XII
AMPLESSO DI BACCANTE
Le marbre me
va mieux que l'impure Phryné
Chez qui les
affamés vont chercher leur pâture,
Qui fait
passer la rue au travers de son lit
Et qui n'a
pas le temps de nouer sa ceinture
Entre l'amant
du jour et celui de la nuit.
A. DE MUSSET
Voi due
Napoletani conoscerete certo personalmente, e Lei Dalmata almeno di fama lo
scultore Tito Angelini, quell'omaccione alto un palmo più di me che pure farei
la mia figura in un reggimento di Granatieri? Sì, eh? Benone, ed io lo conosco
intimamente. Da un pezzo Tito Angelini, ogni qual volta io l'incontrava,
imponeva al cocchiere di fermare la sua carrozzella e richiedeva ch'io
promettessi d'andare quanto prima a visitarlo nello Studio, avendo egli
qualcosa da mostrarmi. Ed io prometteva, mostrandomene desiderosissimo com'era
in fatti e poi non attendeva. Quel benedetto Studio sta discosto un tre miglia
buone da casa mia; la strada è assolatissima, esso studio è umidissimo, si
giunge sudatissimi e ci si buscano de' reumatismi co' fiocchi: ora la mia
attrazione verso i capilavori d'Arte la cede di molto alla mia avversione pe'
reumatismi. Un giorno finalmente, Don Tito mi fece incarrozzare per forza,
malgrado le mie proteste su' dritti inviolabili della libertà personale, e mi
rapì seco. Giungemmo all'officina, mi spinse nello Studio come mi aveva spinto
nella vettura, cambiò gli abiti da città con gli abiti da lavoro e mi mostrò
parecchi marmi: ed io ad ammirare. C'era una cotal Eva seduta fra le rose col
pomo in mano e col serpente all'orecchio: ammirai; ma soprattutto che quella
bestiaccia non incutesse alcun timore ad una del sesso gentile che suol farsi
venire le convulsioni per un ragno od un topolino. C'era non so più che angelo
il quale faceva non so più che: ammirai; ma soprattutto che il cosiddetto primo
Municipio di Italia avesse stomaco di ordinare degli angeli colossali di marmo
in pieno diabolico secolo XIX. Angelini si rimise a limare un busto femminile:
era una sconcia vecchiarda tutta ossa prominenti e carni penzolanti; ammirai,
ma più dell'opera dell'artista il coraggio della femmina che voleva esser
tramandata a' posteri in tutta la sua laidezza da befana. Nell'andar su e giù
m'accorsi d'un gran lavoro che stava in un cantuccio ricoperto da un fitto velo
color di rosa a più doppi. «E qui sotto cosa c'è?».
Lo scultore
ingolfato nel suo lavoro, mi gridò di lontano. «È la replica della mia Baccante
che conduco in marmo per Vittorio Emanuele. Se vuoi vederla, alza pure il velo.
Non è ancor terminata. Ci ho messa quanta scienza della bellezza femminile ho
acquistata in que' pochi anni di vita; e poi ho avuto la fortuna di trovare una
modella così ben formata come di rado incontra fra coteste sciupatissime
femmine. Meglio ancora, la Tal di Tale, che tu conosci, e della quale ti
sospetto un pochino invaghito, ha consentito di starmi a mossa per la testa».
Io m'accinsi
ad alzar piano piano il velo, quasi temendo che la Baccante non se
n'accorgesse; davvero, con una trepidanza, con un palpito tutto nuovo, come
accada a chi si aspetta a meraviglioso spettacolo, come accadde forse a Gige
quando attendeva che la Regina emergesse dal bagno. Aveva sentito parlar tanto
del nuovo capolavoro dell'Angelini, che quasi avrei bramato di trovarlo al
disotto della fama, per quella specie d'innata antipatia che gli uomini volgari
soglion provare per ogni alta cosa, e che ci fa lieti dell'umiliazione d'ogni
giusto orgoglio. Né vidi mai la più gentil figura di questa ebbra, ancora non
più che a mezzo sprigionata dal marmo. Certo non era delle vergini savie, ma
vergine era; ed in fatto di verginità soprattutto, bisogna sapersi contentarsi
di quel che si trova: manducate quae apponuntur vobis, ammonisce la
scrittura cosiddetta sacra. E' mi sembrava che quel bel corpo nudo arrossisse
ingenuamente, e tremasse di lieve brivido. Esso mi ricordava qualche ritrosa
giovanetta che quando in una brigata di amici strettissimi ha mezzo per
condiscendenza e mezzo per braveria sorbillato un paio di bicchierini, sente
infiammarsi il volto, e trova tanta leggiadria di confidenti atteggiamenti,
tanta pudica arditezza di motti, di scherzi, di cachinni, da parer trasformata
in una delle antiche beate abitatrici dell'Olimpo, franche da' riguardi e da'
pregiudizii del mondo nostro sciocco. Quel sorriso sulle labbra allettatrici
della Baccante, labbra molli di vino, quel porgermi così la coppa con gli occhi
socchiusi, mi vinsero. Invano io palpava le sue fredde membra per convincermi
ch'erano ben sasso: i sensi mi tradivano ed io m'illudeva che il polso
acquistasse moto nella mia stretta, e che a guardarlo fiso quel volto si
colorasse.
Mi riscossi
alla voce dell'Angelini, come un uomo immerso nello studio, si ridesta per uno
scoppio di tuono. Egli mi ragionava della statua, ed io non sapeva che
balbettargli di rimando; mi offrì un bicchier di vino, con quella smisurata
mano creatrice, che certo nulla avea di comune con la piccoletta e magrina
della mia Baccante: io lo trangugiai d'un fiato; e poco dopo mi accommiatai, affannoso,
turbato, e credeva trovarmi in un nuovo mondo vedendomi intorno non più le
sublimi nudità che aveva testè lasciate, ma uomini col cappello di castoro e
femmine crinolinigere. Ah quanto è brutto l'uscir da una glittoteca veramente
bella e quando l'animo s'è veramente commosso: che divario: che caduta!
L'occhio avvezzo alle moli colossali, alle proporzioni perfette, alla composta
immobilità, al casto nudo, a quell'uniforme candore del marmo, si offende
davvero nel veder correre all'impazzata caterve di pigmei, più o men difformi,
oscenamente ricoperti di fogge bizzarre, e poi la fronte d'un colore, i capelli
d'un altro colore, gli occhi d'un terzo colore, la punta del naso d'un quarto
colore! che pasticcio di colori! Gli uomini ti sembrano tante bambole in cera.
«Cos'hai?» mi
chiedevano i conoscenti (amici non so d'averne).
Ed io:
«Nulla!». Come si fa a confessarsi innamorati d'un sasso scolpito? Vi
riderebbero sul muso. Il mondo v'accorda il dritto di rovinarvi ed immiserirvi
per una qualunque stupida bertuccia, per qualsiasi sgualdrina si espone in
vendita sul palcoscenico ed usurpa il titolo d'artista come quello di
signorina; ma non sareste che un buffone se conveniste d'esser pallido e smunto
per una figliuola immortale dell'Arte.
Io mi macerava,
e taceva. La notte mi ridestava sognando che quel braccio bianchissimo mi
avvinghiava il collo e avrei giurato di sentirmi rovesciar sull'omero il vino
dalla coppa. Allo studio di Angelini non m'avventurava di tornare, anzi aveva
preso a veder lui di mal occhi; ed in certi momenti, quando me lo figurava lì
inteso alla mia donna, occupato a carezzarla, a farla più bella ancora, a
toglierle, com'e' m'avea detto di voler fare, fin quella pelle di tigre solo
ammanto che lievemente ne coprisse le secrete bellezze, io sentiva di odiarlo
dal profondo dell'animo riboccante di gelosia. Un giorno mi trascinavo a far
visita a quella Tal di Tale ch'era stata a mossa per la testa della Baccante e
della quale io prima (perché negarlo?) era un tantino incapricciato. Io non
seppi capire né come avessi mai potuto trovarla graziosa; né come da lei, per
quanto l'artista l'idealizzasse, fosse umanamente possibile il cavare un tanto
tipo di leggiadria. Un'altra volta mi fu presentata la femmina che a detta
dell'Angelini aveva dato il suo corpo alla Baccante mia. santi numi,
che differenza! Una dozzina di giovani pittori si riunivano ogni sera in un
bugigattolo per esercitarsi a lira e soldo nello studio del nudo, e la modella
era quella sera appunto lei: sicché potetti a mio bell'agio paragonarla,
confrontarla con l'immagine che m'albergava nella mente, viva. Era una brutta
caricatura della mia diletta: quei fianchi, quel petto, quelle braccia, quelle
spalle sembravano più fatti per disgustare dalla voluttà, che per allettare; e
la nudità santa nella statua era oscena nella donna.
Solo quando
riseppi che l'Angelini stava sulle mosse per condurre la Baccante a Torino e
cederla al Re in cambio d'una buona sommetta di denaro, volli rivederla, e mi
recai, con alcuni parecchi allo studio. E mentre s'intrattenevano in un'altra
stanza con l'Angelini, io rimaso solo con essa Baccante, non valsi a frenar più
l'impeto selvaggio e baciai furiosamente quelle labbra. Né saprei dirvi quale
acerba voluttà fosse in que' baci freddi, non corrisposti, quasi dati ad una
estinta; baci i quali mi riempivano la bocca di sottilissima salsa polvere di
marmo che ha il sapore stesso delle lagrime. Ma d'un tratto mi colse come una
vertigine: sentii riscaldarsi e palpitare la pietra, le strinsi le braccia al
collo, sentii quel suo braccio bianchissimo avvinghiarmi, e scorrermi giù per
la fronte, quasi sudor freddo, il liquore che traboccava dalla coppa, e caddi
privo di sentimento.
Né dopo
potetti per lunga pezza sopportare l'odore del vino; ed anche ora (fatevelo
dire da quest'ubbriacone di Quattr'Asterischi) non soglio più berne che per
cortesia e quanto meno posso, allorché per esempio si tratta di un brindisi. Né
dopo ho mai sostenuto di riveder la Baccante, ancorché fossi più volte nella
Reggia di Torino. Nel MDCCCLXIV, la sera del ballo che riuscì a male perché la
plebe tumultuava e non ci fu un uomo che la rimettesse al posto suo con una
lezioncina per bene; in quella sera, mi parve di scorgerla in fondo ad una sala
splendidamente addobbata dove sorgeva l'altare del Buffet. Le si
affaccendava intorno gentaglia occupata a divorare ostriche e fagiani: sul
piedestallo piramideggiavano mucchi di piatti e bottiglie vuote. Io
m'allontanai subito dalla stanza senza prender nulla, sapendo per prova quanto
sia pericoloso il rivedere persona altre volte amata, e ricordando i versi d'un
indulgente vescovo francese:
Quand he revis ce que j'ai
tant aimé
Peu s'en lallut que mon leu
rallumé
N'en fit l'amour en mon âme
renaitre,
Et que mon coeur, autrefois
son captif,
Ne ressemblât l'esclave
fugitif,
A qui le sort fait
rencontrer son maitre.
A poco a poco son giunto a rintuzzare la mia
fiamma; a riguardare quella infelice statua, come uno che avesse amata la
duchessa Du Barry, quand'era una scostumata crestaia (se tant'è che sia stata
mai costumata), poteva poi considerarla quando fu divenuta favorita di Ludovico
XV. Anzi ci ho schiccherato sopra una lunga filastrocca in versi sciolti (caro
Quattr'Asterischi tu sai il mio debole per gli sciolti! anzi, ricordami alla
prima tappa che t'ho da far vedere certe cosucce raccozzate in questi giorni)
una filatessa che cominciava così:
Felice me che già ti vidi in altro
Loco, quando superba alzavi il capo
D'età, di cure, e di vergogne scarco.
E Don Tito
Angelini? Ho io bisogno di soggiungere che non nutro più vestigio della stolta
gelosia? Pure, non ho mai osato confidargli il perché di quella mia transitoria
freddezza, sicché in fondo all'animo e' deve reputarmi tuttora uomo capriccioso
e lunatico. Poco male! ma come dirgli in faccia, cinicamente, che ho tentato di
sedurgli una figliuola? perderebbe ogni fiducia in me, diventerebbe peggio
d'una mamma la quale inframmette subito le sue orecchiacce quando barzelletti
con una di quelle bambole vestite secondo l'ultimo figurino che una volta ella
partorì a suo marito. L'Angelini non mi permetterebbe più la menoma confidenza
con le sue statue. E quantunque le altre non abbiano sull'animo mio il potere
della Baccante, pure (e chi nol sa?) graziose son tutte.
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