XI
INTERLUDIO
So klammert
sich der Schiffer endlich noch Am Felsen fest, an dem er scheitern sollte.
GOETHE
Qui ci
distrasse Pietro De Mulieribus marciando trionfalmente nel caffè e sbattendo il
fodero dello squadrone contro tutti gli scanni e tutti i deschi. Fatto alto
presso il bancone ed ordinata una razione di bibita calda, il mio collega
osservandissimo bersagliò di barzellette quel Berg-op-Zoom della padrona che
cascava di sonno; e poi, visto che non vi apriva breccia, eseguì un
front'indietro e ci avvisò: «Bravi! si sta qua voialtri? Permettete, un
posticino qui. E di che domine v'intrattenete con quelle facce allibite, con
quelle pupille spiritate? Avete nello sguardo qualcosa dello spavento che si
pinge in volto all'imprudente soprappreso dalla vertigine, mentre s'incurvava
sull'abisso».
«Difatti,»
gli rispos'io mentre il coinquilino si soffiava il naso ed il Dalmata versava
un altro gocciolo d'acqua calda nel bicchiere «difatti ci affacciavamo sulla
peggio voragine la quale possa spalancarsi sotto a' piedi d'un galantuomo. Si
parlava di quegli assunti impossibili che, se non c'entra il miracolo,
conducono difilato alla demenza. La passione ottenebra l'intelletto; fin dove
reggeranno le tue forze? nol sai; dove stanno i confini di natura? nol
discerni; e perseveri. Per esempio... quante volte non dubitai se deridere o
compatire que' pazzi che in buona fede vorrebbero destare qualche scintilla
d'onore, qualch'entusiasmo per la virtù, qualche ombra di dignità nell'animo
àpata e brutale delle plebi? Stolti, chi vi abbada? che vi pensate di
conchiudere? Siete come il misero amante che s'abbatta e s'arrabatti con donna
insensibile: non saxa surdiora nautis».
«A chi credi
parlare?» m'interruppe Don Pietro. «Non t'ho mai recitati de' versi scritti
alcuni anni fa?...».
«Sì, sì, sì;
me ne ricordo a meraviglia».
«Ma questi
signori non li sanno; li dirò per loro. Ehi tavoleggiante, non ti dimenticare
poi quella bibita, sai!...».
«Come!» gridò
la padrona dal banco. «Il signor Tenente non è stato servito?».
E Pietro: «Favorito
sempre; ma chi dà loro l'esempio della noncuranza verso me, chi, se non Lei,
padrona?». Poi rivolto a noi c'imbandì gli sciolti seguenti, de' quali lo
avremmo dispensato volentieri.
NON
SAXA SURDIORA NAUTIS
1.
Poi che t'aggrada di spregiar quantunque
Lo squallor
de la vita in parte asconde;
Poi che in
effigie da la man balzate
Di tacito
scultor, più vita ferve
Che in queste
membra Tue; né il primo io sono
Né l'ultimo
sarò che indarno affatto
Qual ch'e'
sia (stima, amor, cruccio, abominio;)
Mendichi
prosternato alla Tua soglia;
Pietà mi
desti, misera! e perdono
La noncuranza
che a mio danno mostri.
Chi mai più
degna di compianto? Ha senso
La belva, il
tronco, il sasso; e Tu, più scoglio
De' Tuoi
sterili monti, in quel marmoreo
Volto né
affanno, né piacer palesi.
Mira! or
mugghiando con la ripa il flutto
Cozza e
vieppiù che non minacci adempie;
Ed or
vezzeggia ed accarezza il lido
Umile come il
volgo inanzi all'are.
Mira!
talvolta il ciel di gaudio avvampa
Risalutando
il sol; poi, quand'e' parte
Rannuvola la
fronte e lacrimoso
Ha di stelle
il sembiante. E quest'antica
Terra or le
vesti e la sua chioma infiora,
Or disadorna
sta come una estinta.
Perché
affermi o smentisca o spieghi i detti
Ambigui diè
madre natura all'uomo
Mobile il
volto, e pallidezze e pianti
Spontanei e
risa ed il rossor pudico.
L'aspetto
uman certezza reca e indarno
Studia a
domar l'ipocrisia siffatta -
mente ogni
corda che al voler sia schiava.
Che Tu sia
d'altra stirpe? o di qual saldo
Metallo
disarmonico hai le fibre?
Né mai l'ira
o l'amor, né mai cordoglio
Né mai
letizia spetrerà quel seno?
Dimmi e
sonata l'ora che al pentirsi
La via
preclude, lascerai la vita
Come tutta
l'hai corsa, immobil, muta?
Se punto
punto la vaga assomigli
Che il primo
artista sviluppò dal marmo,
D'uopo non
era che nell'astio i numi
Lo
avvincesser sul Caucaso a pastura
Degli
avoltoi, purché solo ei l'amasse.
2.
Ma forse, come quella pace indizia
Ch'è in Te
perfetta, profuga d'Olimpo
Fra noi
T'aggiri? A' servi Tuoi benigna
Deh! sii, ché
muno d'adorarti piega.
La destra, o
numi, l'uom vi porge; e un sacro
Patto antico
rinnova. Oh! se una volta
Monti su
monti in odio al cielo alzammo;
Se al vostro
fulminar cittadi e colti
Sommerse di
petrolio una laguna;
Se fu tiranno
il cielo e l'uom rubello;
Di que' tempi
vestigio or non avanza:
Tal, poi che
a' suoi confini ognun ritorna
Vengon meno
de' popoli i corrucci.
Diè
l'immortalitade a numi il fato,
Immota
sempre; a noi morte e gli affetti.
Sovra le
nubi, oltre le stelle, il regno
Squallido
dello informe a voi soggiace,
Lo spazio e
il tempo che non son nel luogo;
La natura
benigna a noi più vaga
Stanza e una
tempra più gentil concesse:
Nostro è
questo pianeta; è de' mortali
Retaggio; non
v'ha impero altri; ma lieti
Si accorda
ospizio a chi dell'etra scampa,
Che teatro
non è d'opre e d'eventi,
E la
leggiadra umana forma veste.
Le dolcezze
d'amor vosco partimmo;
Fuman
d'incensi e d'olocausti l'are
D'ex voto
adorne; e svelti dalle viscere
Del globo i
marmi eccelsi templi formano;
Come il selvaggio
che imbandisce all'ospite
La propria
figliolanza e la sua femmina
Gli offre,
noi siamo; e scelte umane vittime
O che le
scuri appo l'altar le prostrino,
O che lunghi
anni là ne' chiostri gelidi
Languiscano
sepolte, a voi non mancano.
Né voi già su'
patiboli ed in campo
Grati
all'ospizio, sanguinar sdegnaste.
3.
Donna, Signora, Dea, quell'io di preci
Vergine
ancor, che sol fui visto in chiesa
Civettar con
ragazze o mirar quadri;
Che la
certezza d'un'eterna morte,
Che strema
vita d'esule antepongo,
All'inchinarmi
ad ogni imposta legge;
Quell'io mi
prostro e priego a Te. Che soffra
Non sai, né
intender puoi; Tu che nel petto
Tanta
serenità celeste alberghi!
Volgimi un
guardo che la incerta rotta
M'incuori a
prorseguir; come di marzo
L'alito che
inginestra il mio Vesuvio
Co' baci
l'arso cor di speme infiora;
Porgi il bel
corpo a me quasi spumante
Bicchiere a
stanco peregrin profferto. -
Ch'io sia
predestinato a suscitarti
A nuova e
miglior vita? A dirti: surge
Et ambula? Ch'io sia promesso in sogno
Già da gran
tempo al Tuo core tranquillo,
Tranquillo
come il mar che non tempesta?
Darsi non può
che un tal strumento suono
Non tramandi;
ma l'alma agghiaccia in questi
Freddi, al
par de' torrenti. Oh viènne, dove
Nacqui,
laggiù! Germoglieratti amore
Nel guardo,
nel pensier, nel cor, nel riso.
Così,
tornando primavera, il seme
Sparso da'
venti su' ghiacci invernali
Spunta
dovunque come vago fiore.
4.
Ma no! T'amo qual sei. Bel sasso, oh resta,
Deh resta
sasso! sperda il vento il matto
Voto; io non
so quel che mi chiegga. Amara
Troppo è la
vita degli affetti, e logra
Quel non
trovar mai posa al par degli astri
Che
perlustrano il ciel. Non vo' che pianto
T'annebbî il
guardo sereno. Rimanti
Qual Ti
conobbi. Io che sospiro e bramo
Che ogni brama,
ogni affetto, ogni lusinga,
Grazie alla
morte, il faticarmi cessi,
T'imprecherei
la vita, a Te? No, s'anco
Bastasse un
detto a tràrmiti d'innanzi
Supplichevol
di quanto indarno or chieggo,
Avrei ritegno
a profferirlo. Dura
Quale appresi
ad amarti; e serba quella
Pace
infinita, insolita, diffusa
Sovra ogni
Tua sembianza, e d'infinita
E d'insolita
invidia or fatta segno.
Chi sa se del
cor mio lo specchio ancora
Rifrangerebbe
la mutata immago?
Come la luna
all'ansio globo, schiva
Per que'
brevi anni che vivrò, m'aleggia
Irraggiungibil
meta ognor davanti.
La vita
stanca, perché assegui; e al nudo
Sembra ogni
cencio porpora. Il conteso
Tuo godimento
mi sarà conforto
A mai non
disperar nell'ardua via.
Stolto chi
nel castel fatato, scosse
Dal sonno
antico col predetto bacio
E principessa
e cavalieri e fanti.
Sull'intatto
manier gli antichi dritti
Da
quell'abbraccio inauspicato il tempo
Riprese, e
sasso scatenò da sasso:
Pochi secoli
e al suol giacque ruina!
Pochi soli e
canuti e fiacchi e spenti
Fur principessa
e cavalieri e fanti!
«Sicuro!»
ripresi io che non aveva dato punto retta alla declamazione. «Non c'è peggio
d'amar l'insensibile. Soffri, e non ti si abbada o si scherza col tuo dolore e si
scandaglia per giuoco la piaga; parli, e si pensa ad altro e non ti si risponde
o si pongono in burla que' tuoi discorsi; deliri, e si passa oltre o si
ascoltano sorridendo quei tuoi vaneggiamenti come sogliamo conceder l'orecchio
a' vaniloquî d'un demente. Ed ogni tuo dire e fare e soffrire è indarno: non
perché tu sia persona ingrata od altri anteposto, anzi perché ami un sasso. Che
puoi sperare dalla pietra? Non c'è peggio dello spossarsi inconcludentemente
così, quando la forza d'inerzia che t'affacchini a scuotere prevale sugli
sforzi tuoi. La pugna è piccolo travaglio, la disfatta è lieve cordoglio quando
hai avuto che fare con un avversario sensibile, al quale hai potuto aggiustar
colpi anche tu, che s'è travagliato anch'esso, col quale potrai riappiccarla.
Ma fiaccarsi le corna contro un muraglione sordo alla tua bestemmia, inconscio
del danno che t'arreca o che gli arrechi! Rappresentare il simillimo di quel
babbuassaccio ch'è il mare, e che da un novero non ben determinato di millenni
batte e sbatte e ribatte le sponde senza guadagnare un pollice di spazio
sull'arena, senza ammollire o piegare lo scoglio!...».
«La più
crudele imprecazione del nostro volgo» annotò il Dalmata «è questa: che
possa vegnì innamorao d'un saxo».
«A chi
credono parlare?» commentò De Mulieribus. «Quel che voi dite in metafora, io
l'ho sperimentato in effetti: né so ripensarvi senza sgomento immenso,
infinito. Ve' i curiosi! peggio che femminette: voglion sapere e come e dove e
quando. Sia pure, a' vostri comandi...».
«Altri versi,
Pietro?».
«Prosa,
Quattr'Asterischi, prosa! Narrerò da cronista fedele, e poi? Loro
conchiuderanno con una risataccia; ed io? cantando il duol si disacerba. Bottega,
portami poi quella bibita con tutti i comodi, che non c'è fretta! Sarà un'ora
che l'ho chiesta! Eccomi a loro, signori».
|