RE
PER VENTIQUATTRORE
STORIA
D'UN GIORNO DELLA MIA VITA
Perché la sola storia di un
giorno?
E se voi credete che gli avvenimenti
della vostra vita possano formare soggetto d'una storia curiosa e dilettevole,
perché non tessere il racconto intero della vostra esistenza?
Io ho supposto nello scrivere la
prima linea di queste pagine che qualche lettore mi avrebbe indirizzata
una simile domanda.
Devo giustificarmi.
Anzi tutto se la
vita vuolsi misurare dagli anni piuttosto che dalle passioni, io non ho fatto
finora che un primo passo nella vita. Sappiano le mie lettrici - ed è ad esse
specialmente che io rivolgo questa osservazione - che io non ho che ventisette
anni, e sono in tutto il vigore della gioventù e della salute: Oltre a ciò la
mia esistenza scorse finora sempre uguale, sempre modesta e ignorata, fu una
vita come tutte le altre, una lotta del bisogno coll'impotenza,
dell'aspirazione col nulla, dell'ideale col fango; - e in mezzo a tutto ciò
qualche punto nero e qualche raggio di sole, qualche virtù, qualche vizio,
alcune colpe, molti affetti, molte lacrime e molte delusioni - tale è la storia
sintetica della mia esistenza.
Ma pure in questo povero dramma della
mia vita fuvvi un giorno così splendido, così ricco di avvenimenti
bizzarri e insperati, così fertile di piaceri sommi come di sommi dolori, che
mi parrebbe non poter essere più in pace con me stesso, se dappoiché mi sono
dato al mestiere del letterato, e mi sono proposto di destare nell'anima degli
altri un eco delle sensazioni della mia, frodassi l'umanità di un racconto così
meraviglioso.
E sento nel cuore
una voce che mi dice: non ti si presterà fede, ti si accuserà di menzogna... No
miei lettori, no che voi non mi potreste smentire: io vi esporrò il mio
racconto con tutta la coscienziosa veracità di uno storico, io non esagererò
menomamente l'importanza delle mie avventure, e se queste vi parranno da
principio o un poco strane o impossibili, esitate nondimeno a giudicare della
loro veracità fino a che non avrete letto compiutamente il mio racconto.
La grande isola di Potikoros giace
nell'Oceano equinoziale, al trentesimo grado di latitudine, non molto lontana
dal piccolo arcipelago dei Navigatori.
È uno dei punti più meravigliosi
della terra: tutte le delizie favolose dell'Eden, i paesaggi incantevoli del
Bosforo, le rive stupende del Reno, la vegetazione rigogliosa dell'Asia, le
mille meraviglie della natura disseminate qua e colà sulla vasta superficie del
globo - tutto ciò riunito e disposto in un punto solo dalla mano maestra del
Creatore, potrebbe offrire un'idea ancora assai debole delle bellezze di quel
piccolo paradiso sconosciuto che è l'isola di Potikoros.
Ebbene, nel mattino memorabile del ventisette
aprile milleottocentosessantadue, io giungeva a
quell'isola - il trono di quell'isola era vacante, ed io era l'erede di quel
trono.
Premetto uno schiarimento.
Venti anni prima di quell'epoca,
mio padre onesto commerciante di cotone, nel recarsi a Caledonia, aveva
naufragato sulle coste di Taiti. Dodici viaggiatori si erano salvati con lui
sopra una zattera di tavole, e avevano approdato a Potikoros. Erano essi i
primi europei che ponessero piede in quell'isola: gli
indigeni erano in parte selvaggi, ma umani, la civiltà americana aveva
ingentiliti in qualche modo i loro costumi, un trattato di commercio colla
piccola repubblica di Tongia li aveva pressoché educati alla vita sociale, e
ammaestrati nelle arti e nelle costumanze delle altre nazioni; ma la vanità che
è sentimento istintivo nell'uomo li rendeva tenaci nei loro pregiudizii e nelle
strane esigenze della loro toeletta - portavano infisso attraverso al naso un
osso bianco di balena; e quando mio padre co' suoi dodici compagni di naufragio
chiese loro l'ospitalità e la vita, essi, pure annuendo alle loro preghiere,
presentarono a ciascuno di loro uno di quegli ornamenti, perché dessero così la
prima prova di sottomissione nell'usarlo.
Vanitosi e timorosi ad un tempo,
gli altri europei esitarono, vacillarono, rifiutarono,
e gli indigeni li trafissero colle loro freccie; ma mio padre che era uno
spirito forte, brandì in aria il suo osso di balena, e gridando! viva l'isola di Potikoros, se lo infisse eroicamente nel
naso. Le tribù indigene meravigliate a quell'atto, lo portarono in trionfo sui
loro archi e lo elessero a Presidente della
repubblica. Un anno dopo mio padre faceva un colpo di stato, e assicurava una
corona alla sua dinastia. Quella corona gli era costata il
naso, ma non tutti i re si conquistarono un trono a questo prezzo.
Io stava
scrivendo un giorno una dissertazione sull'influenza del debito nell'equilibrio
sociale, quando fui avvertito che una deputazione d'ambasciatori Potikoresi
veniva ad annunciarmi la morte di mio padre e la mia successione al trono di
Potikoros,
Tutti coloro
che, come l'autore di questa storia, furono condannati al mestiere del
letterato, - il pessimo dei mestieri - e giova sperare pel bene dell'umanità
che sieno pochi - potranno immaginare la mia contentezza febbrile, mortale, e i
trasporti forsennati della mia gioia. Io che aveva disperato
sì spesso di me, che aveva sognato come la più gran meta possibile nella mia
fortuna quello stato d'imbecillità di mente e di coscienza che sola può recare
fama e agiatezza ai letterati in Italia, io che aveva lottato sì a lungo con
quell'istinto ribelle di dignità che mi aveva preclusa ogni via, e indarno
sempre.... ora ero figlio di un re, e re io stesso, ed erede di un trono.
Non poteva prestar fede a tanta
felicità, durai fatica ad accertarmene: affrettai la mia partenza, diedi un
ultimo addio ad Elettra!..... (povera creatura!....
Elettra.... essa che mi aveva soccorso sì spesso di pane e di amore) e dopo tre
mesi di navigazione, nel mattino del ventisette aprile
milleottocentosessantadue, giungeva finalmente all'isola di Potikoros.
Alla distanza di alcune
miglia, mi appariva come una vasta conca di fiori emergente dalle acque; alcune
isolette disposte qua e là, attorno al mio regno, somigliavano a quelle foglie
gigantesche di ninfe che si cullano sulla placida superficie dei nostri laghi:
il cielo era alto, sereno, limpidissimo, e si tingeva curvandosi verso
l'orizzonte, d'un colore abbagliante di croco e di cinabro: il mare giaceva
calmo e maestoso; uno zeffiro profumato ne increspava leggermente la superficie
come l'alito che appanna il velo d'una vergine. Innumerevoli stuoli di lire e di uccelli di paradiso s'inseguivano a volo nei punti più
luminosi del cielo, e riflettevano i primi raggi del sole colle loro code di
argento. Alcune rondini di mare, posatesi sulle gomene della nostra nave
festeggiavano il mattino con un trillo vivace e armonioso. Nulla di più
incantavole di quella scena, nulla di più celeste di
quella musica: i sogni del fanciullo e della vergine non possono immaginare un
eden più delizioso, né i poeti un idillio più puro e più divino.
Quando io potrei rammentare ora
delle impressioni di quel mattino non formerebbe che
un quadro tanto imperfetto, tanto lontano dal vero, che io temerei quasi di
nuocere alla mia descrizione tentando di palesarle, e non lasciandole piuttosto
indovinare al lettore. Ma il tumulto che v'era
nell'anima mia sarebbe ancora più inesplicabile. Chi potrebbe esprimere le
mille sensazioni soavissime che agitavano il mio petto, le mille lusinghe che
venivano a blandire la mia vanità; i miei progetti, i miei sogni, tutto ciò che
ha accompagnato questa meravigliosa trasformazione di uno scrittorimo povero e
conosciuto in un re dovizioso e potente?
Strano prestigio di una corona!
Strano potere di far supporre delle virtù sovrumane nella testa spesso
insensata che la sostiene! Più volte ho desiderato conoscere se tra gli evviva
del popolo, in mezzo alle ovazioni delle folle, allo spettacolo degli archi
trionfali e delle moltitudini accorse da lontano per bearsi della loro vista,
qualcuno di essi abbia sentito risvegliarglisi in
cuore la coscienza della propria nullità, ed abbia o disprezzato, o compianto
il suo popolo, e si sia sdegnato di quella stupida e vile ammirazione. E pure,
io stesso, io che m'era più volte inacerbito per ciò
cogli uomini, non poteva contemplare senza un sentimento di compiacenza il gran
cordone dell'ordine dell'Annunziata che mi pendeva sul petto, e che trasfondendo
qualche stilla di sangue reale nelle mie vene plebee, mi aveva reso a un tratto
cugino di Sua Maestà!... Cugino di Sua Maestà!... Dio, quale onore! Ma io
stesso era re, e la prospettiva di una corona rendeva
debole e lieve la gioia di quella parentela reale.
Pochi istanti prima di approdare,
chiamai a me il mio primo ministro, che pure faceva parte della Commissione
Potikorese, e volli essere informato sulle condizioni
finanziarie, sull'esercito, sull'indole del mio popolo e sulle costituzioni del
mio Stato.
- In quanto
alla popolazione che il cielo vi ha chiamato a governare, mi diceva il mio
primo ministro, facendosi scorrere tra l'indice e il pollice il suo osso di
balena, essa non si divide che in due tribù numerosissime, separate l'una
dall'altra per una distinzione speciale della natura, e sono la tribù dei Denti
bianchi, e la tribù dei Denti neri.
- Denti neri! io
dissi, ma ciò è orribile, i loro denti non saranno tutti assolutamente neri.
- Tutti, rispose il ministro con
quella dignitosa impassibilità che gli conferiva l'abitudine della sua carica;
e tolga il cielo che io voglia esaltare la tribù cui appartengo
- e in ciò dire mi fece osservare con una specie di orgoglio i suoi trentadue
denti nerissimi - per deprimere l'altra che pure ha dato dei sudditi valenti a
vostro padre; ma i Denti neri sono la metà migliore del vostro Stato.
- E le femmine, aggiunsi, esse pure....
- Sì, ancor esse, toltene le donne
del vostro harem che la compianta Serenità di vostro padre scelse tutte
esclusivamente dalla nostra tribù dei Denti bianchi.
Io confesso che quest'ultima
notizia del mio ministro mi riempì l'animo d'una gioia
straordinaria Ah! l'idea di avere un harem inebbriava
tutti i miei sensi. È là, io diceva, che mi solleverò
dalle cure del mio stato, che mi rifarò ad usura della mia gioventù avvizzita
senza piaceri, che mi vendicherò di questa simulata virtù delle nostre donne
europee.
Un harem! Cento fanciulle
che vi adorano, le bellezze più abbaglianti dell'Asia, le più vezzose creature
del mondo che cadranno ad un cenno ai vostri piedi. Sì io dissi, tenterò di
risolvere il problema se Sardanapalo sia stato più
grande di Alessandro, e se il Sultano sia il più saggio e il più morale di
tutti i re della terra.
Dal momento che mi conobbi
possessore di un harem mi abbandonai totalmente a
questo pensiero, e tentai di richiamarmi alla memoria quanto aveva letto di
straordinario e di favoloso su questi ritiri di piacere - la sicura vigilanza
degli enunchi, i ventagli di penne di pavone, il molle costume orientale, i
tappeti vellutati di Persia, i profumi inebrianti delle Indie, tutto ciò che
desta la voluttà e la spinge alla sua massima azione, e al suo massimo sviluppo
compatibile colla vita.
Il ministro vedendomi assorto profondamente ne' miei pensieri, non osava interrompermi; ed io temendo
che egli comprendesse il motivo del mio silenzio, e che io vi perdessi non poco
della mia dignità reale, mi affrettai a soggiungere con gravità:
- E
l'esercito? Quale è l'ordinamento dell'esercito?
- Ottimo in sé, disse
il ministro, un poco imbarazzato da questa domanda, ma, veramente, le disparità
di tribù, costituiscono un motivo incessante di dissensioni tra
l'esercito dei Denti bianchi, e quello dei Denti neri. Perocché è bene che
Vostra Maestà sappia (io mi era rialzato di due pollici nel sentirmi chiamare
Maestà) che vi sono due eserciti, come vi sono due tribù, e che la mancanza di
un'altra nazione nell'isola colla quale vi sia possibilità di guerreggiare, fa
sì che i due eserciti dello stato vengano spesso alle armi tra
di loro. È a deplorarsi che la posizione geografica di Potikoros renda assai difficile e assai fortunosa una guerra colle
popolazioni del continente, ciò che accrescerebbe di gran lunga il prestigio
della corona, e distogliendo il vostro popolo dal desiderio di costituzioni più
libere e più progressiste, gioverebbe non poco a consolidare il trono di vostra
Maestà.
- Come sarebbe a dire?
- Che la popolazione vuol essere
sgomentata dalla coscienza della vostra forza, cioè
dalla forza dell'esercito che è tutt'uno; e distolta in altro modo dal
desiderio di miglioramenti interni, compromettendone, cioè, gli interessi e i
destini colla fortuna d'una guerra.
- Ma sarebbe dunque necessario...
le condizioni della monarchia sarebbero tali da.....
- Non dico ciò, riprese il mio
ministro visibilmente turbato, ma.... ma veramente....
la sicurezza della corona richiede molte cure, molti provvedimenti, la cui
necessità vi sarà nota assai presto. Non vi parlerò di alcune
tendenze rivoluzionarie che vostro padre ha dovuto soffocare con molto sangue,
e che questa vacanza del trono ha potuto sviluppare sensibilmente.... già le
idee repubblicane hanno messo radice in molte teste, ma non sarà difficile il
divellerle.
- Le teste? esclamai
io inorridito.
- Come piace a
vostra Maestà, disse il mio primo ministro, le idee colle teste.
Io confesso che la mia anima, per
quanta violenza le abbia fatta in ogni tempo la mia ragione, non ha potuto mai
perdere un atomo di quella mitezza imbecille dell'agnello di cui l'ha dotata la
natura; ond'è che per dare una diversione a quel discorso sì poco uniforme alle
mie inclinazioni benigne, soggiunsi: E quale è il
costume dell'esercito?
- Il più semplice, ed il più
economico ad un tempo, la nudità: i vostri sudditi non temono in ciò il
confronto della razza del continente; ammirerete sopratutto lo sviluppo dei
fianchi e del torace nelle femmine, le quali hanno pure adottato in gran parte
la semplicità primitiva di questo costume.
- In un paese così economico, io
dissi, le finanze dello Stato e dei privati saranno
dunque in floride condizioni.
- Tristissime! rispose
il mio ministro con accento mortificato; e poiché da questo mio viaggio in
Europa, ho desunte alcune cognizioni circa i mezzi di rimediare al dissesto
economico dello Stato, ho in animo di proporre quanto prima alla vostra
approvazione un progetto per remissione di alcuni miliardi di carta monetata
che i vostri sudditi accetteranno con gratitudine.
- E a
quanto ascendono le rendite di mio padre?
- Ad una somma considerevole, a
parecchie centinaia di milioni, escluso l'appannaggio che vi è assegnato dalla
nazione, e che viene pagato puntualmente dalle casse
dello Stato.
- E ciò
non sembra gravoso al mio popolo?
- Vostra Maestà è novizia nell'arte
del governare: basterà visitare uno stabilimento pubblico, un ospedale, un
asilo, un istituto qualunque, e assegnargli una volta ogni tanto qualche
centinaio di franchi sulla vostra cassetta privata, perché voi siate creduto il più generoso di tutti i monarchi. Né ciò potrà diminuire i vostri redditi: i tesori di vostro
padre sono i più ricchi di quanti ve ne siano nei reami che noi conosciamo.
- I più ricchi?
- Li ammirerete fra poco: vedrete
nella sala dei carboncini, un diamante della grossezza di un uovo d'aquila, che
è reputato da noi il più prezioso di quanti sieno sulla terra.
Io non potei contenere a questa
notizia un sorriso di compiacenza che non isfuggì all'occhio penetrante del mio
degno ministro dai denti neri.
- E quali sono, io chiesi, i doveri
principali del re, le sue occupazioni pubbliche?...
Voi sapete che io non sono stato educato alla Corte e che il governo d'un regno
mi giunge alquanto inaspettato.
Il mio ministro
sorrise a
questa domanda che gli parve improntata d'una ingenuità affatto puerile, e
disse; Le occupazioni di Vostra Maestà sono pressoché insussistenti; il
consiglio dei vostri ministri s'incarica della politica interna - poiché la
politica estera non ci crea combinazioni di molta importanza, stante i rapporti
amichevoli che conserviamo colle nazioni vicine: le vostre attribuzioni si
ridurranno alla firma dei decreti concepiti dal Consiglio, a mostrarvi al
popolo nelle circostanze solenni, a procreare principi del sangue allo Stato, a
recitare al presidente di qualche deputazione un discorso di circostanza che vi
sarà composto dal vostro segretario particolare; e finalmente a vigilare
sull'ordine, sulla varietà, sul buon andamento del vostro harem ciò che
costituisce una delle vostre attribuzioni esclusive.
- Spero, io dissi, di soddisfare a
tutti questi mandati, e all'ultimo in ispecial modo, con quello zelo che varrà a meritarmi la simpatia e la gratitudine del mio
popolo.
Il mio ministro s'inchinò fino a
terra.
Aveva appunto posto termine a
questa conversazione nell'istante in cui il bastimento reale gettava l'àncora
nel porto di Potikoros che è la capitale dell'isola di questo nome.
Salii allora sulla coperta della
nave per ammirare con un più vasto colpo d'occhio le meraviglie naturali del
mio regno. Ma la mia attenzione fu distolta da questo esame
dalla vista dei preparativi che s'erano fatti pel mio ricevimento solenne. E d'altronde non m'era mostrato ancora a' miei sudditi, che
delle ovazioni fragorose partirono dalla riva che era assiepata tutta di
popolo; e centinaia di barche ornate di stoffe a vivi colori e di penne
preziose di marabù vennero ad attorniare la mia nave. Mi fu forza discendere in
una di essa, ove si trovavano riuniti i miei ministri,
e che per essere ornata dello stemma monarchico, conobbi che era destinata alla
mia persona. Lo stemma reale (poiché quello della repubblica era stato
atterrato da mio padre) consisteva in un elissi diviso
da un fusto di palmizio in due campi, come da una sbarra; nell'uno di essi era
rappresentato un braccio che brandiva uno di quegli ossi di balena già nominati
a memoria dell'atto ardimentoso che aveva procurato il trono a mio padre;
nell'altro vi era un merlo nero che, come seppi più tardi dal mio ufficiale
araldico, vi era stato posto in onore di un uccello di questa famiglia, che il
re defunto aveva fatto venire dall'Europa, e che aveva formato la meraviglia
de' suoi sudditi, non essendovi in tutta l'isola di Potikoros che dei merli
bianchi come la giuncata.
Non starò a
parlare dell'imbarazzo in cui mi sono trovato per rispondere alle
numerose domande che mi venivano fatte da' miei ministri e dalle deputazioni
delle città secondarie del mio regno. Si era bensì pensato a mettere nel mio seguito alcuni interpreti, ma il concetto di queste domande
era sì oscuro, e mi erano formulate in modo sì singolare, che io mi trovava
sulle spine a rispondervi. Aveva appena posto piede nella mia lancia, che un
grido prolungato del popolo e dell'esercito salutò il mio arrivo, e avendo io
interrogato uno de' miei interpreti sul significato di
quel grido, seppi che esso voleva dire; «ben venga il nostro re che è arrivato
dal paese dei merli neri.»
Io m'inchinai rispettosamente
dinanzi alla folla assembrata sulle zattere e lungo la spiaggia, e vi fu un
momento in cui mi sentii il prurito di arringare la moltitudine e di
guadagnarmene la simpatia facendo l'elogio dei merli bianchi, ma il bisogno di
servirmi degli interpreti che avrebbero ammorzato colla loro
lentezza tutto il mio fuoco oratorio, me ne distolse. E
d'altronde la folla era tanta e il baccano sì assordante, che la mia voce vi si
sarebbe perduta senza frutto.
Di mano in mano, che aprendoci a
stento una via tra le barche, ci andavamo avvicinando alla riva, lo spettacolo
diventava più imponente, ed il fragore cresceva per modo che le mie povere
orecchie ne erano letteralmente assordate. Il grido
di: «viva il re che viene dal paese dei merli neri!» era ripetuto da tutte le
bocche; e le dame Potikoresi specialmente lo strillavano con certe voci da
soprano in modo da farmi rizzare sulla testa ad uno ad uno tutti i miei capelli
reali.
Come Dio volle, noi giungemmo
finalmente alla riva, ove mi soffermai un istante ad osservare gli apparecchi
della mia incoronazione e i due eserciti schierati lungo la spiaggia. E qui non
potrei dire l'impressione inattesa che provai alla
vista del mio esercito. I Denti neri pei quali mi era
sembrato che avrei dovuto provare un orrore insuperabile, avevano aspetto sì
dolce, sì mite, sì affettuoso che mi sentii subito attratto verso di essi da
una forza di simpatia irresistibile, mentre i Denti bianchi mi parvero d'indole
sì ribelle, sì feroce, sì fiera che ne fui quasi atterrito.
Quei denti lunghi, affilati,
bianchi, orribilmente bianchi, scoperti fino alla radice dal labbro un po'
rovesciato, acuminati e curvi verso la punta come i canini, parevano fatti per
afferrare, per mordere, per lacerare la carne viva, palpitante
- davano ai loro visi un'apparenza orribilmente ferina. I denti neri, pel contrario, tozzi, brevi, quadrati, bene incassati e
coperti dalla gengiva, promettevano indole e tendenze sì mansuete, che avrei
dato metà l'isola di Potikoros perché il mio regno non fosse stato popolato che
di quella razza.
Più tardi, quando rientrai nella
vita privata, ho fatto delle numerose esperienze sul
colorito dei denti, e sulla natura dei caratteri relativi. Non so se Lavater e
Gall abbiano esteso anche a ciò i loro studi, ma io credo di non essermi mai
ingannato sui rapporti che ho fatti e sulle deduzioni
che ho tratte in proposito. Diffidate di quelle persone che hanno i denti
bianchi e regolari, ma sopratutto bianchi.
Difficilmente una donna munita di denti piccolissimi, ben fatti, candidi di
quella candidezza abbagliante che esse ambiscono tanto, è una donna saggia e
fedele. Le bellezze più famigerate, le cortigiane più celebri,
le donne più note per grandi vizii o per grandi delitti ebbero, tutte
indistintamente, un pregio siffatto.
I denti neri o ingialliti, mal
collocati, indicano quasi sempre mitezza d'animo,
sofferenza, virtù, rassegnazione. Una donna dai denti neri sarà ributtante, ma
mai cattiva: si può essere sicuri della virtù di una
donna munita di tali denti.
Ma forse l'aver io perduto un regno
per causa d'uomini muniti di denti bianchi mi ha
tratto a queste convinzioni e a questo ostinato assolutismo nell'affermarle -
desidero di essere smentito. Certo è però che appena io vidi quella metà del
mio esercito, conobbi che non sarei rimasto sicuro sul mio trono; e pensai con
dolore a quelle parole che mi aveva detto il mio primo
ministro, che, cioè, i Denti neri costituivano la migliore metà del mio regno.
E stava meditando appunto su questo
pensiero, quando mi parve di scorgere che il mio primo ministro e gii altri
onorevoli membri componenti la commissione gettassero
sguardi inquieti sulla riva e specialmente sulle file dell'esercito dei Denti
bianchi, interrogandosi e parlandosi a vicenda con qualche inquietudine.
Per altro lato le file di
quell'esercito apparivano sì diradate, e il contegno dei
soldati sì provocante e sì fiero che io, sospettando di qualche disordine,
domandai le ragioni di quel contegno dell'armata e di quel discorrere
caloroso de' miei ministri.
- Sono dolente, disse uno de' miei ufficiali, di dover comunicare a Vostra Maestà
una notizia alquanto spiacevole. Sono scoppiati dei torbidi in alcune provincie
dello Stato, e una buona metà dell'esercito dei Denti bianchi si è ribellata al
governo. L'altra metà che voi vedete, pende esitante tra il favorire la vostra
installazione sul trono o congiungersi ai ribelli. I soli Denti neri rimangono
fedeli a Vostra Maestà, ma il loro valore non è pari a quello dell'altra metà
dell'esercito. Bisognerà affrettare la vostra incoronazione. Questa solennità
acquieterà tutti i tumulti, questo fatto compiuto troncherà le esitanze di
tutti quelli che non sanno tuttora se darsi alla monarchia, o secondare le idee
repubblicane delle provincie sollevate. Ci giunge anche notizia che in alcuni
luoghi siano stati abbattuti gli stemmi reali, e
deturpato il sacro merlo nero che ne formava l'impresa, ma si è provveduto a
che sieno presto ricollocati. Allorché, appena
compiuta la vostra incoronazione, Vostra Maestà sarà entrata nella sala del
Tribunale solenne, come richiede l'usanza, e avrà pronunciato giudizio sui
delitti consumati nella giornata, l'esercito e la popolazione, compresi dalla
vostra saggezza, non opporranno altro ostacolo alla vostra ascensione sul
trono.
- Mio Dio! io
dissi, sotto quali tristi auspici incomincia il mio regno! Ancora non ho posto
piede sulle rive de' miei dominii che una fiera
ribellione ne agita metà le provincie, e la parte più valorosa dell'esercito mi
abbandona per appoggiarne la rivolta.... Ma andiamo, io proseguii con voce più
ferma andiamo a compiere - se ciò s'ha a far subito - questa formalità
dell'incoronazione; e quindi se il prode esercito dei Denti neri presterà il
suo braccio alla monarchia, non dispero con esso solo di sottomettere i
ribelli, di consolidare il mio trono, e di conservare intatte le sacre. costituzioni del paese.
- Andiamo, ripeterono in coro i
miei ministri facendo atto di adesione alle mie
parole.
E uno degli ufficiali aggiunse;
l'incoronazione potrà compiersi sul momento: tutto è preparato, il paludamento
reale, la corona, il sacro osso nasale....
- Il sacro osso nasale!... interruppi io trasalendo, come sarebbe a dire?
- L'osso di balena che Vostra
Maestà introdurrà nelle sue narici reali.
- Nelle mie narici!
- È la
consuetudine del paese, è l'obbligo essenziale del re. Vostro padre....
- Lo so, lo so, io interruppi, non
proseguite.... ma quale orrore! esclamai
fra me stesso e io non ci aveva pensato... ma ciò è impossibile... il mio
naso.... il mio naso greco! il più puro naso greco che
io abbia mai veduto.... ah! io mi ribellerò a questa
abitudine crudele, a questa tortura terribile. Se io
tornassi in Europa! Se la ribellione mi privasse del
mio regno.... tornarci col naso forato, trapassato da un osso di balena... no,
no, ciò non può essere
E rivoltomi a' miei ministri dissi loro, dissimulando quanto poteva il mio spavento:
illustrissimi signori, io sono felice di procedere sull'istante alla mia
incoronazione, ma è occorsa credo una cattiva intelligenza in proposito...
desidererei... bramerei, se ciò è possibile, che si indugiasse alcuni giorni
per ciò che riguarda la formalità dell'osso nasale: una fiera costipazione, un
potente raffreddore che mi sono buscato lungo il viaggio, l'infiammazione delle
pareti interne delle narici rendono senza dubbio questa operazione alquanto
pericolosa; pregherei l'eccellentissimo ministro che mi ha accompagnato fino a
Potikoros a voler far conoscere a' miei sudditi questo desiderio, e disporli
all'indugio che è mia intenzione di frapporre al compimento di una formalità,
di cui per altro mi tengo altamente onorato.
A queste parole i miei ministri si
guardarono nel bianco degli occhi esterrefatti, e il ministro della Guerra in
ispecial modo diede non dubbii segni della sua meraviglia e della sua
disapprovazione.
Io ammutoliva
per vergogna.
Dopo un istante di silenzio il mio primo ministro rispose: noi siamo
profondamente convinti della verità delle giustificazioni addotte da Vostra
Maestà, ma non sarà molto agevole il convincerne l'armata ed il popolo. La
solennità che doveva compiersi oggi, ha radunato qui una buona metà della
popolazione di Potikoros, né credo che essa vorrà partirne senza avervi
assistito. Cotesto rifiuto può essere interpretato in
un senso poco favorevole ed essere causa di disordini non lievi nel regno. In quanto a me, non mi attento a sfidare il furore del
popolo, esponendogli il desiderio reale che Vostra Maestà mi ha fatto ora
l'onore di manifestare.
A questo diniego inatteso io mi
sentii venir meno, e trovai appena la forza di aggiungere: se io stesso devo
mostrarmi a' miei sudditi.... se posso arringarli io
in persona, non dispero di convincerli della verità delle mie asserzioni....
Perché il mio naso.... la mia mucosa.... E in quell'istante essendomi balenata
alla mente un'idea stupenda, mi avvicinai al mio primo ministro e gli mormorai
all'orecchio: persuadetene la popolazione, disponetela ad attendere, ed io vi
affiderò il comando della più florida provincia del regno, vi decorerò del gran
Cordone del Merlo nero.... E aggiunsi fra me stesso: se posso uscirne col naso
intatto dimetterò sull'istante questi ministri, rifarò il mio gabinetto,
allontanerò da me questi sudditi ribelli e corruttibili.
Il mio ministro cedette di fatto, come mi era lusingato, a quel tentativo.
Rivoltosi al mio seguito disse; veramente....
l'interesse, la quiete dello stato ci impongono di accordare a sua Maestà
l'indugio di cui ci richiede. Il momento è grave. Disposto al sacrificio della
mia popolarità pel bene del paese, io sono deciso ad
arringare il popolo circa i motivi che impediscono temporariamente l'attuazione
di questa operazione importante: piaccia al cielo che le mie parole siano ben
accolte e credute!
Quindi rivoltosi a me che in quel
frattempo era salito sopra una specie di carro destinato a recarmi sul luogo
dell'incoronazione, aggiunse: andiamo, E ci riponemmo in viaggio.
Attraversammo un buon tratto di
strada tra le ovazioni vivissime della folla; e giungemmo in breve tempo ad un
piccolo rialzo di terra sul quale era innalzato il mio padiglione. Tutta la
campagna circostante era gremita di popolo; le dame Potikoresi vestite di un
costume assai semplice, spesso di un costume affatto adamitico, stavano
raccolte a gruppi sotto i padiglioni naturali che formavano le palme e i
banani. Alberi giganteschi di paradiso attorniavano il recinto del luogo
destinato alla mia incoronazione, e sovr'essi frotte di fanciulli
a cavalcioni qua e là lungo i rami suonavano certi loro strumenti di cocco che
producevano un rumore indiavolato. Da quel rialzo di terra si aprivano allo
sguardo orizzonti stupendi; da un lato, il mare seminato in ogni punto di isolette quasi impercettibili e tutte verdi per la
vegetazione più rigogliosa; dall'altro, campagne sterminate, pianure solcate da
fiumi, colli ricoperti di boschi, montagne rivestite di eriche gigantesche; e
sovra tutto ciò, il cielo stupendo del tropico, il cielo alto, sereno, sempre
infuocato di quella terra prediletta dal sole.
Ma io era
in preda ad impressioni che moveano da cause ben diverse. Il timore che i miei
sudditi volessero esigere sull'istante il compimento di tutte le formalità
richieste per la mia incoronazione, il pensiero che, ove pure mi fosse stato
accordato tale indugio, io non avrei potuto sottrarmi col tempo all'esigenza di
quella moda crudele; e poi la ribellione delle mie provincie, la rivolta
dell'esercito, le diserzioni, la poca devozione dei miei ministri, tutto ciò
veniva ad amareggiare la mia gioia per modo che fui più volte in procinto di
rimpiangere la mia vita modesta, ma libera, di letterato.
E per altro lato, ove avessi potuto
superare questi ostacoli, quanti piaceri mi aspettavano! La mia stupenda
posizione anzitutto; e poi quel lusso, quello sfarzo, quello spensierirsi
continuo; e l'harem, l'harem più d'ogni altra cosa; e quel costume sì grazioso,
sì semplice, sì stuzzicante delle dame Potikoresi.... tutto
ciò era pur preferibile all'oscura aridità della mia gioventù trascorsa.
In preda a questi pensieri io era entrato nel ricco padiglione, ove doveva essere
incoronato, e donde sarei stato condotto alla reggia.
Le sorprese più grate mi
attendevano in quel luogo. Oltre i doni ricchissimi in verghe d'oro e
d'argento, e in grosse pietre preziose che mi erano state inviate dalle
provinci e fedeli del regno, le fanciulle del mio
serraglio mi avevano mandato un'ambasciata di dodici delle più belle tra loro,
incaricate di ricevermi e prestarmi ogni sorta di servigi nel padiglione. Io
non aveva veduto mai bellezze più abbaglianti, né è
possibile che possa manifestare l'emozione che provai a quella vista.
Il loro abito orientale era tutto
ornato di lanugine di cigno e di perle, i loro calzoncini di seta azzurra erano
stretti alla caviglia piccola e asciutta da un laccio magnifico a fiocchi
d'oro, i loro piedini chiusi in scarpette a ricami erano sì piccini che
potevano essere contenuti nella mia mano; tutte le loro forme erano ad un tempo sì piene e sì delicate, e spiravano tanta voluttà
che io non aveva mai veduto, o immaginato soltanto, creature più graziose e più
seducenti.
Ma una ve n'era sovra tutte che colpì
in ispecial modo la mia immaginazione. È impossibile il dire quanto ella fosse bella, forse anche impossibile lo immaginarlo: la
bianchezza del suo viso era quasi luminosa - abbagliava: le sue fattezze, i
suoi profili si perdevano in una specie di vaporosità leggermente rosata; i
suoi capelli erano sì sottili, sì neri e sì lucenti che ondeggiavano sotto
l'azione della luce come un drappo serico; e mentre io stava contemplando quel
prodigio di avvenenza, essa mi si appressò timida e sorridente, e dopo aver
pronunciato alcune parole in lingua Potikorese che mi riuscirono per ciò
inintelligibili, asciugò il sudore che mi stillava dalla fronte con un suo
fazzolettino che non era più voluminoso di una tela di ragno, ed esalava tutti
i profumi più inebbrianti. Animato da tanta affabilità, e più ancora dal pensiero
che io era re e che quella divina creatura era mia, trovai il coraggio di
dirle: Come vi chiamate?
- Opala, diss'ella,
la più affezionata e la più fedele delle vostre schiave.
E pronunciò questa
parole nella mia lingua.
- Voi non siete
nativa del mio regno? le chiesi io
meravigliato.
- No, disse la fanciulla.
La defunta Serenità di vostro padre mi portò seco
bambina dall'Oriente, e mi apprese la lingua e i costumi della vostra nazione.
Egli mi onorava particolarmente della sua affezione, e mi ha conferito una
speciale autorità sulle donne del vostro serraglio.
- Mio padre, esclamai tra me
stesso, non aveva gusti depravati, non aveva
deficienza di senso estetico... una così bella creatura! Ma
egli doveva aver passato i sessant'anni... è impossibile... E rivoltomi ad
Opala le dissi: Mio padre vi amava?
- Molto.
- Di che affetto?
Il volto di Opala
si coprì d'un vivace rossore. Io che capiva a stento
in me stesso, non seppi trattenermi dall'abbracciarla, esclamando: io pure vi
amerò molto, io vi lascierò intatta l'autorità conferitavi da mio padre. Dio
mio! voi siete sì bella!… voi sarete la mia prediletta
e la mia regina,
- È egli vero? disse
Opala.
- Quante è vero l'affetto che sente
già il mio cuore per voi.
- Per me! la
vostra schiava....
- Non dite così, interruppi io - e
in quell'istante osservai che le altre donne si ritiravano inchinandosi e ci
lasciavano soli - dite la vostra amante, la vostra
sposa; trovate, se potete, una parola sì dolce che valga ad esprimere ciò che
voi sarete per me.
Opala si gittò alle mie ginocchia,
e abbracciandole disse: Grazie, grazie, io pure vi amerò; io languiva
qui così sola, così abbandonata... perché vostro padre.... era sì vecchio
vostro padre... e sì stizzoso! Voi siete tutt'altra
cosa. Perché io non era stata educata qui, in
quest'isola... oh! sì, io vi amerò molto, non vivrò
che per voi; e dormirò sul vostro tappeto, vi darò a bere il sorbetto colla mia
bocca, vi solleticherò colle penne del mio ventaglio, vi farò riposare la testa
sulle ginocchia, vedrete, vedrete!
- Oh buona creatura! io dissi tra me stesso, sarei pur felice con te, E pensai:
se fosse possibile abbandonare il mio regno, fuggire con questa fanciulla,
portar meco i tesori di mio padre, quel diamante favoloso, queste verghe
d'oro... e non veder più questi Denti bianchi, questi Denti neri... questi
odiosi ministri... sottrarmi ad un supplizio spietato.... E mosso da un
trasporto di affetto sincero, aggiunsi abbracciandola e sollevandola: sì, mia
diletta fanciulla, se io potessi fuggire con te, portarti meco nella mia
patria!... perché devi sapere che mi si vuole già ritogliere il regno, che si
pretende deturparmi il viso, forarmi il naso, il mio naso greco, il naso
caratteristico della mia famiglia... E poi...
Ma in quell'istante un fracasso
terribile venne a troncare le mie parole. Io mi rivolsi e vidi il primo
ministro che entrava ansante impallidito nel padiglione, e dietro ad esso alcuni ufficiali di Corte, uno dei quali mi disse:
avvengono dei gravi disordini; è necessario che Vostra Maestà si affretti ad
installarsi nella reggia; alla sua incoronazione si penserà dopo... Il popolo
non ha prestato fede alle parole dell'onorevole ministro che voleva
giustificare il diniego di Vostra Maestà a subire tutte le formalità di questa
incoronazione. Indarno egli ha asserito che ella ne è
impedita da un raffreddore potente, che ha inteso egli stesso lungo il viaggio
dei fragorosi starnuti reali.... non gli si è creduto: il sentimento nazionale
è scosso profondamente da questa notizia, e il rimanente dell'esercito dei
Denti bianchi ha abbandonato senz'altro le sue bandiere per congiungersi alle
file dei ribelli. Bisogna affrettare l'entrata nella capitale finché la
reazione non si è organizzata, e non si è posta in grado d'impedirlo. I Denti
neri sono per noi; ove il giudizio pubblico che vostra maestà presiederà oggi,
incontri il favore popolare, le sorti della monarchia possono essere ancora
rassicurate.
- Io ho potuto,
dissi allora, sollevandomi di tutta la persona, animato da non so qual
forza interna, io ho potuto forse mostrarmi debole d'innanzi ad un'esigenza cui
le abitudini contratte nella mia patria mi rendevano un poco ripugnante, ma non
lo sarò mai d'innanzi agli uomini che vogliono spogliarmi del regno, privarmi
dei sacri diritti che mi sono stati trasmessi da mio padre. Se non potrò sedere
sul trono di Potikoros, saprò almeno morire difendendolo,
E affacciandomi
all'uscio del padiglione, e guardando con occhi torvi la folla, esclamai con
voce più alta; recatemi le mie armi e il mio cavallo, che io indossi il mio
paludamento reale, tutti i miei distintivi di re, e la corona, aggiunsi
prendendomela e posandomela sul capo; saprò ben io difenderla da chi si
attentasse a tormela.
I miei ministri e i miei ufficiali
meravigliati da tanto ardimento mi fecero recare in fretta il mio cavallo, e mi
aiutarono ad indossare i miei distintivi. Dopo che, fiero del mio coraggio,
balzai in sella colla spigliatezza d'un giocoliere e mi avviai
in mezzo ad essi alla capitale del regno, e alla reggia.
Ma il coraggio veníami meno lungo la
via,
L'accoglienza poco lusinghiera
della popolazione, il freddo contegno de' miei
ministri, le urla selvaggie dei ribelli, quei crocchi di Denti bianchi che
incontravamo ad ogni istante sul nostro passaggio mi facevano venire la pelle
anserina, o ciò che si dice più comunemente la pelle di oca, come se la mia
sacra epidermide reale fosse stata l'epidermide del più volgare e del più
ignobile de' miei sudditi, E tentando di dare come poteva meglio una diversione
qualunque alle mie idee. immaginava come le oche
debbano trovarsi in uno stato di spavento incessante se quel fenomeno della
loro pelle è continuo, e mi sentiva tratto da un sentimento di pietà, a
commiserarle. Che se così non fosse, come potremmo noi
esprimere, volendo attenerci strettamente alla medesima frase, lo stato di
spavento in un'oca? Potremmo forse dire che l'oca ha la pelle di oca?
Io comprendo ora come il quesito
che andava formulando in quel doloroso viaggio a me stesso, fosse meno ancora
che puerile e non consentaneo alla mia dignità di monarca; pure confesso che me
ne trovava imbarazzato, e che fu in virtù di quell'imbarazzo che giunsi alla reggia senza che i motivi di terrore che mi
circondavano, avessero potuto cagionare in me dei fenomeni più sensibili e più
complicati.
La reggia era un edificio stupendo;
tutte le meraviglie, tutte le delizie, tutte le ricchezze dell'Oriente vi erano
state accumulate a larga mano.
Mio padre aveva saputo conciliare
fastosamente la mollezza dei costumi orientali colla severa grandiosità dell'architettura
europea. Non credo vi sieno in Europa reggie o palazzi di privati più eleganti;
certo io non aveva né veduto, né immaginato mai
edificio più sontuoso e più splendido. Quantunque le
pareti fossero tutte in legno di noce d'India, gli intagli erano sì stupendi, e
le decorazioni in oro, in avorio e in argento eseguite sì maestrevolmente, e
con tanta grandiosità di dimensioni, che le proporzioni del fabbricato e
l'eleganza di quegli ornati non erano inferiori a quelli di qualunque casa
europea.
Il mio appartamento speciale era
uno di quei ritiri incantevoli che si sognano a
quattordici anni, di cui spesso non si ha neppure la facoltà di concepire
un'idea, uno di quegli edifici che l'architettura nostra costretta nei limiti
inesorabili dell'arte e delle sue tradizioni, non avrebbe mai lo slancio e
l'ardimento necessario a creare. Io vi rimasi sventuratamente sì poco che non potrei darne una descrizione dettagliata. Non ho serbato
memoria che delle stelle mobili che si perdevano nell'azzurro del soffitto di
cui non si vedeva il fine, e che gettavano onde di luce abbagliante del colore dello smeraldo. Forse in quel cielo artificiale era
rappresentato un intero sistema planetario, co' suoi fenomeni, colle sue
orbite, con tutte le sue leggi di evoluzioni. Ricordo
il pavimento elastico e semovente, tutto tempestato di rubini, la cui azione di elasticità era combinata per modo, che cedendo dolcemente
sotto la pressione del piede e rialzandolo tosto per forza propria, rendeva
affatto nulla la fatica del camminare, in guisa che vi si avrebbe potuto
passeggiare delle intere giornate senza provare il menomo sintomo di
stanchezza.
Mi sovvengono pure alla memoria
alcune specie di incensieri che appesi a certi arpioni
d'oro massiccio sporgenti dalle pareti, si dondolavano per moto proprio; ed
emettevano un vapore profumato, in mezzo alle cui spire volteggiavano delle
figurine nude, le quali cambiavano forma e colore ad ogni istante, e giunte ad
una certa altezza, si assottigliavano e si scioglievano in fumo. Le esalazioni
di quei turiboli agivano sì potentemente sui sensi che io mi sentiva
come preso da ebbrezza, né poteva prestare attenzione al canto soavissimo di
certi uccelli che non vedeva, ma che pensai dovessero essere rinchiusi in una
gabbia sospesa nell'azzurro del soffitto.
Non parlerò del
mio letto, del mio trono, di tutti i mobili delle mie stanze; sarebbe
impossibile dirne la foggia, l'uso, i dettagli; erano pelliccie sovrapposte a
pellicce, tramezzate di strati di petali di rosa che si mutavano ogni giorno: le
sedie si cullavano da sé, volendo ristavano: e le dame di corte - le più
attraenti beltà di Potikoros - avvolte in un semplice velo color di rosa,
andavano e venivano per le stanze, ansiose di sorprendere ogni mio più piccolo
desiderio, ogni mio bisogno più insussistente, e soddisfarlo colla rapidità del
pensiero.
Appena posto piede nel mio
gabinetto particolare, alcune di queste dame mi presentarono il mio nuovo
costume di monarca, e si accinsero a spogliarmi del mio abito di borghese
(sotto il mantello reale che avea indossato nel padiglione, io vestiva ancora
in quell'istante un abito a coda di rondine, di cui non avevo per anco
soddisfatto il conto al mio sarto) per mettermi in grado di presiedere al
giudizio popolare in tutta l'imponenza, e in tutto lo splendore della mia
carica.
Ma il mio pudore
non mi permetteva di cedere all'invito di quelle dame rispettabili; io mi
sentivo salire il rossore fino alla punta del naso; e mi provai a far loro
conoscere la mia ripugnanza con un discorso di questo genere:
- Egregie signore... compitissime
signore... le mie abitudini di toeletta;... il rispetto che io nutro per le
loro persone... non mi permettono di mostrarmi qui in
tutta la semplicità del mio costume naturale... e oltre ciò, i miei arnesi di
biancheria, le mie mutande... in un viaggio sì lungo... senza la risorsa del
bucato... esse capiranno....
E stava per aggiungere peggio, ma
mi avvidi che nessuna di esse intendeva la lingua del
mio paese; e non potendo far di meglio, lasciai fare, con quanta confusione da
mia parte, permetto a' miei lettori di immaginarlo.
Quando mi trovai
vestito, attilato, serrato, come in una morsa, dalle cinture di quell'abito
tutto ornato di lamine di metallo e di perle, avendo chiesto dell'ora fissata
pel giudizio pubblico, e avendo osservato nel mio orologio, (un vecchio
orologio di Ginevra che aveva avuto cura di regolare sul meridiano di
Potikoros) che vi mancava una buona mezz'ora, chiesi di essere condotto al mio
serraglio; e mi vi avviai in mezzo alle persone del mio seguito, parte delle
quali mi precedevano agitando dei grossi ventagli di piume, e parte recando con
sé alcuni di quegli incensieri che aveva già veduto nelle mie stanze.
Dio! dove
troverò io espressioni sì eloquenti che bastino a manifestare la sorpresa, la
meraviglia che provai alla vista del mio serraglio! Io era
rimasto muto ed estatico. Appena ebbi la forza di pronunciare alcune parole per
accomiatare gli onorevoli ufficiali della mia casa che mi vi avevano
accompagnato.
Non farò una descrizione di quel
luogo: sarebbe impossibile. L'eleganza, la mollezza, il lusso del mio
apartamento erano uno sfarzo meschino a confronto
della magnificenza di quello, tutto si confondeva in un'onda immensa di luce:
era una di quelle illusioni ottiche che si provano nei sogni da fanciullo;
qualche cosa di simile a quelle visioni che si ottengono a quell'età,
vellicando le pupille col rovescio della mano.
Qua e là negli interstizii d'un
lungo colonnato erano appese delle reticelle di seta ripiene di veli e di
pizzi, dentro le quali alcune delle mie fanciulle
vestite in quel semplice e delizioso costume di Potikoros, si dondolavano
agitando i loro piccoli ventagli. Altre stavano sedute su certi divani di raso
azzurro, raccontandosi novelle di fate e di genii; altre mangiucchiavano confetti
o coccole profumate, di cui mordevano la buccia coi
loro dentini (credo aver detto che le donne del serraglio erano tolte tutte
dalla tribù dei Denti bianchi) altre infine giuocavano con dei veli, con delle
piume; o imbeccavano delle tortorelle che erano grandi quanto uno dei nostri
scriccioli, e dei piccoli colibrì che non erano più grossi d'una farfalla.
Opala (io l'aveva cercata collo
sguardo appena posto piede in quel santuario) Opala già mutata d'abbigliamento
e raggiante della bellezza più attraente, era seduta sopra un
seggio più elevato, una specie di trono che occupava per segno di distinzione.
La sua testa graziosa si riposava
in attitudine di pensiero sopra un soffice guancialetto di velluto; i suoi
piedini rinchiusi in una pianella impercettibile d'un tessuto serico quasi
trasparente, posavano riuniti e composti sopra uno sgabellino d'oro e di avorio, le sue mani piene di una tacita voluttà le
pendevano giù pei fianchi in atteggiamento di abbandono, e le sue lunghe
palpebre mezzo socchiuse non lasciavano ben indovinare s'ella dormisse o
sonnecchiasse per vezzo fantasticando.
Al rumore de' miei
passi (nessuna pianella del mio guardaroba reale avendo potuto calzare al mio
piede, io portava tuttora il mio unico pajo di mezzi stivali a doppia suola),
Opala si scosse, e vedutomi, scivolò giù dal suo trono, e venne ad
inginocchiarsi a miei piedi.
A quella vista
tutte le
reticelle sospese si abbassarono, non so come, fino al pavimento; le fanciulle
ne uscirono così abbigliate come erano, e si prostrarono esse pure ad una breve
distanza da noi. Una musica divina e sommessa incominciò in quel momento a
farsi udire nel serraglio, e ad elettrizzarmi colle sue note.
- Nobili dame, io dissi rialzando
Opala, e rivolgendomi alle altre, cui accennai di fare
altrettanto, prego.... insisto perché esse si alzino; qui non vi è etichetta di
Corte, non vi sono leggi di convenienze... Prego a voler considerare la mia
persona reale come la persona di un semplice amico, come una persona di
famiglia... già; intendo introdurre delle modificazioni nel regime interno di
questa nostra società... voglio dire delle leggi d'uguaglianza una parità di
diritti, un equa ripartizione di....
E non venendomi al balzo la parola
che calzasse a dovere, temendo di prometter troppo, e
desiderando per altro lato di trovarmi qualche istante solo con Opala,
aggiunsi: già... so ben io quel che intendo di fare... Le prego intanto di
risalire nelle loro reticelle, nei loro nidi... le prego a rioccupare i loro divani...
io mi farò un dovere di venire più tardi.... col tempo... appena lo
permetteranno le gravose esigenze della mia carica, a rendere a ciascuna di
esse l'omaggio del mio rispetto e della mia ammirazione.
Fui grato alla Serenità di mio
padre di aver introdotto nel sistema educativo del serraglio l'insegnamento
della lingua del mio paese, poiché tutte quelle mie fanciulle,
risalirono all'istante nelle loro reticelle; e Opala, prevenendo i miei
desiderii, mi prese per mano e mi condusse nel suo gabinetto particolare.
Ci sedemmo sopra un soffice tappeto
di Persia. Io era sì stanco per le fatiche della
giornata, e sì turbato da tutte quelle apprensioni d'ogni genere, che quello
stato di prostrazione m'induceva quasi per bisogno alla tenerezza e ad una
espansione confidente e sincera.
- Quanto siete
buona! io dissi ad Opala abbracciandola, quanto siete
bella! Divina creatura! Voi mi avete preceduto in questa reggia, dove io non
rimarrò forse molto tempo, e d'onde non mi sarebbe doloroso l'allontanarmi, se
non fosse pel pensiero della vostra perdita. Non
credeva di trovarvi subito qui, ve ne ringrazio; aveva
proprio bisogno di sollevarmi un poco con voi dalle cure dolorose del mio
Stato.
- Io posso tanto sul vostro cuore?
- disse la fanciulla - quanto ve ne sono grata! Oh,
voi siete sì diverso da vostro... era sì nojoso vostro
padre. Non amava che di farsi raccontare delle novelle, di passeggiare su e giù
per le nostre sale, di regalarci qualche balocco, di farsi accompagnare a
braccetto fino alla soglia del suo appartamento, di farsi reggere da noi la
coda dell'abito.... Era insoffribile, perdonate, ma
era insoffribile.... Già, credo che avesse settant'anni.
- Pressapoco.
- Ecco! Ma voi siete sì giovine, sì bello, sì vivace. Non sapete... io tremava vedendovi nel padiglione... temeva che vi si volesse
costringere a subire quella barbara usanza del nostro paese. Non che mi impaurisse il pensiero che aveste a perdere il vostro
trono, giacché vi avrei amato lo stesso, e voi mi avreste amata ancora di più;
ma tremava per me medesima.. mi avrebbe fatto ripugnanza vedervi col naso
forato, vi avrei abbracciato con dispiacere. Se aveste
veduto vostro padre... che figura faceva vostro padre col naso così trapassato
da quell'osso! Ma... ora come farete a sottrarvi a
quel supplizio? Vi siete rifiutato di acconsentirvi?
- Sì.
- E
credete di poter sfuggire all'adempimento di quest'obbligo crudele?
- Non so, diss'io, ma per fermo
sono risoluto a niegarmivi. Tanto più che voi mi preferite così, che non mi amereste altrimenti....
- Oh sì, sì, disse la fanciulla abbracciandomi con innocente civetteria, non
voglio, io, che vi si guasti il naso, questo naso greco, questo naso così
grazioso.... Ma del resto io vi amerei in tutti i modi. E
se voi doveste abbandonare quest'isola io vi seguirei lo stesso. Non è vero che
voi mi permettereste di seguirvi?
- Son io, dissi, che vi seguirei,
che perdendo il mio regno, troverei un compenso adeguato nell'acquisto che
potrei fare del vostro amore. Perché… soltanto che voi mi amiate,
che siate disposta a rifuggirvi meco nel mio paese, io avrò la forza di oppormi
a tutte le torture che mi minacciano. Credo che i tesori di mio padre superino di gran lunga le più ricche fortune che ci sono in Europa e
in quanto ai mezzi di rimpatriare, i miei ministri sono abbastanza corruttibili
- come tutti i ministri che ho conosciuto nel mio paese - per lusingarmi che
vorranno accordarmeli.
- Quanto sarei
contenta di venire con voi nel vostro paese! Non crediate già che noi siamo felici qui dentro. Non amiamo nessuno, noi; non siamo
amate da nessuno: io per esempio mi reputava assai
sventurata prima di vedervi; ed ora... sento bene che sarò felicissima con voi,
tanto più se lungi di qui, perché... queste dame... ve ne sono delle graziose,
delle più avvenenti di me....
- Non è
possibile, io dissi con asseveranza.
- Oh, sì, diss'ella
ve ne sono delle più graziose... e voi le amereste.
- Mai.
- Voi le amereste.
- E via,
diss'io abbracciandola, non pensate a queste cose.
- Una scena di gelosia, a
quest'ora, ruminava intanto tra me stesso; e vedendo che Opala aveva gli occhi
inumiditi di lacrime, pensai di dare una diversione più lieta al nostro
discorso. Ma non trovava argomento di una diversione che tornasse
anche acconcia a' miei disegni. Cambiai argomentazioni di sbalzo.
- Che
occhi furbi che avete, le dissi affissandola con aria che stava tra
l'ammirazione e l'insolenza.
- Non è vero.
- Sì, è vero, avete degli occhi
meravigliosi veramente! E che capelli! Lasciatemi
toccare.... che trecce piene, abbondanti! Ma non avete freddo ai vostri piedini, così, con quelle
pianelle sì trasparenti?
- No.
- È impossibile. Che
piccoli piedi! scommetto che sono più brevi della mia
mano. Vediamo, lasciatemi misurare.
- Ecco.
- Vedete: avanza tutta l'unghia del
dito, tanto così.... Siete pur graziosa! Come non
amarvi? Bellissima creatura!
- Via, via, voi mi adulate....
- No, non è vero.
- Sì.
- No, ve lo giuro.
- Giurate soltanto di amarmi.
- Lo giurerò dopo. Datemi un bacio.
- Ecco.
Ma Opala aveva detto troppo presto
questa parola.
Mentre che ella
curvava il suo volto sul mio si arrestò a mezzo dell'atto: la fanciulla aveva
ascoltato un rumore improvviso all'uscio del gabinetto.
- Affrettatevi, diceva dal di fuori colla sua voce stentorea, il mio primo
ministro, l'ora del giudizio è già trascorsa, e la folla vi attende con
impazienza; un indugio maggiore potrebbe peggiorare le gravi complicazioni
politiche in cui versiamo, non fatevi aspettare più oltre.
- Mio Dio! io
dissi, interrogando di nuovo il mio vecchio orologio di Ginevra, è vero, l'ora
fissata è trascorsa di qualche minuto. Ma è un abuso cotesto....
ho o non ho un'autorità sovrana, assoluta? Disturbarmi, sorprendermi così nelle
mie stanze, interrompermi durante le espansioni più doverose delle mie
tenerezze domestiche? Se giungo a consolidarmi sul
trono, rifarò da capo il regolamento interno della mia casa.
E ricordandomi che il ministro
attendeva fuori dell'uscio - vengo, soggiunsi a voce più alta, sono da voi,
avvertitene il popolo.
Quindi abbracciai la fanciulla che mi diceva: è un vero dispetto, venirvi ad
importunare a questa ora. Che orrore! Ma ci rivedremo stassera.
Mi avviai alla sala del giudizio:
era mia intenzione di tenere un contegno severo, di impormi, di farmi temere;
ciò che pareami sarebbe tornato assai più efficace di un'indulgenza che i miei
sudditi erano ben lungi dal meritare.
Oltre a ciò aveva
in animo d'introdurre nelle leggi dello Stato alcune disposizioni, la cui
saggezza avrebbe potuto dare il concetto più lusinghiero della mia sapienza
governativa. -
Sarò severo, diceva tra me stesso, ponendo il piede
sul limitare della sala, sarò inflessibile: e debbo confessare che in quel
momento la mia anima macchinava tristi progetti a danno del mio popolo. Se io
riesco a consolidarmi sul trono; se coi tesori di mio
padre potrò formare un partito numeroso alla mia causa, muterò sull'istante i
vecchi statuti del Regno - ruminava tra me medesimo - e cambierò il governo
costituzionale che mi tiene legate le mani in un governo dispotico. Farò, come
mio padre, un colpo di Stato. Che cosa è questo
governo costituzionale? Una derisione per la mia persona, per
la mia qualità, per le tradizioni gloriose della mia casa. Il popolo fa
ciò che gli aggrada, e io debbo accennare della testa
come un fantoccio snodato di Norimberga quando gli si tira il filo che lo fa
gestire. Aveva appreso nel mio paese come si debba
governare una nazione: allora era suddito, adesso era re, ma non si trattava
che di invertire le parti. - Guai a quel capo dello Stato, ripeteva a me
stesso, che non sa fare del suo popolo tanti tipi
perfetti di cretino, che invece di pensare a fruire di tutte le risorse della
sua posizione, e a dare al paese buon numero di sudditi di sangue reale e
plebeo incrociato, si occupa coscienziosamente dell'avvenire e della dignità
della nazione che gli ha affidato i suoi destini. Questa testa coronata è una
testa già distaccata dal collo. La civiltà è una mannaja che taglia le teste
coronate.
Io confesso che il mio orgoglio non
lasciava più alcun limite alla mia fantasia. In quell'istante di entusiasmo, la teocrazia stessa era ancora poco per la
mia ambizione.
Entrai nella sala, e presi posto
sul trono: a' miei fianchi stavano i ministri, d'innanzi a me i colpevoli, all'intorno la folla.
I Denti neri si alzarono e mi
fecero un'ovazione fragorosa; ma quegli scellerati Denti, bianchi coi loro orribili denti bianchi, armati dai piedi alla
testa, mi guardarono torvi e sdegnosi tacendo. Feci allora un piccolo discorso di occasione che provocò qualche applauso dalla tribuna dei
giornalisti stipendiati; dopo di che tentai il mio colpo d'effetto; domandai
che mi si portasse la raccolta delle leggi dello Stato, e pregai il mio
segretario particolare a dar lettura dei nuovi regolamenti che io aveva
raffazzonati a questo scopo lungo il viaggio, e che intendeva inserire in
quegli Statuti.
Consistevano in una serie di articoli relativi all'abolizione del melodramma dal
teatro Potikorese, basati su queste ragioni: essere il dramma musicale il
non-senso più enorme, l'assurdo più mostruoso e più ridicolo di cui la scienza
si sia resa colpevole. A questo progetto ne andava
annesso un altro relativo ai mimi, ai ballerini, ai tenori e ai baritoni dalla
trachea più o meno dilatata; ai primi dei quali doveva essere inflitta una pena
di ridicolo pel diritto di esercitare il loro mestiere, e ai secondi s'imponeva
l'obbligo di ricordarsi consistere tutto il loro merito nella forma e nella
dimensione della trachea.
Un secondo progetto di legge
regolava i diritti degli autori e degli editori. Cinquanta articoli si
riferivano esclusivamente a questi ultimi, ed erano sì severi e ad un'ora sì
giusti, che mi sento addoloratissimo di doverli ora
tacere in causa della loro prolissità. Mi limito a rammentare che in uno di essi, per un caso di pirateria libraria, era proposta la
pena della sospensione pei piedi fino a totale estinzione di vita, - e credo
che fosse poco.
Altri articoli stabilivano pene pei delitti letterari. V'erano severamente puniti i lavori
di collezione e di circostanza; quei lavori di schiena che si atteggiano a
lavori di testa, ec. ec.
Un'appendice a questa disposizione
interdiceva alla classe dei professori di credersi letterati, e li chiamava
responsali d'innanzi alla posterità della istruzione
eunuca e della catalessi intellettuale che è condannata a subire la giovine
generazione dei tempi nostri.
Un'altra disposizione legislativa
toccava delle fame imposte e delle fame usurpate; proponeva pene pei letterati funamboli; condannava a perpetuo bando
dall'isola i poeti che si fossero attentati a dar lettura dei loro versi a
qualche infelice costretto a subire questa violenza, e vietava finalmente la
rappresentazione del dramma e della tragedia - considerate come le più ridicole
parodie del dolore e delle sciagure umane.
Erano, in una parola, un complesso
di leggi inspirate dalla più alta saggezza, e la mia mortificazione non fu sì
grande come la mia meraviglia quando intesi che esse erano già state introdotte
nel Codice di Potikoros, fino dal tempo in cui
quest'isola si reggeva a repubblica.
La repubblica aveva dunque giovato
a qualche cosa? Per la prima volta io compresi che il Due dicembre di
mio padre aveva avuto in sé tutto il carattere di un
tradimento indegno, e mi sentii tratto a fare un apprezzamento più benigno di
quegli onesti Denti bianchi che coi loro atteggiamenti minacciosi, e coi loro
terribili incisivi foggiati ad uncino, reclamavano la ricostituzione del primo
sistema governativo dello Stato.
Ma in quel momento non poteva, come
avrei voluto, soffermarmi su queste considerazioni; e d'altronde il mio
interesse personale mi avrebbe reso ingiusto nell'apprezzarle. Credete voi che
tutti coloro che sedettero - come io ho seduto - su un
trono, non abbiano fatte le stesse considerazioni, benché le abbiano poi
soffocate nel fondo della coscienza collo stesso spirito di egoismo?
Un fatto meraviglioso si presenta, fino dalle prime epoche della storia dei popoli, agli occhi
dell'osservatore e del filosofo. Cinque o sei furbi matricolati regolano a
bacchetta i destini di tutta questa massa sterminata di pecore che è l'umanità. Ho letto, non so più dove: mala bestia esser
l'uomo, divina cosa la umanità. Non è vero! Per me ho
dovuto sempre guardare all'uomo, all'individuo, alla creatura isolata per
sapermi trovare meno in disagio colla massa degli uomini; mi sono riconciliato
alla meglio, dacché vivo, con tre o quattro di loro, ma credo che non mi
riconcilierò mai col resto dell'umanità. D'altronde questa credenza ha cessato
di addolorarmi.
Ma bando alle digressioni.
Era tempo d'incominciare il
giudizio, e feci perciò avanzare il primo colpevole. Fu data lettura dell'atto
d'accusa.
Io era
tutto orecchi nell'ascoltare, anzi per servirmi d'una frase inglese, era tutto
un orecchio, poiché non ignorava che il mio destino dipendeva totalmente
dall'esito di quel giudizio.
L'atto di accusa
era concepito press'a poco in queste parole:
«Akriundaz, della provincia di
Pikliya-pokenos, di anni trentadue - della tribù dei
Denti neri, di professione incettatore di merli bianchi, è imputato del furto
di due pani rubati nella bottega Srikis Tenariasbikeloz esistente sul corso
principale della nostra città di Potikoros, con rottura d'un vetro, e senza
circostanze attenuanti».
Benché la lettura di quell'atto scritto
in lingua Potikorese avesse fatto poco meno che spezzarmi i timpani delle
orecchie, riordinai come sapeva meglio le mie idee, e invitai l'imputato ad
esporre le sue difese.
- L'incetta dei merli bianchi,
disse egli, essendo diventata più difficile e meno lucrosa per l'introduzione
del merlo nero operata dalla Serenità di vostro padre nella nostra isola, e in
causa dell'omaggio che vien reso ad esso dal popolo,
essendo caduti in dispregio i merli dell'altro colore, io mi sono trovato da
qualche tempo fuori della possibilità di vivere dei frutti del mio commercio.
Ho chiesto stamane all'onorevole fornaio Tenariasbikeloz che mi fossero dati ad imprestito alcuni pani. Rifiutandomeli egli
io ho spezzato un cristallo della vetrina e ne ho tolti
due. Io sono un onesto Dente nero. Causa essenziale di questa violenza, fu
l'intenzione che aveva di festeggiare, come mi permettevano i miei mezzi,
l'assunzione di Vostra Maestà al trono di Potikoros.
Questa difesa cui non mancava
l'intingolo dell'adulazione, mi dispose in favore dell'imputato.
- Avreste dovuto, io dissi, far
conoscere alle autorità del vostro paese - parmi, se non erro, Pikliya-pokenos
- che vi trovavate nelle circostanze che avete esposte;
quel solerte questore di polizia vi avrebbe autorizzato a chiedere l'elemosina
senza violare le leggi dell'onestà con una appropriazione sì violenta.
- A chiedere l'elemosina! disse meravigliato il mio ministro.
E vide che gli uditori avevano
sbarrato tanto d'occhi nell'udire quelle parole.
- Sì, ripresi io, a voce più alta, lo si sarebbe autorizzato alla mendicità, lo si sarebbe
munito di apposita placca, come corre l'uso nei paesi civili dell'Europa.
Un bisbiglio immenso si sollevò
dalla folla, un bisbiglio di disapprovazione universale. Io sentii salirmi il
sangue dai piedi alla testa, e subito precipitare dalla testa ai piedi, e
rimontare di nuovo alla testa.
- Ignoro, aggiunsi
con coraggio, quali sieno le leggi di polizia di questo paese, ed è evidente
che non possa sull'istante conformarvimi. Sarà mia premura di prenderne subito
cognizione.
- Tra noi, interruppe il mio
segretario particolare, non è ammessa in alcun modo la mendicità; appena
conosciamo il significato di questa parola per le notizie che abbiamo avuto delle usanze invalse in Europa. Nell'isola di
Potikoros ogni suddito ha diritto al lavoro; e in caso d'impotenza, ha diritto
al mantenimento a spese dello Stato.
- Sono leggi
veramente saggie, io dissi, veramente apprezzabili. Ringrazio il mio degno segretario
particolare di avermene reso informato; ma....
riprendiamo il corso del nostro processo: L'onorevole fornaio....
- Tenariasbikeloz, suggerì uno dei
ministri.
- Tenariasbikeloz....
si trova egli presente all'udienza? In questo caso deponga se è vero che
l'imputato gli abbia chiesto ad imprestito i due pani prima di rubarglieli.
Il fornaio si avvicinò al tavolo
della presidenza e depose esser vero.
- Quando è così, io ripresi,
atteggiandomi a severità, udite le giustificazioni dell'accusato, visto la
necessità di mantenere inviolate le leggi fondamentali d'ogni diritto civile, tenuto
conto dell'asserzione del derubato, e delle altre cause attenuanti, condanno il nominato Akriundaz - credo Akriundaz,
incettatore di merli bianchi, alla pena di quattro anni di lavori forzati.
Non avessi mai pronunciata
quella sentenza! Un urlo di disapprovazione si sollevò dalla folla, un urlo
così fragoroso e feroce che i miei stessi ministri se ne sentirono impauriti I
capelli mi si drizzarono sì rigidamente sul cranio, che m'accorsi
che la mia corona doveva essersi sollevata due buoni pollici dalla testa. I
Denti bianchi, digrignando i loro terribili incisivi, domandavano che ne andasse libero l'accusato, e che si sottoponesse invece a
processo l'onorevole fornaio Tenariasbikeloz: adducevano a pretesto il diritto
che egli aveva di appropriarsi quei pani che aveva chiesti, e che gli erano
stati rifiatati; e citavano non so qual articolo di legge, nel quale era detto
che ogni cittadino resosi, per qualsifosse ragione, impotente al lavoro, poteva
esigere il mantenimento gratuito a spesa dei privati ricchi e dello Stato.
Io non so come giungessi
a sedare quel tumulto. La fermezza del mio contegno e quella de' miei ministri
- sento il dovere di rendere loro questa giustizia - riuscirono a poco a poco a
ristabilire un po' d'ordine nella adunanza.
La minaccia di far sgombrare la
sala da un mezzo pelottone di Denti neri ottenne il suo effetto.
Quando la calma fu
ristabilita, ordinai che si facesse avanzare il secondo colpevole.
Era il direttore del giornale Il
Giudizio Universale (il giornale ufficiale di Potikoros) accusato di aver
recato il disonore in una onesta famiglia con alcune
taccie infamanti, destituite d'ogni verità.
L'onorevole direttore parevami una
persona seria e meritevole d'ogni riguardo, oltre di che io mi trovava in certo
qual modo legato a lui da una vecchia intimità di famiglia, e sentiva il dovere di difenderlo e di pronunciare per esso
una sentenza assai mite.
- Ove è il
gerente? io chiesi: se l'accusato non è direttore
responsabile, si conduca qui il gerente e si lasci libero il giornalista.
- Il gerente! esclamò
il mio giudice istruttore, che cosa è il gerente? Può egli darsi che una
persona qualunque si faccia responsabile dei reati di
un'altra? Puniamo i reati, o puniamo le coscienze?
- Un tale sistema, io dissi, è
invalso in tutte le nazioni d'Europa, né io posso
giudicare di questa accusa senza conoscere le leggi speciali che regolano la
stampa Potikorese. D'altronde.... parmi che questo sia
un fallo assai mite; una semplice riprensione.... un semplice ammonimento -
Indugierò, ad ogni modo, a pronunciare la mia sentenza fino a che non avrò
presa cognizione delle leggi che ho ora accennate. Prego l'onorevole magistrato
a fare avanzare il terzo colpevole.
Uscitone in tal guisa pel rotto della cuffia, gettai gli occhi sulla folla per
conoscere l'impressione che vi avevano prodotto le mie parole. Il disordine si era in parte rinnovato; non era precisamente lo
stesso scompiglio, la stessa disapprovazione plateale di prima; ma poco meno.
Si vedeva chiaro che la impazienza dell'uditorio stava
per prorompere in una dimostrazione più energica e più difficile a reprimere.
L'interesse che destava il terzo accusato ebbe virtù di distogliere in tempo i
loro animi da questa disposizione.
Era egli un alto funzionario
governativo, imputato di grave prevaricazione per una somma di molti milioni
sottratti alle casse dello Stato. Come suole avvenire in
simili casi, le prove erano bensì manifeste, ma confutabili in mille
maniere, e facili ad essere ritorte a danno di altri funzionarii. Io diressi ed
illuminai in alcuni punti lo svolgimento del processo; ma benché fosse
universale la convinzione che si aveva del suo reato, le prove volute dalla
legge non avevano tutti i dati necessarii per autorizzarmi a pronunciare un
verdetto di colpabilità.
Io mi trovava
posto in una titubanza terribile - era il caso dell'incudine e del martello - e
considerando che l'accusato era un Dente bianco, e faceva parte di quella tribù
di cui doveva starmi specialmente a cuore il favore; che egli apparteneva alle
alte sfere governative, nelle quali è stabilito il principio che una mano lava
l'altra, che questa appropriazione sarebbe stata considerata nel mio paese come
una bagattella di nessuna importanza, come uno spostamento di cifre (è
la parola addottata da alcuni governi costituzionali per definire i furti
governativi) credetti mostrarmi abbastanza severo nel pronunciare una sentenza
che lo spogliava semplicemente della sua qualità, e lo esonerava dalla sua
carica.
Fu la scintilla che cagionò
l'incendio: il furore del popolo proruppe sì vivo, sì unanime, sì violento che
io mi avvidi subito che non vi era più mezzo a contenerlo. I miei stessi
ministri erano rimasti meravigliati della stoltezza del mio giudizio; e temendo
che i rivoltosi non li considerassero come facienti causa comune col re, si
affrettarono a ritirarsi prudentemente nelle anticamere. Io rimasi come
paralizzato, come pietrificato sul trono; e solamente alcuni istanti dopo,
quando mi avvidi che la folla gridando «abbasso il re, si destituisca il re,» ed altre graziosita di questo genere, si accingeva a
superare lo steccato per impadronirsi della mia persona, pensai a mettermi in
salvo nell'interno della reggia.
Non dirò quali fossero
i pensieri che mi passavano allora pel capo, - rapidi, vari tumultuosi, inutili
tutti....
Fu però un'incertezza di un
istante. Quando vidi che le persone della mia casa
cercavano di rifuggirsi nei gabinetti segreti, e non solo non avevano a cuore
la salvezza della mia maestà reale, ma era molto se non attentavano essi
medesimi alla mia vita; quando intesi che il tumulto popolare andava
orribilmente crescendo, e che i Denti bianchi erano già penetrati in alcune
sale della reggia, deliberai di cercare salvezza nella fuga.
Mi precipitai verso il mio
serraglio, poiché non sentiami la forza di abbandonare il mio regno senza
portarne meco la fanciulla che mi aveva affascinato, e
abbracciando Opala, le dissi:
- La rivolta sta per spogliarmi del
regno e della vita.... fuggiamo, vieni meco: io sarò
ancora il monarca più felice, il più ricco, il più fortunato se potrò
trascorrere il resto della mia esistenza con te.... se tu sarai mia, mia cara
Opala, mia dolce fanciulla! Sì, sì, fuggiamo nella mia patria, dove la dignità e
la coscienza popolare assicurano la monarchia da questi pericoli, dove i re non
sono costretti ad infiggersi un osso di balena nel naso, ma menano essi stessi pel naso i sudditi devotissimi.... vieni, vieni.... Ma
lascia prima che io prenda i tesori di mio padre.... Ove sono i tesori di mio
padre? quel diamante favoloso, quegli smeraldi....
Opala allacciandomi il collo colle
sue braccia bianche e delicate, mi diceva colla voce interrotta dal singulto:
- Non uscire, non uscire di qui;
forse i Denti bianchi non entreranno in questo tempio, rispetteranno il culto
che queste vergini rendono all'amore, forse....
- Ma è
impossibile, io interruppi, fuggiamo, fuggiamo, ripariamo verso il mare; se
possiamo attraversare la capitale senza essere conosciuti, se...
Ma in quel momento si spalancò
l'uscio del serraglio, e una turba di Denti bianchi apparve minacciosa sul
limitare, Io non vidi che una cosa, i loro denti, tanto essi
erano orribili, tanto erano bianchi, lunghi, aguzzi, scoperti dalle
labbra che l'avidità del mordere aveva rovesciate e contratte in una smorfia
feroce. Lo ripeto, io non vidi che i loro denti; e in
questo stesso momento in cui scrivo, quelle orribili rastrelliere che si
digrignavano da sé, come segregate dal resto della persona, come attaccate a
qualche cosa d'impercettibile, mi balenano dinanzi agli occhi simili alle
dentiere artificiali d'un cavadenti collocate per mostra sopra un fondo di
velluto nero in una vetrina. Vederli e rabbrividire, e rimanere là immobile e
paralizzato sul luogo, come se vi avessi messo radici, fu un punto solo. Un
Dente bianco si spiccò allora dal limitare dell'uscio, e venne verso di me,
avventandomi una specie di giavellotto che teneva fra le mani. Fu un istante.
Opala lo vide, si rivolse, si interpose, e... oh mio Dio!...
ricevette ella stessa il colpo mortale che mi era stato diretto.
Non tenterò qui di evocare quella
memoria terribile. Io vedo ancora il suo candido seno lacerato da una ferita
profonda, vedo i suoi grandi occhi nuotanti nella morte e nelle lacrime, e
ascolto le sue ultime parole interrotte dall'anelito: «io muoio per te... io ti
ho amato.... ricordami.»
Commosso, tratto di senno,
inferocito a quella vista, volli allora avventarmi, inerme come
era, contro i ribelli... ma quelle orribili rastrelliere mi balenavano
ancora dinanzi agli occhi; io le vedeva ancora là, lunghe, bianche, isolate
come le dentiere del cavadenti; e sentiva quel rumore sordo, quello
scricchiolio freddo e secco che producevano digrignandosi. Mi arrestai a mezzo dell'atto; qualche cosa di nero mi passava dinnanzi
alla vista; sentii che le mie forze mi abbandonavano... vacillai e caddi privo
di sensi.
Quando rinvenni mi trovai carico di
catene, e circondato da alcuni vecchi denti bianchi, i quali avevano costituito
un apposito Consiglio di guerra per giudicarmi.
Mi fu letto l'atto di accusa, nel quale mi si imputava di aver voluto
sovvertire gli ordinamenti dello Stato con una interpretazione falsa e speciosa
delle leggi che lo governavano: di aver fatto atto di disprezzo verso le usanze
del paese - usanze che avevano forza di legge - rifiutandomi a trafiggere il
mio naso greco con quell'ornamento grazioso di balena: di aver poste in grave
pericolo la quiete e la sicurezza della nazione, costringendola, in seguito
alla mia decadenza dal potere, a riadottare la forma primitiva di governo, il
regime repubblicano, o ad eleggersi un re nazionale. In causa dei quali reati
io veniva considerato come decaduto dal trono di
Potikoros, e condannato alla pena della morte per sospensione.
Fui invitato ad esporre le mie
difese.
- Anzi tutto, io dissi non posso
ammettere in questo onorevole Consiglio di Denti
bianchi il diritto di giudicarmi. Io vedo qui rappresentata una sola metà della
nazione. Ove è l'altra metà? Ove
sono i degni rappresentanti dei Denti neri? Ma ove pure essi
facessero parte di questo consesso, i diritti di un re non posson essere
discussi da suoi sudditi, e le sue colpe - se un re può commettere delle colpe
- non possono essere né giudicate, né punite da essi. Io venni qui, in un paese i cui ordinamenti si erano rilassati per un
lungo interregno, nel quale la demagogia incominciava a difondere le sue
dottrine rivoluzionarie, le cui leggi erano violate da un'anarchia impossibile
ad arrestarsi. Io vi venni chiamato dal suffragio
popolare, invitato da una rappresentanza della nazione, eletto dal voto di
tutti i governi d'Europa. Io venni a governare questo popolo cieco e traviato
che aveva bisogno di essere ricondotto sotto il regime della monarchia: vi
venni per un puro istinto di umanità, per un semplice
spirito di abnegazione. Affetti e interessi mi trattenevano in Europa. Il mio
sangue, il sangue di mio padre, è uno dei più antichi e dei più nobili tra
tutte le dinastie di quel gran continente incivilito.
Io ho avuto pietà di voi; io era venuto ad apportarvi
l'ordine e la felicità che regnano in molte capitali di quegli stati; mi
era sacrificato a mutare il mio berretto di cotone europeo in un turbante di
penne, a ricevere quaranta milioni di appannaggio, a comandare a quaranta
milioni di sudditi, a vivere da monarca in questa reggia... aveva fatto tutto
questo per voi; quale è la ricompensa che mi avete accordata? Sdegno
giustificarmi più oltre: la razza dei re è una razza speciale, e ogni re che si
rispetti non può ammettere in voi il diritto di giudicarlo. Gli storiografi
stipendiati, i sudditi devotissimi di cui non vi sarà mai deficienza nelle
generazioni future mi giudicheranno. Ho detto.
Uno scroscio di risa feroci accolse
le mie parole, e delle voci si sollevarono dalla folla che gridavano: alla
corda, alla corda.
Fui condotto al luogo destinato ai
supplizii. Quivi un abisso profondo, immenso, si apriva nel seno di una
montagna: in fondo alla voragine, sulle punte di granito e di metallo taglienti
come lame, roteavano stormi di astori e di aquile.
Fui legato ad una corda annodata
alla punta di un albero, il quale inclinandosi sull'abisso, ne guardava il mezzo colla cima. Prima che la corda abbandonata a sé, mi
sospendesse perpendicolarmente sulla voragine, io diressi ancora alcune parole
ai Denti bianchi:
- Domando, io dissi, che la salma
reale sia trasportata in Europa, per ricevere sepoltura nelle tombe de' miei padri. Che, ove non
ottemperaste a questo desiderio, la mia nazione invierebbe immediatamente la
sua flotta a bombardare i porti di Potikoros, e impadronirsi dell'isola.
Né io pensava in quel
momento che era impossibile tornar da quell'abisso, e che mi sarei fatto a
brani cadendo sulle punte di granito che formavano il fondo. E comprendeva
benissimo che la mia salma doveva aver nulla di più
sacro della salma d'un zoccolante; poiché il corpo d'un re e quello d'un
mendico producono la stessa specie di vermi; e, come aveva letto nel Amleto, si
può gettar l'amo ad un pesce col verme che mangiò di un re, e un mendico può
mangiare di quel pesce, per modo che il corpo di un re entri nelle viscere di
un mendico. Nondimeno la mia vanità mi spinse a
proferire quelle parole.
Vanità inutile, poiché i Denti
bianchi tornarono a sorridere di quel sorriso feroce che mi aveva poc'anzi
agghiacciato il sangue nelle vene, e a contrarre le labbra a quella smorfia
infernale, di cui non saprei darvi un'idea se non
richiamandovi alla mente quello scoprirsi delle mandibole che osserviamo nei
mastini e nelle fiere quando stanno per avventarsi, e che noi soliamo indicare
col dire: mostrano i denti.
Non si frappose
più indugio alcuno al mio supplizio.
Fui condotto
sull'orlo della voragine, e spintovi in guisa che, essendo stato annodato alla
corda, mi trovai
sospeso perpendicolarmente sopra l'abisso. I cavalieri dei Denti bianchi, i
miei stessi ministri, le persone più autorevoli dello
Stato disposti in circolo sull'orlo della voragine, tentavano di tagliare a
colpi di freccia la corda che mi teneva sospeso.
Era un supplizio lungo, lento,
crudele, atrocissimo. Ogni trecciolino della corda tagliato si arricciava da
una parte e dall'altra, assottigliando sempre più il centro di essa, su cui erano dirette le freccie. Dopo due ore di
patimenti infiniti, la corda rotta in più luoghi, non reggeva più che per un semplice
filo al mio peso.
Curvandomi e guardando sotto di me,
io vedeva l'abisso nero e profondo che mi attendeva,
gli uccelli di rapina che aspettavano il mio cadavere per divorarlo, e qua e là
le ossa imbiancate degli infelici che avevano subito prima di me quel supplizio
tremendo....
Un solo filo reggeva ancora la
corda, le freccie passavano fischiando da tutte le parti e non la colpivano: io
guardava la corda e l'abisso, poi la corda, poi ancora
l'abisso, e mi contraeva, mi arricciava, mi aggomitolava, come avessi potuto
con ciò sollevarmi dal fondo della voragine.
Non so quanto durasse
quell'agonia. A un tratto una freccia colpì nella
corda, la ruppe, precipitai, innalzai un grido di orrore e... oh mio Dio!....
mi svegliai, e mi trovai nel mio letto.
- Che
vergogna! mi disse Elettra appoggiata col gomito ai
mio capezzale, è da jeri sera che tu dormi; sono ora ventiquattro ore....
- Ventiquattro ore!
- Sì cotesta tua abitudine di
bere... io ti vegliava inquieta...
- Ventiquattro ore! ripetei tra me stesso stordito: un sogno di un giorno,
perocché adesso...
- Siamo di sera. Hai, dormito un
giorno intero.
- Un giorno!
Ed ora, miei lettori, dubiterete
ancora che non sia questa la storia di un giorno della mia vita?
Fine
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