II
IL
SUPPLIZIO DI TANTALO
ovvero
IL PRIMO BACIO
Si qua volet regnare diu, contemnat amantem.
OVID.
Galla, nega; satiatur amor nisi gaudia
torquent.
MART.
La giornata
era proprio stupenda: un cielo senza ombra di nuvole, azzurro come le turchine
de' pendenti della mia signora; il salottino era proprio grazioso: sopra d'un
mettilo-là stava melancolicamente il telaio sul quale essa signora ricamava un
tre punti al dì, tanto per salvare le apparenze; totale, millenovantacinque
punti l'anno e millenovantotto ne' bisestili. E con questo bel tempo ed in
questo salottino io l'aspettava da qualche minuto, scartabellando un albo
fotografico in busca del ritratto di lei. Gli usci erano spalancati, e m'odo a
un tratto chiamar per nome, premesso l'epiteto: «caro». La chiamata veniva da
una camera in fondo alla casa e da una vocina gentile, gentilissima; sicché per
la prima volta il mio nome non mi sembrò poi tanto cacofonico quant'è pur
troppo: «Caro Quattr'Asterischi, se non vi dispiace, favoritemi qua dentro,
mentr'io mi vesto. Scusate tanta confidenza, ma come ho a fare? Debbo uscire in
fretta, in fretta, appena vestita; e vorrei pure godere un po' della vostra
visita. Venite avanti e senza cerimonie, ch'io sono qui vittima legata
all'altare senza potermi muovere o scrollare».
Seguii
l'invito, e con un potente batticuore posi il piede nella cameretta della cara
donna: quel ch'io provassi può comprenderlo solo chi ha sortita una simil
ventura, e son pochi. Nulla più facile dell'ottenere una femmina, sia che tu la
solleciti o ch'essa t'inviti; ma la femmina appunto che vuol darsi, suol
rendersi preziosa; ha mille magagnucce, mille secreti di acconciatura da
occultare: imbottiture, riempitivi, cosmetici, belletti ed altre diavolerie; e
nasconde anche le bellezze acciò se n'ingigantisca il desiderio. Raro è invece
che una donna mille volle ripregata e che mille volte ha detto chiaro e tondo
un bel no, ti ammetta con tanta fiducia in tale intimità.
Sedeva alla
spera, co' capegli abbandonati all'adiposa cameriera, e si curava le unghie con
certe sue cesoine e spazzoline e limette; aveva indosso un grandissimo camice bianco,
quasi trasparente, orlato di merletti; magrina com'è sembrava appunto un'ombra
involta, rivestita di nebbia. Rimasi incantato a vagheggiarla: non volse la
testa per salutarmi, anzi mi guardava nello specchio senza interrompere
l'acconciatura del capo; ma parve compiacersi della mia ammirazione, e dopo
avermi porta la mano ch'io non potei non baciare, parlandomi francese perché la
pettinatrice non ci spiasse: «Sedetevi là,» mi disse «laggiù, su quella
poltrona e ditemi un po' che mi recate di bello? che si dice? che si fa? che si
pensa? che si teme? che si tenta? che si almanacca? che si sproposita?».
Ah! il francese è proprio la lingua ridente
dell'amore; di quell'amore che annette importanza ad ogni inezia, che si
compiace del chiacchierare senz'altro scopo tranne di udire la voce adorata e
bearsene, tranne di svagare la mente oppressa dall'affetto o dalla voluttà, con
uno spiritoso scoppiettio di gentili parolette. A me viene spontaneo il
francese in bocca se ho da parlare con donna cara e dirle che mi è cara, e
spesso anche quando so che la non m'intende. O fosse una reminiscenza
involontaria del mio primo amore? nuova prova che in fondo a tutte le femmine e
per quanto si varii inquietamente, una sola noi amiamo, la prima che
vagheggiammo, che abbiam perduta e che ricerchiamo smaniosi.
Io taceva e
guardava come il pettine d'avorio addentasse que' be' capegli, e come poi
venissero intrecciati e ripiegati, ma una ripetuta interpellanza mi scosse:
«Che guardate? Son pochi, pochi assai! Ed ecco bisogna aggiungerne de' finti.
Non vogliate veder le mie miserie. Raccontatemi piuttosto che c'è di nuovo; ve
l'ho già chiesto prima. Avete inteso?».
«Ho inteso».
«Fortuna! Dunque, dunque cominciate, io
vi ascolto».
Cominciai a
narrarle come l'amassi e quanto.
«Ma questa
non è mica una novità, sapete?» così m'interruppe «lo so, lo so già da un
pezzo. Scema come sono, io me n'era accorta di per me, fin da quando mi
baciaste la prima volta le mani, ed impallidiste tutto. E quasi ciò non
bastasse vi piacque dirmelo, e non una o due o cento o mille volte, ma le
duecentomila. E non più tardi d'iersera passaste tre ore a ripetermelo. Ora poi
mi par che basti e mutiamo discorso».
Mutai
discorso e presi a dire che e quanto era bella; e neppure su questo tema mi
mantenne la facoltà di parlare: «Io, bella? oh questa sì che sarebbe una
novità, se non fosse una bugia, anzi di quelle grosse, ma grosse!... Via,
brutta da far paura, questo non sono; ma bella non mi si puol dire. Sapete lo
stornello, eh?
In mezzo
al mar che c'è un pesce prete,
Accompagnato
cor un altro abate
Bella 'un
vi si puol dir, brutta non siete!
Un par d'occhi grandi, che non c'è male, ecco tutto. E
poi? una bocca che va fin qua, alle orecchie; denti storti; ed un naso! Non mi
parlate della mia bellezza, innanzi a questo specchiaccio villanissimo che vi
sbugiarda. Che non abbiate altro a dirmi?».
Avevo e mi
diedi a lodare il suo spirito; nuovi guai! «Oh insomma, volete finir di
burlare? Io non son che un'oca, sappiatelo, e me n'accorgo benissimo da me
senza bisogno che l'ironia vostra m'apra gli occhi. A sentirmi dire spiritosa
mi vien la rabbia!».
Vedendo che
non ne indovinava una, tacqui; e volsi gli occhi intorno; caddero sul
letticciuolo ancora un po' scomposto da' tardi sonni di lei. Le cortine erano
rimosse e mi lasciavan vedere tuttavia sul guanciale la impressione della sua
bella testolina. Era un lettuccio angusto, casto, al pari di quello d'una
fanciulla: uno di que' lettini calcolati per uno, ma dove si giacerebbe
deliziosamente a due, abbracciati. Ora io sapeva arcibenone che il marito non
c'era, e che quand'anche vi fosse stato, da lunga pezza non vivevano più
maritalmente insieme: eppure fui felice di mirare con questi occhi una prova
della solitudine delle sue notti. Se l'amore adultero è colpa, qual maggior
pena potrebbe avere delle rabide, inconsulte, indomabili gelosie che lo
travagliano immedicabilmente, retrospettive, presenti e presaghe?
Già
quegl'impudenti letti coniugali, dove entrerebbe un'intera famiglia tibetana, e
che molti non si vergognano di ostentare proprio, io li ho sempre aborriti.
Trovo che la relazione fra maschio e femmina che vorrebbe più temperanza e
contegno è appunto il matrimonio, appunto perché indissolubile, appunto perché
i rapporti sessuali vi son più pretesto che scopo. Troppo facile a sorgere e
troppo difficile a sradicare è il disgusto di qualunque donna: figurarsi un po'
della moglie quando l'hai sempre sotto il naso e le mani; quando è sempre
pronta a compiacerti peggio d'una prostituta; quando devi trascinartela appresso
notte e giorno, giorno e notte, come un compagno di catena; e quel che dico per
la donna, viceversa vale anche per l'uomo. Un galeotto politico mi narrava
ch'egli s'era reso conto di alcuni tenaci odi coniugali, allorché si vide
costretto da vent'anni di ferri ad un amico che gli era stato pur caro finché
lo aveva trattato liberamente. Anche al giaciglio della consorte l'adito
dovrebbe avere qualche difficoltà, non foss'altro pro forma; cessa ogni
dolcezza dall'amore se ogni sua ripetuta condiscendenza non è un nuovo trionfo
impetrato con l'affetto. E poi, siamo uomini tutti, anime combattute da
vacillamenti, disperazioni e sofferenze, abbiamo talvolta bisogno di
raccoglimento, di stemperarci in lacrime, di vegliare le notti fra' dubbi e le
paure; - ed allora incresce la presenza anche del taciturno ritratto penzoloni
dalla parete, si bramerebbe la tomba per essere più immutabilmente nella
solitudine. Il dio ch'è in noi è un dio geloso, che non si manifesta a' sensi
distratti da muliebri contiguità.
Io contemplava
quel grazioso tettuccio, e pensavo alle membra che vi avevano riposato pur
dianzi, e tanto almanaccai che mi sfuggì un sospiro involontario,
profondissimo. Anche il silenzio ed il sospiro non trovaron grazia agli occhi
di Merope mia, che sclamò: «Ma via, su, che fate là incantato? Se non avevate
nulla a dirmi, o perché venire a visitarmi? Pel modo come m'intrattenete, tanto
potevate rimanere in salotto finch'io mi vestissi! Avete tanto spirito,
possibile che non vi suggerisca nulla?». Ecco il mio tanto spirito, al quale
feci una fervida invocazion mentale, cosa mi suggerì: «Oggi è una bella
giornata, siamo proprio definitivamente in primavera. Nel venire ho guardato il
barometro, che indicava costante, e la costanza dell'atmosfera dura un
tantino più della femminile, fino a quindici e venti giorni, niente meno! Se
continua così avremo il raccolto buono e tale che potrà compensare la mala
riuscita de' bigatti».
Stette su
ridendo della mia scienza meteorologica ed agronomica: l'acconciatura del capo
era terminata. Sempre guardandosi nello specchio, trascurandomi come s'io non
fossi lì, dava ordini alla cameriera. E questa a cercar chiavi; ad aprire e
chiudere armadi e cassettoni; a trarne capi di vestiario, che diffondevano
mille fragranze d'ireos, di violetta, di spiganardi; a disporre sul canapè,
sulle seggiole, sul letto gl'indumenti tutti che dovevano cingere i fianchi,
coprir le spalle, nascondere il seno della mia Signora: stivalini, abito,
sottane inamidate, polsini, cerchi, camicino, cravattina dalle punte a ricami,
calzoncini con guernizione di merletto; quel doppio lusso che si ostenta e che
si occulta, e del quale non ho mai potuto appurare se l'occulto o il palese
stesse più a cuore alle civette. Ed intendiamoci bene una volta per sempre, nel
dare della civettuola alla donna che ho amato, non credo biasimarla: la
civetteria è la più bella forma del pudore, toglie brutalità a' consensi,
toglie durezza a' rifiuti, lenisce molte piaghe, rende pregevoli delle inezie
ed aiuta ad ammazzare il tempo: qual virtù può vantar pari meriti? Io seguiva
gli andirivieni della fantesca con occhio avido, sperando chi sa che; ma quando
tutto fu pronto la Merope sempre allo specchio lisciandosi un'ultima volta i
capegli col dorso della mano: «Adesso» mi disse «dovrei pregarvi di sgombrar la
piazza; pure, vi lascerò lì a tre patti. Promettete d'osservarli fedelmente?».
«Senza
conoscer prima quali sieno? Vi par cosa da pretendersi, che? Un'imprudenza
simile!».
«Promettete,
Signor Quattr'Asterischi, oppure...» e facendomi un bell'inchino indicava
l'uscio.
«In questo
modo... col coltello alla gola... prometto».
«Ma
senz'ombra di restrizion mentale?».
«Oh! Oh! Pare
che di prometter lungo con attender corto la Signora se n'intenda!
Sicché volete proprio una parola valida?».
«Appunto; proprio quella, già: la verità vera, una parola d'onore
onesta. Dunque?».
«Dichiaro e
prometto, senz'alcuna riserva o restrizione implicita od esplicita e
rinunziando anticipatamente a far valere qualsiasi nullità che sia in questo giuramento,
di osservare scrupolosamente le condizioni che vi piacerà impormi. Spero che
non siano i tre voti frateschi: povertà, castità ed obbedienza?».
«Noi, Merope
Quarta, dopo quelle che vagheggiarono Maffei, Voltero ed Alfieri, al nostro
caro e fedele Quattr'Asterischi salute. Ecco i patti. Primo: finché non vi dia
libertà di moti, rimarrete fisso in quella poltrona».
«Immobilità!».
«Secondo:
parlerete sempre, sempre senza interruzione, finch'io sia vestita».
«Loquacità!».
«Terzo: non vi torrete questo scialle dal capo senza espressa mia
licenza». E mi coverse la testa una e due volte con un suo cascimira.
«Cecità!»
diss'io, nel sentirmi quasi soffocato da quel panno impregnato dell'essenze
della valle felice che ha più rose della Toscana, dove pure il bel
fior fiorisce d'ogni mese. «Ma questo è un quissimile del supplizio di
Tantalo!».
«Anzi, dal
supplizio vi libero. Non sarebbe forse peggio il vedere e non toccare?».
«E l'immaginazione che lavora, lavora?».
«E la
chiacchiera che distrae, distrae? Parlate. Quando si vuole che un rosignuolo
canti per bene, lo si acceca. A me piace tanto l'udirvi conversare, e vi acceco
temporaneamente: sono vostra signora, sì o no? Dunque, ricordatevi i patti, e
dite su».
Parlare! È
presto detto, ma sfido io chiunque!... Porgendo l'orecchio sentiva dal fruscio
della seta, da mille piccoli romori ch'ella veniva man mano deponendo il
sottilissimo vestire; sentita la cameriera toccare, scuotere, spiegare, piegare
stoffe e biancherie; ed il sangue mi si rimescolava come a diciott'anni. La
fantasia me la ritraeva tale e quale doveva starmi allora dinanzi a pochi
passi, scalza sul tappetino, seminuda, coperta forse appena da quelle ultime
vestigia di vestiario che lunge dal nascondere non si può manco dir che velino
lo splendore delle venustissime fattezze, tanto son tenui da non occultare
neppure un rossore, neppure un tremito, neppure un neo. Io soffriva proprio
materialmente. Non so se v'è accaduto tante volte di amare, di desiderare anche
una donna per lunga pezza, ma con mente casta, senza spogliarla nella
vostra fantasia, senz'affaticarvi ad immaginarla quale dev'essere tolto il
voluminoso involucro dell'abbigliamento, ingenua come l'ha fatta madre natura e
come l'amore ha dritto di pretenderla? E poi, tutt'a un tratto, per un lieve
incidente, perché un giorno nello scendere una gradinata vi mostrò mezza
gambetta, perché una sera un bottoncino spuntato dell'abito accennava più che
dare un varco alla vista, tutt'a un tratto vi sorse un'irrequietezza, una
smania nel pensiero, e doveste quind'innanzi spossarvi a rappresentarvela au
naturel? Così m'accadde per Merope: da quel punto il mio amore divenne
quasi brutalmente curioso ed impaziente.
«E la
promessa?» mi disse scotendomi a un tratto la spalla con la mano. «Ohi! bel
mutolo?». «Ma che diamine volete ch'io dica tranne quest'unica cosa già
ripetuta a sazietà: che io vi amo e che soffro, e che vi diverte il farmi
soffrire? Mi trattate come i fanciullini e gli entomologhi fanno co'
malcapitati insetti; strappano loro gambette, elitri, proboscidi, li notomizzan
vivi, o li trapassan con uno spillo. Vi sono capitato fra le branche quando
appunto vi faceva difetto ogni altra distrazione; e vi siete posta ad osservare
in anima vile che bell'effetto fa un uomo il quale desidera tutto ed ottiene
men che nulla; forse, senza sospettare che il vostro scherzo (del resto, questo
sì, spiritoso, come ogni cosa vostra) poteva esser tragicamente serio per
altri; o forse, l'avete sospettato e poco v'importava. Io qualche volta nel
vedervi inchinare il capo ascoltando le mie preghiere, in quella guisa che
altri porge avidamente l'orecchio per raccogliere gli accordi d'un'armonia
cara; mi sono fatuamente illuso, stimando che in voi fosse, amore non già, so
troppo di non meritarlo, ma una grande e sincera compassione. Parliamo franco:
soldo più, soldo meno, conosco quel che valgo; non potrei possedervi, che...
una delle due: o per una somma vostra depravazion di gusto o per vostra eccelsa
generosità, per atto di sublime misericordia. Merope mia, pur troppo, non si
dirà mai che abbiate un gusto malsicuro o pervertito, non si dirà mai che
pecchiate per eccesso di generosità; non potrò mai sclamare, come Tancredi: Medica
mia pietosa! Se fossi un lurido pitocco rognoso avreste compassione e mi
fareste ricca limosina anche rinunziando a qualche capriccetto; ma perché
languisco di amore ed invece di stender la mano v'apro le braccia e vi chieggo
la carità d'un bacio, d'un po' d'affetto, ecco vi spassate alle mie spalle: io
soffro, lo vedete e ridete. Oh siete buona meco, è vero: meglio se foste
ingrata, meglio per me. Ho a dirla, via, proprio come la penso? Nella vostra
affabilità ci ha due ingredienti: l'uno buono ma debole e sommerso in fiumi
dell'altro cattivo. Il buono è un centellino di pietà: naturale! non c'è animo
bennato che vedendosi amato com'io v'amo non commiseri l'infelice che tanto ed
indarno desidera. Ma quando state per intenerirvi... il guaio è che avete
troppo della gatta, Merope mia; sì della gatta, non andate in collera, veh! Ed
io sono il topolino, ludibrio delle vostre zampette prima di morire. Giudicate
s'io v'amo! Quando accorto del giuoco indegno, nullameno persevero e perduro,
non dimostro forse animo più deliberato assai del colonnello che dato di cozzo
in forze decuple, s'ostinasse a non ordinare la ritirata? Anzi che mi
deridiate, io lo trovo giusto e sclamo: così la va. Ah tutte le servitù
son più o meno volontarie; povero La Boëtie tu enunciasti pure il gran vero!
Forse che gli addetti alla gleba nell'Evo Medio non istimavano buono ed
acconcio il dover essi frustare nelle gelide intere notti i fossati acciò le
ranocchie gracidando non dissonassero i feudatari? non reputavano conveniente
ed equo che il pingue abataccio in virtù del connatico godesse le primizie
d'ogni vassalla sposa? non riconoscevano opportuno e santo che il barone reduce
dalla caccia, sventrando due villani, ficcasse il piè destro nell'epa dell'uno,
il sinistro nel buzzo dell'altro, come noialtri stanchi del passeggio
prenderemmo un pediluvio? Strano! ma fatto sta che sempre e dovunque l'oppresso
riconosce debita e legittima l'oppressione. Ma stavolta, cara gattina mia, il
troppo è troppo: avete voluto scherzare col fuoco, peggio per voi se vi brucerà
le dita? Io non soffrirò l'umiliazione che m'imponete; non mi acqueto in
impossibile rassegnazione. Mi torrò dal capo questo scialle nel quale m'avete
imbacuccato e vedremo poi!».
Feci un
piccol moto; e la signora già supponendo che stessi per eseguire la minaccia,
mise un grido acuto e la sentii nascondersi con la cameriera dietro le cortine
del letto. E poi con una voce tra lo stizzoso e il supplichevole: «No, no, ve
ne prego. Se vi togliete lo scialle dal capo, Quattr'Asterischi, d'una cosa
siate certo, non vi perdono più. Ricordatevi... non mi fate perdere la fiducia che
ho in voi. Vi assicuro, che mi fareste sommo dispiacere».
Ed io: «Oh
non temete, non farò. Meno per la promessa, quantunque una parola mi leghi, che
per tema di dispiacervi. Lo sapete già che il dubbio d'offendervi basta a
smorzarmi ogni ardire, ad imbecillirmi. Io sono un gran brutto codardo,
figliuola mia. Dovrei piantarvi un dilemma, cornuto per bene e dirvi: o
cacciatemi di casa o datevi a me. Basterebbe per questo farvi una brava
impertinenza e forse, chi sa? vi prenderei d'assalto. Od almeno m'indichereste
la porta ed io farei un profondissimo inchino cerimoniosissimo alla Signoria
vostra e poi me n'andrei per non tornar più. Sarebbe un affare conchiuso,
l'animo in pace. Ma v'amo tanto svisceratamente che non so risolvermi, che non
voglio risicare di perdere la soave vostra intimità, quella dolce consuetudine di vedervi e d'esser gentilmente accolto e
di passar le ore ascoltandovi e brancicando le rose deposte sul tavolinetto. Ve
ne siete accorta, come di tutto: quindi baldanza da non dirsi, quindi abusate
di me. E poi osate anche calunniarmi; ierdassera mi diceste ch'io non vi amava,
che il mio era un volgar capriccio, ch'io parlava a voi così per ozio come a
chi sa quante altre, come parlerei alla vostra cameriera... - Ama colui che
desidera e chiede, Merope mia; non ama colei che diniega. E sia pure: io non
sono tanto cieco da voler essere amato per forza; vi spiaccio? sventura mia e
non colpa vostra. Ma dunque trattatemi come si trattano gli spiacenti: siate
tutta sostenutezza, tutta noncuranza; fatemi dire che non ci siete in casa,
fingete di non vedermi e non salutarmi per istrada! È uno scherno quando invece
di spiattellar franco all'amante un non vi voglio, perché siete antipatico, l'amata
si asserraglia e trincera dietro non so che doveri e pericoli e riguardi e
comandamenti di domineddio, del confessore e del diavol che mi porti. Uno
scrupolo di sincero affetto sbilancerebbe tutte cedeste insulsaggini. Io non
ritengo, ohibò, che l'attimo di voluttà gustato accoppiandosi alla persona
desiderata, sia scopo e sostanza dell'amore; ma lo reputo un sine qua non; se
non il tutto, condizione essenzialissima. L'amico potrebbe forse non chieder
queste sciocchezze (che se non parlassi a voi schifiltosa chiamerei come sono
in ogni senso: coglionerie); ma l'amica non deve negarli; il maschio
offenderebbe la femmina se non curasse d'ottenerla, e la donna infeliciterebbe
l'uomo se le desse il cuore di non accondiscendere. Non può darsi perfetto
accordo fra le anime, gl'intelletti, finché non essendosi misti i corpi dura
qualcosa di misterioso e d'ignoto nell'idolo. I tempi nostri esecrando le
relazioni, ammesse per lecite e commendevoli dall'antichità e dal divino
Platone in persona, fra individui del sesso medesimo, hanno forse recisa la
possibilità della perfetta amicizia fra uomo ed uomo o donna e donna. Riman
sempre possibile, ma quando vi piacerà che congiunga l'impareggiabil mia
signora al suo Quattr'Asterischi?».
Aveva preso
l'abbrivo e non v'era ragione perché non proseguissi sul medesimo tono un bel
pezzo; quando la gentil voce di Merope, profittando della pausa che succedeva
all'interrogativo, m'interruppe: «Mio caro Quattr'Asterischi, scusate le
lungaggini di noi altre donne; ma finalmente ho finito; quindi se v'aggrada
potete togliervi di capo lo scialle e darlo a me, perché me lo metta addosso».
M'affrettai a
seguire l'invito: via lo scialle! fu come un levarsi di sipario su di qualche
scena meravigliosa; come l'aprire al mattino la finestra dell'albergo nel quale
s'è giunti a notte tarda, finestra che dà sopra un magnifico orizzonte d'acque,
di montagne. La mi stava ritta innanzi a due passi, vestita ed atteggiata
proprio come nella prima delle fotografiuzze. La pezzuola spruzzata d'acqua di
Colonia l'era caduta per le terre; la raccattai, la baciai e gliela porsi. La
cameriera era uscita dalla stanza; noi soli, soli, ed ella sorrideva
graziosissima. Io rimasi di sasso tanto era leggiadra, tanto mi guardava
benigna.
La bella che
vuol sembrar bellissima, si mostri arrendevole: non v'è nulla di più schifoso
del fare schivo, ritroso, austero; il no preventivo alla richiesta è
ridicola pedanteria. Scommetto che messer Paride antepose Venere all'altre due,
non perché più formosa, ma perché più facile e sciolta.
Merope,
arrossendo tutta: «Poverino» mi disse «siete stato obbediente; davvero meritate
un premio». E chinandosi un po' sulla spalliera, mi toccò leggerissimamente la
fronte con le labbra. Io non so come non isvenissi: mi s'annebbiaron gli occhi
tanto fu il sangue che mi concorse alla testa.
Rientrò la fanticella
con la cappelliera e ne trasse un cappellino bianco, elegante! oh ma proprio un
gioiello! Poco raso, pochi merletti, pochi fiori e le stava così bene alla
Merope, quando se l'ebbe posto innanzi allo specchio! Poi mise i guanti, e dopo
aver impazzato un pochino, mi porse la destra arrovesciata con un: «Vedete
d'abbottonarmelo voi, non ci riesco!». Poi ricevette l'ombrellino dalla
domestica: «Ed ora» mi disse «accompagnatemi sino alla carrozza».
Passando pel
salottino prese l'albo ch'io sfogliazzava un'ora prima, ne trasse un suo
ritratto e me lo porse: «Serbatelo per memoria: qui son vestita proprio
com'oggi; ed oggi, come so grazie a voi, il barometro indica bel tempo e
soprattutto costante. Quando un giorno, di qui a non molto, troverete
questa fotografia dimenticata in qualche vecchio portafogli, sclamerete: Chi
diamine è questa bruttina; mi pare... sì, dev'essere una fisionomia
conosciuta, ma non giungo a ricordarmi. Eh! dio buono... sicuro... se non
isbaglio.. è quella tal Merope, poveretta! Una buona pasta di donnina che si
beveva un subisso di fanfaluche le quali non mi costava nulla ad isnocciolare:
che gocciolona! Ed era di quelle che se ne dan tre per una crazia. Chi sa che
sarà divenuta! Vattel'a pesca.! Poveraccia, ed ebbe la dabbenaggine di prender
sul serio le me' chiacchiere, di credermi e d'amarmi davvero davvero
davvero...».
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