il suo subordinato e ad un tempo il suo amico. Nulla
turbò più da quel giorno la sua vita.
Alfredo di Rosen è il più esemplare
dei padri e dei mariti.
Fine.
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