V
SOGNO IDILLICO
Un souvenir d'enfaNCe,
où quelque jeune fille
Passe avec chagrins qui furent
nos secrets.
SOULARY
Mi pareva di
essere ridiventato adolescente, e nuovamente in quella cara Nizza italiana,
dove ho vissuto tanti anni in altri tempi; e di avere finalmente il secreto
desiderio di tutta l'adolescenza mia: una cugina, amica d'infanzia, che avrei
tanto amata, che mi avrebbe amato tanto! Ed era in sul mezzodì d'una bella
domenica estiva con un orizzonte sereno e puro al pari delle nostre fronti. La
cugina sorrideva sotto le falde della cappellina, vispa vispa; ed io mi
compiaceva della sua letizia. E sapete chi era? Ma! la Merope in persona,
ringiovanita, rinverginata, quale io me la figuro nel primo fiore della sua giovinezza,
quando cominciava ad aprirsi appena quel fiore tanto superbo adesso; quale io
non l'ho conosciuta, perché è mio destino di giunger sempre troppo tardi, di
non aver che i rilievi delle mense godute da più diligenti, che l'amicizia di
chi ha dato altrui l'amore, che gli affetti illegittimi e secreti di chi ha
palesemente e legittimamente recata ad altri la sua verginità. E sia! non
c'illudiamo: quel che importa al mondo non è lo scopo o la soddisfazione delle
nostre passioni, anzi il provar noi esse passioni: anche dei rilievi delle
mense uno può satollarsi, anche nell'adulterio si ama. L'affetto dell'animo è
sempre bello, ideale e puro: che importa poi se l'oggetto materiale che gli
serve di pretesto sia una bimba mocciosa come Bice; od una insulsa salamistra
come Laura; od una benevola a parecchi come la Simonetta; ovvero benevola a
tutti come l'Alessandra; od una vergine soave e pura, come quelle di cui
è stato moda romperci il timpano in questo secolo. Hai amato? Basta, e sii
riconoscente alla femmina qualunque che ti ha commosso, e ricordala con
venerazione, e difendila da ogni vitupero, e dà per lei la vita se occorre;
appunto come rammemoreresti senza schifo l'acqua fangosa e verde della
pozzanghera che ti ha dissetato il giorno della battaglia quando cadevi
sfinito. Ora il sogno mi creava la dolce illusione d'una Merope cugina,
fanciulla ed amante; e scorrazzavamo insieme per le pianure tutte aranceti, per
le colline tutte oliveti. La campagna era un deserto: né ronzio d'insetti, né
cigolio di carri, né fragor d'acque, né stormir di frondi, né canto d'uccelli,
né voce di uomo rompeva l'altissima quiete; e solo di tempo in tempo da qualche
valletta ci perveniva l'armonia confusa delle strofe canticchiate dalla bruna
foresozza che aspettando il pranzo o chiamando l'innamorato, riparava gli occhi
dal sole con la palma distesa. La Merope ad ogni passo lasciava il mio braccio,
interrompeva il ragionamento di quel primo amore senza scopo ed a correr di
qua, di là, innanzi, indietro, e lì c'è un bel fiore da cogliere, e qui un
ramuscello da svellere, e lassù uno scarabeo dorato da chiappare, e laggiù
farfalle da rincacciare, e che bella vista si godrebbe da quel ciglione! Io
l'ammoniva d'aver più contegno: «Ma sii seria una volta: sai che sei già grande?
una donnina proprio». Non che mi desse retta, la mi costringeva con certi suoi
vezzi ad imitarla. Da che nasciamo e la levatrice malgrado i nostri pianti ci
fascia a suo modo, finché moriamo e le prefiche malgrado la rigidità del
cadavere ci stendono e vestono come meglio loro aggrada, le femmine ci piegano
sempre al voler loro. Dunque Merope a correre? ed io dietro; e s'ella si
invaghiva di qualche oggetto ed io mi arrampicava, precipitava, affannava per
procurarglielo; e se degnava fermarsi ad ammirare, spalancava anch'io la bocca,
peggio d'un inglese che ritto sulle zampe di dietro come un orso addomesticato,
ammira in Pompei tutto ciò che la guida gli dice di ammirare. «Milordo, questa
è la casa di Diomede!». «Diomede? ooh'». «Milordo, questo è il sepolcro di
Nevoleja Tiche!». «Nevoleja Tiche? ohh!». «Milordo, quello è il mare!». «Il
mare? ooh!».
Noi due
passeggiavamo senza pensieri, determinati a non fermarci finché ci reggessero le
gambe; a recarci ben lontano senza saper dove, ahimè come appunto gli uomini
son risoluti di vivere quanto potranno e senza un ragionevol perché! Io la
manoduceva pe' sentieruoli più dirupati, pe' clivi più scoscesi, pe' siti più
solitarii; desiderando un pericolo per mostrarle che meco non era da temerne
alcuno. La cugina m'era affidata dalle nostre madri; ed io crepava dalla voglia
di provar loro che non era stata male affidata. Così appunto quando
l'uffizialità d'un esercito è troppo giovane e senza sperienza, bramosa di far
prova del coraggio personale, essa mette spesso a repentaglio le sorti della
battaglia.
Passo innanzi passo, eccoci nel bosco, al
fresco. La Merope che l'afa della stagione e dell'ora opprimevano, qui a
rialzar la fronte come un fiorellino riarso, dopo il tramonto, quando
l'annaffi: ell'era stanca ormai, s'appoggiava tutta sul mio braccio, sicché lasciato il correre, andando pian piano, giungemmo ad
una scaturigine in un luogo fuori strada, incantevole, tappezzato da erbolina
fitta, corta e fragrante, adombrato da piante gigantesche, le maggiori della
selva, che non vi lasciano penetrar mai raggio di sole. Mia cugina rigettata la
cappellina sulle spalle, rassettandosi i capelli, rasciugava con la pezzuola il
sudore; ed io le recava a bere nel cavo della mano ch'ella festosamente
mordeva; ed io alzando l'indice sclamava: «oh ingratitudine umana!». Poi me le
sdraiai allato, fra le radici di una quercia; le posi sotto al capo il braccio
sinistro a mo' di guanciale, presi le sue due mani nella mia destra e
ragionavamo, sragionavamo, come l'età ci suggeriva risa e pazzie! Dopo un poco
cominciò a rispondermi distrattamente, le morirono le parole in bocca,
s'abbandonò, chiuse gli occhi e s'addormì sorridendo.
Dunque io le
giaceva allato; il suo capo riposava sul braccio mio, le sue mani nella mano
mia; il mio volto era piegato al suo volto, le mie labbra toccavano quasi le
sue labbra. Eravamo giovani e soli, perduti nel più recondito canto della
foresta, eccitati dalla fatica e dalla stagione. Oh! con che impeto mi batteva
il sangue nelle arterie! pareva che il mio cuore cozzasse con le pareti del
petto, mentr'io mirava il suo seno avvallarsi e gonfiarsi regolarmente; le sue
labbra, che di tempo in tempo, ad intervalli certi, tramandavano come un
sospiro. La giaceva con tanto abbandono! le sue vesti erano tanto leggiere! le
sue forme si disegnavano tanto bene! Non trovo parole che esprimano i miei
tormenti. E mentre mi si appannavano gli occhi e tremava tutto pel desiderio
grande, la rimanea tranquilla, dormiva, dormiva, senza sospetto, placida
placida; pareva anzi che dormendomi quasi in braccio provasse una certa
innocente voluttà. E mentr'io balzava in piedi per dissipar quella vertigine, le sue mani non volevano
staccarsi dalla mia, sembrava che dicessero: Rimanti.
«Oh!» pensava,
rizzatomi livido e fremente, «in mal punto se' venuta qui, meco! Osi troppo, ne
vuoi troppo; non sono di ferro, io poi, non altro degli altri uomini. Mi ti
getti in collo come ad un'amica! mi ti addormenti in collo! Credi tu, ch'io non
sia che un fanciullo? Succeda che può, non mi lascio sfuggir questa occasione.
Non son poi tanto scemo sai? Sarà un misfatto, sarà una codardia, poco monta!
ti farò mia! Chi sa? lo brami forse. Resisterai? sono un po' più forte, crederei:
vedremo che resistenza possa oppormi. Chiamerai aiuto? Chiama! chi può
sentirti? e poi ti soffocherò le grida in bocca co' baci! Piangerai,
soffrirai... non piango, non soffro io adesso? Puoi ricorrere al tuo preteso
dio: non mi ci oppongo, vedremo che saprà fare. Ma no! svegliandosi non
chiamerà dio, chiamerà me, che la soccorra. Chiamerà me! L'uomo su cui riposa,
in cui s'affida, a cui ricorre, con cui si sente sicura, da cui degna e
consente esser vegghiata, io, la tradirei! Perché sei stata cieca tanto da
fidarti? Perché non sei rimasta con tua madre, con mia madre? E quelle due
vecchie! perché non trattenerla? perché dirci d'andarne ove ci talentasse,
d'andarne soli? Sono ancor tanto ingenue da non saper sospettare ciò che
poteva, ciò che doveva succederne? O che ci abbiano contato su? Ma chi poteva
immaginarlo? Pochi instanti fa avrei inorridito di questa idea; ed ora... anche
ora, titubo, non oso, non oso romperle il sonno, non oso disonorarla e
disonorarmi. Bel trionfo! una povera ragazza, debole, confidente,
inesperta, lontana da ogni possibile aiuto, addormentata! Svegliala almanco!
spiegale di che si tratta, mettila in guardia, fa che si difenda, trova modo di
render meno disuguale la lotta. Non oseresti assalir da tergo un inerme».
Pare che quel tal domineddio ch'io negava nel mio eloquente
soliloquio, intendesse dar prova della esistenza sua e degnasse rinnovar per la
povera cugina, cioè per la Merope, cioè per quel mio sogno, il miracolo
improvvisato per Abramo, quando somministrogli un montone da surrogarsi ad
Isacco nel sacrificio. Il delirio stava per trascinarmi a qualche atto che
avrei in seguito amaramente rimpianto, allorché sentii le foglie secche
scrosciarmi dietro come peste da un piè cauto e guardingo, con precauzione,
piano piano. Mi scossi, mi posi in orecchi, diei di piglio al mio bastone
nocchieruto; difatti, qualcuno s'avvicina. Mi traggo verso il luogo che
tramandava quel fruscio di frasche rimosse; scarto i rami, mi caccio tra'
cespugli, guardo... i miei occhi s'incontrano con gli occhi sanguigni e
fiammanti d'un lupo. Percosso dall'occhiata mia, rincula tre passi, riman con
la zampa sospesa, petrificato, come un ladro che tema d'esser stato scoperto;
poi digrignando, schiumando, vomitando dalle fauci un urlaccio cupo e rauco, si
scaglia alla mia volta. Macchinalmente io, quell'io tanto prode in pensiero ed
in parole repubblicanescamente momenti prima, retrocedetti, volsi le spalle
d'istinto per battermela. Il bestione senza badarmi più in là, s'indirizzò
verso la povera dormiente che ridesta dall'ululo, e vedendosi sopra il laido
animalaccio, apprendendo così in dormiveglia un pericolo, senza capir ben
chiaro di che si trattasse, mi chiamò per nome in aiuto. Io non aveva attesa la
chiamata per accorrer con la mazza in aria, e n'aggiustai sul cranio al mostro
una tanto vecchia, ch'ebbe a stramazzarne guaiolando. Riavutosi, si rizzò sulle
zampe posteriori e senz'aspettar la seconda, spiccandomi un salto addosso e
ficcandomi gli unghioni nelle carni, con un morso mi fece abbandonar il bastone
e con l'urto dare un picchio con le schiene in terra. M'opprimeva il petto; i
suoi artigli eransi impigliati ne' miei panni, il suo anelito mi bruciava le
gote che poco prima un suave alito aveva accarezzate. M'ingegnava
disperatamente con ambo le mani a tener quelle labbra e que' denti lontano
dalla mia faccia, ma mi mancavano più e più le forze e la lena; non v'era parte
del mio corpo che non cocesse per qualche morso o qualche graffio...
Caetera
desunt, perché mi svegliai. Mi trovai di aver gettato a calci le coperte e
i guanciali per terra, in piena traspirazione e con un fiero palpito di cuore.
Stropicciai un fiammifero, accesi la candela; eran le tre dopo mezzanotte. Per
non saper che farmi volli scrivere de' versi, e scarabocchiai queste strofe:
1.
Oh il muovere è bello fra 'l volgo prostrato
Al palco che
sorge di sgherri accerchiato:
Più bel
piedestallo la terra non dà!
V'è arcana
possanza, v'è un fascino occulto
Nel detto
supremo, nell'ultimo insulto
Che scaglia
alle plebi chi muore di là.
2.
D'angoscia fugace chi cura un istante?
Siccome
all'atleta che spira elegante,
La turba e il
suo plauso gli occupa il pensier!
La scure
nell'ardue virtudi s'intacca,
Né fama
ottenuta da ruote si fiacca;
Non bruciano
i roghi l'immoto voler.
3.
Oh no! non s'accordi l'onor del supplizio
Agli enti insozzati
di colpa o di vizio,
Rapaci le mani,
codardi il pensier!
Si serbi pe'
grandi, pe' giusti, pe' sommi,
Pe' ricchi di
gloria che dettano dommi
Ai popoli scossi di
nuovo saper.
4.
Per noi gli ambiziosi, gli audaci, i credenti
Si serbin le faci,
le sbarre roventi,
Le ruote, le scuri,
le forche, il dolor;
Gli schiaffi e gli
sputi de' turpi bargelli,
Le mitre, gli
scherni, l'obbrobrio, i flagelli,
Quell'ore in
cappella che schiantano il cor.
Ma giunto qui mi accorsi di aver dato nel
rettorico. Poiché, se in quel punto avessero bussato all'uscio per annunziarmi
che la monarchia era rovesciata in Italia, che la canaglia repubblicana aveva
in mano il potere e mi mandava benignamente ad arrestare nottetempo per poi
mandarmi la dimane al patibolo, francamente io dubito assai o meglio non credo
che avrei apprezzato al giusto valore l'onor che mi tributavano stimandomi
incapace di servirli e capace di nuocer loro. Rinunziare alle prossime speranze
di amore e di vittoria per la forca, forse o senza forse mi avrebbe
contristato! Posi dunque giù la penna e mi ricoricai col fermo proposito di
rimaner desto finché non fosse ora di andare al quartiere, giacché aveva letto
sull'Ordine del giorno che toccava al Sottotenente Quattr'Asterischi d'esser
d'ispezione a' viveri la dimane. Ma non seppi resistere al sonno, ed eccomi
ingolfato senz'accorgermene in altre visioni.
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