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Giosuè Carducci
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  • LIBRO IV.
    • LXV.          UNA RAMA D’ALLORO
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LXV.          UNA RAMA D’ALLORO

Io son, Dafne, la tua greca sorella,

Che vergin bionda su ’l Peneo fuggía

E verdeggiai pur ieri arbore snella

Per l’Appia via.

 

Tra i cippi e i negri ruderi soletta                                  5

Sotto il ciel triste io memore sognava

D’un tumulo ignorato in su la vetta,

E riguardava.

 

Guardava i colli ceruli del Lazio,

E a l’aura che da Tivoli traea                           10

Inchinandomi i fulgidi d’Orazio

Carmi dicea.

 

Mi udivano gli uccelli, e saltellanti

Per l’aër freddo su i nudati rami

A le rose ed al maggio e al sole e a i canti                    15

Facean richiami.

 

Ahi sempre infesti a me i poeti fûro!

M’invidiò Enotrio a’ sassi antichi e pii,

E tra le mani del poeta duro

Inaridii.                                                                       20

 

Avvolta in serto, oh, foss’io stata ombrella

A la tua fronte! su la chioma nera

Come esultato avrei, dolce sorella,

Io verde e altera!

 

E ne la lingua che tra noi s’intende,                              25

China a l’orecchio puro e delicato,

Gli elleni amori e l’itale leggende

T’avrei cantato.

 

L’occhio tuo mesto a le fraterne note

Sorriso avrebbe con ardor gentile,                               30

E rifiorito de le molli gote

Saria l’aprile.

 

Roma, 18 Marzo 1877.

 




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