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Vittorio Imbriani Merope IV IntraText CT - Lettura del testo |
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VI
E il forte adopra e pensa, e quanto il giorno col divo carro accerchia, a voi s'inchina.
Sognai una camera da letto: ma non era la pudica stanzuccia nella quale aveva sospirato il mattino, anzi una sala magnifica, sopraccarica di damasco e d'indorature, con suppellettili df legno massiccio e tutte sculture, col pavimento ricoperto da spessi tappeti. Su d'un tondo di legno pietrificato, l'esatto fac-simile del Sileno dissepolto a Pompei nel MDCCCLXIV, sorreggeva una conca di vetro multicolore colma d'olio profumato, che faceva da lumino da notte e rischiarava mollemente la stanza: in fondo alla quale era un gran letto, coperto da un gran baldacchino: e sul letto, sulle cortine, sul baldacchino, dovunque, o scolpite o ricamate o d'oro figuravano delle aquile imperiali, delle N intrecciate con delle E coronate. Come fossi lì, non so. Chi mi ci avesse condotto, non ricordo. L'I**** aveva congedate tutte le dame; eravamo soli come un confessore con la penitente. Essa si affaccendava senza far punto rumore innanzi allo specchio, per disfare i capelli, tôrre orecchini, collana e smaniglie, quelle ultime cure della donna prima di abbandonar le membra al riposo; ed era avvolta in un lungo camice bianco, male stretto e lassamente intorno al fianco da un laccio di seta a fiocchi. Perplesso e sorpreso, io pensava come mai quella impareggiabile e superba signora mi tollerasse lì, mi ammettesse nella intimità ch'Ella negò ad un I**** quando questo I**** la voleva per men che sposa ed I****? Ma dunque avrebbero avuto ragione quegl'infami libellisti repubblicani, che osarono diffamarla peggiore di Semiramis che libito fé licito e di Cleopatras lussuriosa? ma dunque quell'austera castità, quella vita di abnegazioni e di astensioni per la quale appresi a venerare la degna consorte dell'ottimo sovrano, era stata una larva ipocrita, una sfrontata menzogna; ed essa tale da scendere né più né meno di una femmina di casa Borbone per istrada a raccattare amanti ignoti? E sentiva agghiacciarsi in me ogni stimolo di voluttà, non dalla paura della morte che forse m'aspettava all'uscir di lì, acciò non si divulgasse l'ignominioso secreto (io non son di quelli che soglion mai temer la morte, e chi non la pattuirebbe per godere tanta fortuna di amore?) ma... Ma, dio santo! sublimata al più splendido dei troni da un uomo sommo, illustre, virtuoso più d'ogni altro contemporaneo, tradirlo per un ignoto uomo di plebe, per me!... per me, ch'ella non aveva mai frequentato, e quindi non poteva pretestare come scusa dell'eccesso alcuna passione o seduzione. Quand'ebbe finita la toletta notturna, mi si rivolse e mi buttò le braccia al collo, e soffocò con un bacio un grido di sorpresa che stava per isfuggirmi. L'I**** era la mia Merope! «Siete voi, proprio, quella dessa?» le mormorava io sottovoce. «Siete voi proprio quella che ho tanto amata? Come qui? come I****? Perché celarmi sinora che eravate una tanta signora? Ah sì, avete ben fatto, ch'io non avrei osato amarvi, se lo avessi saputo; appena appena ho cuore d'ostinarmi, ora che lo so, nell'antica passione? Come ho da chiamarvi? Merope od E****? E perché così mutata, così benigna?». Ahimè facile pur troppo era la risposta: si mostrava benigna perché solo una specie fantastica. Ed io l'abbracciava, e la mia mano si smarriva sotto quella veste tutta aperta, lungo le membra bellissime: mai non ho palpati fianchi più ampli, di forme così salde e tonde: il desiderio si ridestava in me potente per quei contatti e la sentiva fremer tutta sotto le mie dita, come tutta la tastiera sotto una mano che rapida vi strisci su. Spariva ogni preoccupazione tranne quella del piacere. Ed essa non faceva contrasto alcuno, e mi si abbandonava tutta con inerte arrendevolezza. Io ne provava una specie di raccapriccio e m'era necessità di ricontemplarla ogn'istante a quel fioco lume per farmi pur certo che non l'aveva presa in fallo; ch'era ben Merope, e ben l'I'**** quella tollerante bramosa, che tutto permetteva bonariamente. Ahimè tollerava e permetteva perché solo una vana parvenza. Ned altrimenti sarebbe avvenuto che mi prendesse per mano e s'avviasse verso quel letto dalle coperte tutte merletti, da' guanciali tutti piume. Io la seguiva come il bambino tien dietro alla mamma che gli promette una bella cosa fatta sperare mille volte e mille volte poi diniegata, sul punto di concederla. Conosceva pur troppo, con mio danno, quanto si fossero malsicure le impromesse di quella donna, come si divertisse a suscitare larghe speranze, fermo avendo nell'animo di non appagarne una. Ed io le diceva sommessamente: «Merope mia, e non temete che alcuno ci sorprenda; no? Siete certa, ben certa che anima viva non oserà valicare quest'uscio, mentre io sono da voi? Certa che per parte vostra non s'incontra pericolo? Non mi esponete, amica mia, ad essere cagione della rovina, dell'ignominia, della morte di colei che amo. Ho aspettato tanto, aspetterò ancora. Siate cauta! Son fidate le cameriste che mi hanno introdotto? Sono avvezze a vedere e tacere le guardie? Io tremo per voi». E v'era di che ragionevolmente temere. La bussola della camera dell'I**** era aperta e nella stanza contigua sedevano a consiglio l'eletto del suffragio universale co' suoi Marescialli. Parlavano concitatamente, e le sciabole romoreggiavano sul pavimento, e di tempo in tempo l'ombra d'un braccio disteso, d'una testa inclinata si allungava fino a noi due. Discutevano piani di guerra, e quantunque non v'abbadassi tanto da seguire i ragionamenti, udiva le parole Italia, Roma, Reno, ritornare spesso come un intercalare obbligato. Ma la Merope non si smarriva e mi attirava a sé su que' molli strati del letto, o che fosse certa del fatto suo, o che trovasse nel pericolo un nuovo condimento alla voluttà. E mi stringeva tra le sue braccia tenacissime, come una pianta parassita s'abbraccia al sostegno e lo circonda di spire, per succhiarne la vita; come un fanciullo si attacca al grembo della nutrice. Ahimè! non era Merope, anzi una larva di scompigliato sonno, colei che mi diceva: «Vieni, vienne meco. Oh! io ti amava e quanto! da un tempo ch'io non saprei determinarti perché non ho ricordo d'aver vissuto prima di conoscerti. Che m'importa ogni pagina antecedente della mia vita? che m'importano le strane vicende, le subite e provvidenziali esaltazioni a vertiginose altezze? Una cosa m'importava solo: ed eri tu. Ma sai, non poteva esser tua, finora. Ogni qual volta io mi risolveva ad appagarti, ecco inalberarsi nella mia mente mille paure di peccato, di dannazione. E quando per isgombrarle m'andava a buttar genuflessa innanzi al confessionale, ed a supplicar venia per la mia passione, ad implorar licenza di poter salvare questo corpo consumato dal desiderio, quest'anima prossima a disperare; e non v'era altro mezzo di salvarli che amando te; allora da quella finestretta graticolata una voce funesta mi comminava le maggiori maledizioni della Chiesa, mi suggeriva rimedi impotenti, m'inculcava la depravazione per distogliermi dall'amarti. Io, non reggendovi più, mi rivolsi a colui ch'è onnipotente, infallibile in terra, da vicedio ch'egli è. Lo scongiurai di non far peccato l'amore mio, di escogitare modo con un breve da mostrarsi all'ingresso dell'eternità ed in valle di Giosafat, di escogitar modo, dico, ch'io potessi far pago te e non giuocarmi il paradiso. La Chiesa è indulgenza e misericordia: pure il p*** dapprima non voleva; paventando scandali. Ma seppi rimuoverlo dal non possumus citando autorità di santi predecessori, quale Alessandro VI. A forza d'insistenza e di promissioni mi ha venduta questa pergamena, vedi, ch'io porto qui in seno, e nella quale anticipatamente mi assolve di ogni errore che potrei commetter teco. Ora son tua, tua senza temer più nulla. Comprendi mo' perché mio malgrado negassi altra volta, perché ora io consento, anzi offro?». «Merope, che hai tu fatto? C'era proprio bisogno di comperar da loro ciò che gl'istinti di natura, i dettami umani permettono liberamente? Donna, quando ti rivendicherai ad autonomia di pensiero? E che hai pagato per quest'assoluzione, dimmelo? Tutt'i diamanti della corona? Ti sarai rovinata!». «Che t'importa quel che costa il tuo piacere? Imiteresti l'avaro che convitato ad un banchetto va computando quanto il padron di casa ha sborsato e non trangugia boccone o sorso senza rammaricarsi? Godi e non chieder oltre. Come puoi pensare a queste inezie quand'io son qui, io; e ti dico: son tua; fa di me quel che ti piace?». «No! voglio appurare le tue pazzie, non foss'altro per adorarti maggiormente, in ragion diretta de' tuoi sacrifici. Che gli hai dato a quel vecchiaccio?». «Oh! men che nulla! Una promessa». «Una promessa che manterrai?». «Promessa d'****». «Ma quale? di su?». «Che so io? Voleva che m'obbligassi a fargli restituire non so quali provincie che pretende essergli state frodate; ed ho solo impegnato la mia parola che certe truppe di mio m****, non lascerebbero mai R***». «E la convenzione?». «È un trattato. A che servono i trattati fuorché a violarsi?», «E R***?». «È un territorio. A che servono i popoli se non mercarsi?». «E gl' I****? ». «Sono stranieri. A che servono gli stranieri non se non a combattersi?». «Ma non sai tu che quell'I**** è mia patria?». «Sì? so che m'ami; so ch'io t'amo. Questo so. E so che senza l'amor mio tu vivresti misero, e che senza l'amor tuo io morrei miserrima. So che siamo soli e che la mezzanotte è suonata, e che della dimane nessuno è sicuro. O non ti piaccio più io? o il desiderio s'è illanguidito in te? Od anteporresti l'autonomia della tua R***, di quel mucchio di rovine, all'amor nostro? Ma dimmi, credi tu ch'essa libera avrebbe pensato a te? speravi che la ti chiamasse per signore, che ti applaudisse? Non sai che da lunghi anni vagheggia ben altro padrone e che, pari a se stessa negli antichi tempi, pari ad ogni plebe, pari a questa mia F****prostituirà gli applausi suoi ai degni ed agli indegni, soprattutto a questi ultimi, sinché ogni galantuomo li prenda a schifo, come il blandir di femmina sul trivio al passaggier? Sei tu già tanto vecchio d'animo da preferire un'ambizione ad un'amante?». Ahimè! quelle parole carezzevoli erano indarno: in me, strano a dirsi, era morta ogni concupiscenza di quella donna che otteneva al prezzo del disonore e della jattura d'Italia. Il mio amore era venuto a conflitto con la sola passione più potente ch'io raccettassi, con l'affetto succhiato dal seno materno unitamente al latte per questa infelice ed impareggiabil terra. Gli abbracciamenti già tanto agognati ora mi nauseavano: io non sentiva più la mollezza di quelle chiome, la soavità di quell'anelito, i brividi di quella persona; anzi il mio pensiero era lungi e ruminava l'insulto che toccherebbe al governo del Re, la permanenza dello straniero sul sacro nostro suolo, la sentinella francese innanzi al sepolcro d'Adriano, l'umiliazione della bandiera, l'osceno tripudio de' chiercuti e de' clericali. Se col toglier di mezzo colei fossi stato certo di distrugger gli effetti del turpe mercato, io l'avrei strangolata con le sue proprie trecce e con le dieci dita delle mie due mani. Quando tutt'a un tratto, nella stanza contigua udii più alta la voce del marito dire: «Di questo sgombro bisogna ch'io conferisca prima con l'I****: ho promesso di non far cosa alcuna senza il consenso di lei: anch'Ella è membro del consiglio privato; debbo consultarla». E dopo ch'ebbe detto così, stette su e respinse indietro la poltrona; ed i suoi passi sonori e la sua sciabla rimbombarono sul marmo. Apparve nel vano della porta e l'ombra del suo capo si dipinse su' cortinaggi dietro a' quali giacevamo. Nella stanza le pedate erano smorzate da' tappeti; egli marciò dritto al letto; e quando fu giunto, si fermò; scartando pian piano le tendine, inclinò la testa verso noi, e con voce di chi voglia ridestare, ma non in sussulto, una dormiente, mormorò: «Signora...». In questa mi svegliai.
Il tempo era nuvolo e prometteva una mala giornata: le trombe suonavano la sveglia. Indossai frettolosamente la tunica rossa, mi cinsi lo squadrone, e mi recai al quartiere per mettermi a capo de' comandati a' viveri. E sì che della qualità della carne, della pasta e del lardo, Quattr'Asterischi se n'intendeva assai!
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