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Vittorio Imbriani
Merope IV

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  • II   IL SUPPLIZIO DI TANTALO ovvero IL PRIMO BACIO
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II

 

IL SUPPLIZIO DI TANTALO

ovvero IL PRIMO BACIO

 

Si qua volet regnare diu, contemnat amantem.

OVID.

 

Galla, nega; satiatur amor nisi gaudia torquent.

MART.

 

La giornata era proprio stupenda: un cielo senza ombra di nuvole, azzurro come le turchine de' pendenti della mia signora; il salottino era proprio grazioso: sopra d'un mettilo-là stava melancolicamente il telaio sul quale essa signora ricamava un tre punti al , tanto per salvare le apparenze; totale, millenovantacinque punti l'anno e millenovantotto ne' bisestili. E con questo bel tempo ed in questo salottino io l'aspettava da qualche minuto, scartabellando un albo fotografico in busca del ritratto di lei. Gli usci erano spalancati, e m'odo a un tratto chiamar per nome, premesso l'epiteto: «caro». La chiamata veniva da una camera in fondo alla casa e da una vocina gentile, gentilissima; sicché per la prima volta il mio nome non mi sembrò poi tanto cacofonico quant'è pur troppo: «Caro Quattr'Asterischi, se non vi dispiace, favoritemi qua dentro, mentr'io mi vesto. Scusate tanta confidenza, ma come ho a fare? Debbo uscire in fretta, in fretta, appena vestita; e vorrei pure godere un po' della vostra visita. Venite avanti e senza cerimonie, ch'io sono qui vittima legata all'altare senza potermi muovere o scrollare».

Seguii l'invito, e con un potente batticuore posi il piede nella cameretta della cara donna: quel ch'io provassi può comprenderlo solo chi ha sortita una simil ventura, e son pochi. Nulla più facile dell'ottenere una femmina, sia che tu la solleciti o ch'essa t'inviti; ma la femmina appunto che vuol darsi, suol rendersi preziosa; ha mille magagnucce, mille secreti di acconciatura da occultare: imbottiture, riempitivi, cosmetici, belletti ed altre diavolerie; e nasconde anche le bellezze acciò se n'ingigantisca il desiderio. Raro è invece che una donna mille volle ripregata e che mille volte ha detto chiaro e tondo un bel no, ti ammetta con tanta fiducia in tale intimità.

Sedeva alla spera, co' capegli abbandonati all'adiposa cameriera, e si curava le unghie con certe sue cesoine e spazzoline e limette; aveva indosso un grandissimo camice bianco, quasi trasparente, orlato di merletti; magrina com'è sembrava appunto un'ombra involta, rivestita di nebbia. Rimasi incantato a vagheggiarla: non volse la testa per salutarmi, anzi mi guardava nello specchio senza interrompere l'acconciatura del capo; ma parve compiacersi della mia ammirazione, e dopo avermi porta la mano ch'io non potei non baciare, parlandomi francese perché la pettinatrice non ci spiasse: «Sedetevi ,» mi disse «laggiù, su quella poltrona e ditemi un po' che mi recate di bello? che si dice? che si fa? che si pensa? che si teme? che si tenta? che si almanacca? che si sproposita?».

Ah! il francese è proprio la lingua ridente dell'amore; di quell'amore che annette importanza ad ogni inezia, che si compiace del chiacchierare senz'altro scopo tranne di udire la voce adorata e bearsene, tranne di svagare la mente oppressa dall'affetto o dalla voluttà, con uno spiritoso scoppiettio di gentili parolette. A me viene spontaneo il francese in bocca se ho da parlare con donna cara e dirle che mi è cara, e spesso anche quando so che la non m'intende. O fosse una reminiscenza involontaria del mio primo amore? nuova prova che in fondo a tutte le femmine e per quanto si varii inquietamente, una sola noi amiamo, la prima che vagheggiammo, che abbiam perduta e che ricerchiamo smaniosi.

Io taceva e guardava come il pettine d'avorio addentasse que' be' capegli, e come poi venissero intrecciati e ripiegati, ma una ripetuta interpellanza mi scosse: «Che guardate? Son pochi, pochi assai! Ed ecco bisogna aggiungerne de' finti. Non vogliate veder le mie miserie. Raccontatemi piuttosto che c'è di nuovo; ve l'ho già chiesto prima. Avete inteso?».

«Ho inteso».

«Fortuna! Dunque, dunque cominciate, io vi ascolto».

Cominciai a narrarle come l'amassi e quanto.

«Ma questa non è mica una novità, sapete?» così m'interruppe «lo so, lo so già da un pezzo. Scema come sono, io me n'era accorta di per me, fin da quando mi baciaste la prima volta le mani, ed impallidiste tutto. E quasi ciò non bastasse vi piacque dirmelo, e non una o due o cento o mille volte, ma le duecentomila. E non più tardi d'iersera passaste tre ore a ripetermelo. Ora poi mi par che basti e mutiamo discorso».

Mutai discorso e presi a dire che e quanto era bella; e neppure su questo tema mi mantenne la facoltà di parlare: «Io, bella? oh questa sì che sarebbe una novità, se non fosse una bugia, anzi di quelle grosse, ma grosse!... Via, brutta da far paura, questo non sono; ma bella non mi si puol dire. Sapete lo stornello, eh?

 

In mezzo al mar che c'è un pesce prete,

Accompagnato cor un altro abate

Bella 'un vi si puol dir, brutta non siete!

 

Un par d'occhi grandi, che non c'è male, ecco tutto. E poi? una bocca che va fin qua, alle orecchie; denti storti; ed un naso! Non mi parlate della mia bellezza, innanzi a questo specchiaccio villanissimo che vi sbugiarda. Che non abbiate altro a dirmi?».

Avevo e mi diedi a lodare il suo spirito; nuovi guai! «Oh insomma, volete finir di burlare? Io non son che un'oca, sappiatelo, e me n'accorgo benissimo da me senza bisogno che l'ironia vostra m'apra gli occhi. A sentirmi dire spiritosa mi vien la rabbia!».

Vedendo che non ne indovinava una, tacqui; e volsi gli occhi intorno; caddero sul letticciuolo ancora un po' scomposto da' tardi sonni di lei. Le cortine erano rimosse e mi lasciavan vedere tuttavia sul guanciale la impressione della sua bella testolina. Era un lettuccio angusto, casto, al pari di quello d'una fanciulla: uno di que' lettini calcolati per uno, ma dove si giacerebbe deliziosamente a due, abbracciati. Ora io sapeva arcibenone che il marito non c'era, e che quand'anche vi fosse stato, da lunga pezza non vivevano più maritalmente insieme: eppure fui felice di mirare con questi occhi una prova della solitudine delle sue notti. Se l'amore adultero è colpa, qual maggior pena potrebbe avere delle rabide, inconsulte, indomabili gelosie che lo travagliano immedicabilmente, retrospettive, presenti e presaghe?

Già quegl'impudenti letti coniugali, dove entrerebbe un'intera famiglia tibetana, e che molti non si vergognano di ostentare proprio, io li ho sempre aborriti. Trovo che la relazione fra maschio e femmina che vorrebbe più temperanza e contegno è appunto il matrimonio, appunto perché indissolubile, appunto perché i rapporti sessuali vi son più pretesto che scopo. Troppo facile a sorgere e troppo difficile a sradicare è il disgusto di qualunque donna: figurarsi un po' della moglie quando l'hai sempre sotto il naso e le mani; quando è sempre pronta a compiacerti peggio d'una prostituta; quando devi trascinartela appresso notte e giorno, giorno e notte, come un compagno di catena; e quel che dico per la donna, viceversa vale anche per l'uomo. Un galeotto politico mi narrava ch'egli s'era reso conto di alcuni tenaci odi coniugali, allorché si vide costretto da vent'anni di ferri ad un amico che gli era stato pur caro finché lo aveva trattato liberamente. Anche al giaciglio della consorte l'adito dovrebbe avere qualche difficoltà, non foss'altro pro forma; cessa ogni dolcezza dall'amore se ogni sua ripetuta condiscendenza non è un nuovo trionfo impetrato con l'affetto. E poi, siamo uomini tutti, anime combattute da vacillamenti, disperazioni e sofferenze, abbiamo talvolta bisogno di raccoglimento, di stemperarci in lacrime, di vegliare le notti fra' dubbi e le paure; - ed allora incresce la presenza anche del taciturno ritratto penzoloni dalla parete, si bramerebbe la tomba per essere più immutabilmente nella solitudine. Il dio ch'è in noi è un dio geloso, che non si manifesta a' sensi distratti da muliebri contiguità.

Io contemplava quel grazioso tettuccio, e pensavo alle membra che vi avevano riposato pur dianzi, e tanto almanaccai che mi sfuggì un sospiro involontario, profondissimo. Anche il silenzio ed il sospiro non trovaron grazia agli occhi di Merope mia, che sclamò: «Ma via, su, che fate incantato? Se non avevate nulla a dirmi, o perché venire a visitarmi? Pel modo come m'intrattenete, tanto potevate rimanere in salotto finch'io mi vestissi! Avete tanto spirito, possibile che non vi suggerisca nulla?». Ecco il mio tanto spirito, al quale feci una fervida invocazion mentale, cosa mi suggerì: «Oggi è una bella giornata, siamo proprio definitivamente in primavera. Nel venire ho guardato il barometro, che indicava costante, e la costanza dell'atmosfera dura un tantino più della femminile, fino a quindici e venti giorni, niente meno! Se continua così avremo il raccolto buono e tale che potrà compensare la mala riuscita de' bigatti».

Stette su ridendo della mia scienza meteorologica ed agronomica: l'acconciatura del capo era terminata. Sempre guardandosi nello specchio, trascurandomi come s'io non fossi , dava ordini alla cameriera. E questa a cercar chiavi; ad aprire e chiudere armadi e cassettoni; a trarne capi di vestiario, che diffondevano mille fragranze d'ireos, di violetta, di spiganardi; a disporre sul canapè, sulle seggiole, sul letto gl'indumenti tutti che dovevano cingere i fianchi, coprir le spalle, nascondere il seno della mia Signora: stivalini, abito, sottane inamidate, polsini, cerchi, camicino, cravattina dalle punte a ricami, calzoncini con guernizione di merletto; quel doppio lusso che si ostenta e che si occulta, e del quale non ho mai potuto appurare se l'occulto o il palese stesse più a cuore alle civette. Ed intendiamoci bene una volta per sempre, nel dare della civettuola alla donna che ho amato, non credo biasimarla: la civetteria è la più bella forma del pudore, toglie brutalità a' consensi, toglie durezza a' rifiuti, lenisce molte piaghe, rende pregevoli delle inezie ed aiuta ad ammazzare il tempo: qual virtù può vantar pari meriti? Io seguiva gli andirivieni della fantesca con occhio avido, sperando chi sa che; ma quando tutto fu pronto la Merope sempre allo specchio lisciandosi un'ultima volta i capegli col dorso della mano: «Adesso» mi disse «dovrei pregarvi di sgombrar la piazza; pure, vi lascerò a tre patti. Promettete d'osservarli fedelmente?».

«Senza conoscer prima quali sieno? Vi par cosa da pretendersi, che? Un'imprudenza simile!».

«Promettete, Signor Quattr'Asterischi, oppure...» e facendomi un bell'inchino indicava l'uscio.

«In questo modo... col coltello alla gola... prometto».

«Ma senz'ombra di restrizion mentale?».

«Oh! Oh! Pare che di prometter lungo con attender corto la Signora se n'intenda! Sicché volete proprio una parola valida?».

«Appunto; proprio quella, già: la verità vera, una parola d'onore onesta. Dunque?».

«Dichiaro e prometto, senz'alcuna riserva o restrizione implicita od esplicita e rinunziando anticipatamente a far valere qualsiasi nullità che sia in questo giuramento, di osservare scrupolosamente le condizioni che vi piacerà impormi. Spero che non siano i tre voti frateschi: povertà, castità ed obbedienza?».

«Noi, Merope Quarta, dopo quelle che vagheggiarono Maffei, Voltero ed Alfieri, al nostro caro e fedele Quattr'Asterischi salute. Ecco i patti. Primo: finché non vi dia libertà di moti, rimarrete fisso in quella poltrona».

«Immobilità!».

«Secondo: parlerete sempre, sempre senza interruzione, finch'io sia vestita».

«Loquacità!».

«Terzo: non vi torrete questo scialle dal capo senza espressa mia licenza». E mi coverse la testa una e due volte con un suo cascimira.

«Cecitàdiss'io, nel sentirmi quasi soffocato da quel panno impregnato dell'essenze della valle felice che ha più rose della Toscana, dove pure il bel fior fiorisce d'ogni mese. «Ma questo è un quissimile del supplizio di Tantalo!».

«Anzi, dal supplizio vi libero. Non sarebbe forse peggio il vedere e non toccare?».

«E l'immaginazione che lavora, lavora?».

«E la chiacchiera che distrae, distrae? Parlate. Quando si vuole che un rosignuolo canti per bene, lo si acceca. A me piace tanto l'udirvi conversare, e vi acceco temporaneamente: sono vostra signora, sì o no? Dunque, ricordatevi i patti, e dite su».

Parlare! È presto detto, ma sfido io chiunque!... Porgendo l'orecchio sentiva dal fruscio della seta, da mille piccoli romori ch'ella veniva man mano deponendo il sottilissimo vestire; sentita la cameriera toccare, scuotere, spiegare, piegare stoffe e biancherie; ed il sangue mi si rimescolava come a diciott'anni. La fantasia me la ritraeva tale e quale doveva starmi allora dinanzi a pochi passi, scalza sul tappetino, seminuda, coperta forse appena da quelle ultime vestigia di vestiario che lunge dal nascondere non si può manco dir che velino lo splendore delle venustissime fattezze, tanto son tenui da non occultare neppure un rossore, neppure un tremito, neppure un neo. Io soffriva proprio materialmente. Non so se v'è accaduto tante volte di amare, di desiderare anche una donna per lunga pezza, ma con mente casta, senza spogliarla nella vostra fantasia, senz'affaticarvi ad immaginarla quale dev'essere tolto il voluminoso involucro dell'abbigliamento, ingenua come l'ha fatta madre natura e come l'amore ha dritto di pretenderla? E poi, tutt'a un tratto, per un lieve incidente, perché un giorno nello scendere una gradinata vi mostrò mezza gambetta, perché una sera un bottoncino spuntato dell'abito accennava più che dare un varco alla vista, tutt'a un tratto vi sorse un'irrequietezza, una smania nel pensiero, e doveste quind'innanzi spossarvi a rappresentarvela au naturel? Così m'accadde per Merope: da quel punto il mio amore divenne quasi brutalmente curioso ed impaziente.

«E la promessa?» mi disse scotendomi a un tratto la spalla con la mano. «Ohi! bel mutolo?». «Ma che diamine volete ch'io dica tranne quest'unica cosa già ripetuta a sazietà: che io vi amo e che soffro, e che vi diverte il farmi soffrire? Mi trattate come i fanciullini e gli entomologhi fanno co' malcapitati insetti; strappano loro gambette, elitri, proboscidi, li notomizzan vivi, o li trapassan con uno spillo. Vi sono capitato fra le branche quando appunto vi faceva difetto ogni altra distrazione; e vi siete posta ad osservare in anima vile che bell'effetto fa un uomo il quale desidera tutto ed ottiene men che nulla; forse, senza sospettare che il vostro scherzo (del resto, questo sì, spiritoso, come ogni cosa vostra) poteva esser tragicamente serio per altri; o forse, l'avete sospettato e poco v'importava. Io qualche volta nel vedervi inchinare il capo ascoltando le mie preghiere, in quella guisa che altri porge avidamente l'orecchio per raccogliere gli accordi d'un'armonia cara; mi sono fatuamente illuso, stimando che in voi fosse, amore non già, so troppo di non meritarlo, ma una grande e sincera compassione. Parliamo franco: soldo più, soldo meno, conosco quel che valgo; non potrei possedervi, che... una delle due: o per una somma vostra depravazion di gusto o per vostra eccelsa generosità, per atto di sublime misericordia. Merope mia, pur troppo, non si dirà mai che abbiate un gusto malsicuro o pervertito, non si dirà mai che pecchiate per eccesso di generosità; non potrò mai sclamare, come Tancredi: Medica mia pietosa! Se fossi un lurido pitocco rognoso avreste compassione e mi fareste ricca limosina anche rinunziando a qualche capriccetto; ma perché languisco di amore ed invece di stender la mano v'apro le braccia e vi chieggo la carità d'un bacio, d'un po' d'affetto, ecco vi spassate alle mie spalle: io soffro, lo vedete e ridete. Oh siete buona meco, è vero: meglio se foste ingrata, meglio per me. Ho a dirla, via, proprio come la penso? Nella vostra affabilità ci ha due ingredienti: l'uno buono ma debole e sommerso in fiumi dell'altro cattivo. Il buono è un centellino di pietà: naturale! non c'è animo bennato che vedendosi amato com'io v'amo non commiseri l'infelice che tanto ed indarno desidera. Ma quando state per intenerirvi... il guaio è che avete troppo della gatta, Merope mia; sì della gatta, non andate in collera, veh! Ed io sono il topolino, ludibrio delle vostre zampette prima di morire. Giudicate s'io v'amo! Quando accorto del giuoco indegno, nullameno persevero e perduro, non dimostro forse animo più deliberato assai del colonnello che dato di cozzo in forze decuple, s'ostinasse a non ordinare la ritirata? Anzi che mi deridiate, io lo trovo giusto e sclamo: così la va. Ah tutte le servitù son più o meno volontarie; povero La Boëtie tu enunciasti pure il gran vero! Forse che gli addetti alla gleba nell'Evo Medio non istimavano buono ed acconcio il dover essi frustare nelle gelide intere notti i fossati acciò le ranocchie gracidando non dissonassero i feudatari? non reputavano conveniente ed equo che il pingue abataccio in virtù del connatico godesse le primizie d'ogni vassalla sposa? non riconoscevano opportuno e santo che il barone reduce dalla caccia, sventrando due villani, ficcasse il piè destro nell'epa dell'uno, il sinistro nel buzzo dell'altro, come noialtri stanchi del passeggio prenderemmo un pediluvio? Strano! ma fatto sta che sempre e dovunque l'oppresso riconosce debita e legittima l'oppressione. Ma stavolta, cara gattina mia, il troppo è troppo: avete voluto scherzare col fuoco, peggio per voi se vi brucerà le dita? Io non soffrirò l'umiliazione che m'imponete; non mi acqueto in impossibile rassegnazione. Mi torrò dal capo questo scialle nel quale m'avete imbacuccato e vedremo poi!».

Feci un piccol moto; e la signora già supponendo che stessi per eseguire la minaccia, mise un grido acuto e la sentii nascondersi con la cameriera dietro le cortine del letto. E poi con una voce tra lo stizzoso e il supplichevole: «No, no, ve ne prego. Se vi togliete lo scialle dal capo, Quattr'Asterischi, d'una cosa siate certo, non vi perdono più. Ricordatevi... non mi fate perdere la fiducia che ho in voi. Vi assicuro, che mi fareste sommo dispiacere».

Ed io: «Oh non temete, non farò. Meno per la promessa, quantunque una parola mi leghi, che per tema di dispiacervi. Lo sapete già che il dubbio d'offendervi basta a smorzarmi ogni ardire, ad imbecillirmi. Io sono un gran brutto codardo, figliuola mia. Dovrei piantarvi un dilemma, cornuto per bene e dirvi: o cacciatemi di casa o datevi a me. Basterebbe per questo farvi una brava impertinenza e forse, chi sa? vi prenderei d'assalto. Od almeno m'indichereste la porta ed io farei un profondissimo inchino cerimoniosissimo alla Signoria vostra e poi me n'andrei per non tornar più. Sarebbe un affare conchiuso, l'animo in pace. Ma v'amo tanto svisceratamente che non so risolvermi, che non voglio risicare di perdere la soave vostra intimità, quella dolce consuetudine di vedervi e d'esser gentilmente accolto e di passar le ore ascoltandovi e brancicando le rose deposte sul tavolinetto. Ve ne siete accorta, come di tutto: quindi baldanza da non dirsi, quindi abusate di me. E poi osate anche calunniarmi; ierdassera mi diceste ch'io non vi amava, che il mio era un volgar capriccio, ch'io parlava a voi così per ozio come a chi sa quante altre, come parlerei alla vostra cameriera... - Ama colui che desidera e chiede, Merope mia; non ama colei che diniega. E sia pure: io non sono tanto cieco da voler essere amato per forza; vi spiaccio? sventura mia e non colpa vostra. Ma dunque trattatemi come si trattano gli spiacenti: siate tutta sostenutezza, tutta noncuranza; fatemi dire che non ci siete in casa, fingete di non vedermi e non salutarmi per istrada! È uno scherno quando invece di spiattellar franco all'amante un non vi voglio, perché siete antipatico, l'amata si asserraglia e trincera dietro non so che doveri e pericoli e riguardi e comandamenti di domineddio, del confessore e del diavol che mi porti. Uno scrupolo di sincero affetto sbilancerebbe tutte cedeste insulsaggini. Io non ritengo, ohibò, che l'attimo di voluttà gustato accoppiandosi alla persona desiderata, sia scopo e sostanza dell'amore; ma lo reputo un sine qua non; se non il tutto, condizione essenzialissima. L'amico potrebbe forse non chieder queste sciocchezze (che se non parlassi a voi schifiltosa chiamerei come sono in ogni senso: coglionerie); ma l'amica non deve negarli; il maschio offenderebbe la femmina se non curasse d'ottenerla, e la donna infeliciterebbe l'uomo se le desse il cuore di non accondiscendere. Non può darsi perfetto accordo fra le anime, gl'intelletti, finché non essendosi misti i corpi dura qualcosa di misterioso e d'ignoto nell'idolo. I tempi nostri esecrando le relazioni, ammesse per lecite e commendevoli dall'antichità e dal divino Platone in persona, fra individui del sesso medesimo, hanno forse recisa la possibilità della perfetta amicizia fra uomo ed uomo o donna e donna. Riman sempre possibile, ma quando vi piacerà che congiunga l'impareggiabil mia signora al suo Quattr'Asterischi?».

Aveva preso l'abbrivo e non v'era ragione perché non proseguissi sul medesimo tono un bel pezzo; quando la gentil voce di Merope, profittando della pausa che succedeva all'interrogativo, m'interruppe: «Mio caro Quattr'Asterischi, scusate le lungaggini di noi altre donne; ma finalmente ho finito; quindi se v'aggrada potete togliervi di capo lo scialle e darlo a me, perché me lo metta addosso».

M'affrettai a seguire l'invito: via lo scialle! fu come un levarsi di sipario su di qualche scena meravigliosa; come l'aprire al mattino la finestra dell'albergo nel quale s'è giunti a notte tarda, finestra che sopra un magnifico orizzonte d'acque, di montagne. La mi stava ritta innanzi a due passi, vestita ed atteggiata proprio come nella prima delle fotografiuzze. La pezzuola spruzzata d'acqua di Colonia l'era caduta per le terre; la raccattai, la baciai e gliela porsi. La cameriera era uscita dalla stanza; noi soli, soli, ed ella sorrideva graziosissima. Io rimasi di sasso tanto era leggiadra, tanto mi guardava benigna.

La bella che vuol sembrar bellissima, si mostri arrendevole: non v'è nulla di più schifoso del fare schivo, ritroso, austero; il no preventivo alla richiesta è ridicola pedanteria. Scommetto che messer Paride antepose Venere all'altre due, non perché più formosa, ma perché più facile e sciolta.

Merope, arrossendo tutta: «Poverino» mi disse «siete stato obbediente; davvero meritate un premio». E chinandosi un po' sulla spalliera, mi toccò leggerissimamente la fronte con le labbra. Io non so come non isvenissi: mi s'annebbiaron gli occhi tanto fu il sangue che mi concorse alla testa.

Rientrò la fanticella con la cappelliera e ne trasse un cappellino bianco, elegante! oh ma proprio un gioiello! Poco raso, pochi merletti, pochi fiori e le stava così bene alla Merope, quando se l'ebbe posto innanzi allo specchio! Poi mise i guanti, e dopo aver impazzato un pochino, mi porse la destra arrovesciata con un: «Vedete d'abbottonarmelo voi, non ci riesco!». Poi ricevette l'ombrellino dalla domestica: «Ed ora» mi disse «accompagnatemi sino alla carrozza».

Passando pel salottino prese l'albo ch'io sfogliazzava un'ora prima, ne trasse un suo ritratto e me lo porse: «Serbatelo per memoria: qui son vestita proprio com'oggi; ed oggi, come so grazie a voi, il barometro indica bel tempo e soprattutto costante. Quando un giorno, di qui a non molto, troverete questa fotografia dimenticata in qualche vecchio portafogli, sclamerete: Chi diamine è questa bruttina; mi pare... sì, dev'essere una fisionomia conosciuta, ma non giungo a ricordarmi. Eh! dio buono... sicuro... se non isbaglio.. è quella tal Merope, poveretta! Una buona pasta di donnina che si beveva un subisso di fanfaluche le quali non mi costava nulla ad isnocciolare: che gocciolona! Ed era di quelle che se ne dan tre per una crazia. Chi sa che sarà divenuta! Vattel'a pesca.! Poveraccia, ed ebbe la dabbenaggine di prender sul serio le me' chiacchiere, di credermi e d'amarmi davvero davvero davvero...».

 

 

 




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