XIII
AVAMPOSTI
E BIVACCO
Nil securius est malo poeta
MART. XII 63. 13
Non
moltissimi giorni dopo, io stava di guardia agli avamposti con mezza compagnia,
ch'è una guardia faticosa, ma divertita; s'era dormito poco e male la notte, ed
ora ci tribolava la fame internamente ed un sole infiammato esternamente. Per
non saper che fare m'incamminai di sentinella in sentinella, finché giunsi
all'ultima, quella più spinta, all'estremo d'un poggetto, la quale m'indicò
sulla cima d'un colle rimpetto fuori del tiro de' nostri pessimi fucili, le
scolte nemiche. La noia di vedere le uniformi bianche senza poterci
accapigliare, lo scarso mio sonno, quel sole, mi fecero venire a sbadigliare
peggio d'un ramarro. Nello stirar le membra mi sentii non so che di duro sul
petto: era il ventaglio rubato alla Merope e poi dimenticato ma che mi si
ricordava opportunamente; lo adoperai subito per procacciarmi un po' di
refrigerio.
Ben presto ci accorgemmo che la fazione caiserlicca
avea dato l'allarme e che un uffizialotto ed un sottuffizialuccio accorsi ci
esaminavano col cannocchiale; perché godessero meglio lo spettacolo mi misi a
passeggiare avanti e indietro squadernando e richiudendo il ventaglio, come
avrebbe potuto farlo quella civettuola della mia Merope in un salotto. Il
lanzichenecco spianò il fucile e mi prese di mira; ma quantunque il suo fucile
fosse di portata maggiore de' nostri, non credo che mi avrebbe potuto toccare;
del resto non mi conveniva di muovermi e non mi mossi, aspettando; però l'uffizialotto
caiserlicco gli fece rialzare la canna: risposi all'atto cortese salutando col
ventaglio, egli fece altrettanto col berretto e se n'andò pei fatti suoi.
Probabilmente non ci rivredemo più mai.
Quando
piacque allo smemorato nostro aiutante maggiore, un'altra compagnia venne a
rilevarci con la solita fiaccona; e mi fu rimessa una letterina anonima di mano
incognita: essa mi annunziava che una persona la quale aveva bisogno di
parlarmi, mi avrebbe aspettato nella tal casa del villaggio dov'era il Comando
del mio e di parecchi altri reggimenti. Ritenni l'invito come un'edizione fuori
stagione del pesce d'Aprile, tentata da qualche compagno e pensai fra me e me:
«Non me l'accoccherai».
Giungemmo in
paese cascanti di sonno e di fame. Facemmo i fasci d'arme sulla piazza e poi ci
venne raccomandato di non allontanarci troppo e d'esser sempre all'erta, perché
da un momento all'altro poteva trasmettersi l'ordine di partenza. «Bono!»
pensai «pare che il riposare un pochetto come va, ci venga esplicitamente vietato,
proviamoci almanco a far colezione». Ma non durai fatica ad accorgermi che era
esorbitantemente temerario nelle mie pretese. Viste le posizioni nostre e del
nemico gli era evidente che nelle ventiquattr'ore dovevamo venir alle mani:
solo, era incerto ancora chi attaccherebbe se noi o lui; ora è tradizione
gloriosa, è una delle più care consuetudini dell'esercito italiano che il
soldato non possa venir condotto al fuoco se non è digiuno almeno da un
quarantott'ore, tanto per trovarsi più svelto e robusto. Da Novara in poi l'è
sempre andata a questo modo; l'andrà sempre così, perché il dirizzone è preso,
e perché se i fornitori rubano a più non posso, anche dove e quando rischiano
d'esser fucilati, figuratevi poi in Italia dove non so se la mollezza o la complicità
di chi dovrebbe reprimerli, assicura loro l'impunità. Insomma non v'è legge
d'onore, non v'è prescrizione del regolamento di disciplina, non v'è dettame
dell'arte bellica, che venga nell'esercito nostro eseguito con la scrupolosità
con cui si osserva cotesto rigoroso digiuno istituito dalle sussistenze
militari per ogni vigilia ed antivigilia di quelle tali feste di doppio
precetto volgarmente addimandate battaglie.
Giacché
bisognava digiunare, trovai un posticino all'ombra, mi scinsi la sciabla, mi
ravvolsi nel mantello e cercai di addormentarmi, tanto per ingannar la fame; i
miei sonni non potevano andar vuoti di sogni; né questi della immagine amica di
Merope bella.
Mi pareva che
nel buio fitto d'una notte, la mi fuggisse dinanzi in veste succintissima,
tutta ristretta nello scialle, tutta chiusa nel velo: ma fidatevi all'occhio
dell'amante quando si tratta di riconoscer la sua donna. Il cupo velluto delle
vesti, l'imbacuccatura nello scialle, il fitto zendale, l'impeto delle mosse,
la densità delle tenebre notturne, il barbaglio delle fiammelle del gasse che
incontravamo nella rapida corsa, non mi occultavano un suo gesto, non
m'inforsavano sulla identità sua. In qual città e da quanto tempo le tenessi
dietro o dove l'avessi incontrata, non so: la seguiva di vicoletto in
vicoletto, di straducola in istraducola, di piazzuola in piazzuola, in ogni sua
giravolta, ricalcando col piede le sue pedate, spingendomela innanzi come il
cacciatore si spinge innanzi la preda. Ella si rivolgeva di tempo in tempo, e
vedendomi così presso accelerava vieppiù il rapido passo; ed io faceva
altrettanto, ma ned ella giungeva a dileguarsi, ned io ad afferrarla, sicché si
rimaneva alla stessa distanza sempre. Ella sembrava sgomenta: io ne sentiva
l'anelito grave, affannoso, come del gladiatore che vinto nella fuga, già si
sente sopra il gladio del competitore. Ma perché fuggirmi ella in tal guisa?
perché inseguirla io? Quali sospetti o quali diffidenze erano insorte fra di
noi? Forse che io temeva ch'ella recasse ad altri quelle membra, desiderate
ministre di voluttà? forse che ella fuggiva qualche subitanea e motivata mia
collera?
Così
sboccammo sulla piazza del Duomo: la luna cospergeva di luce quella sterminata
mole marmorea, e l'inargentava dal sommo all'imo, come un sudario involve tutto
uno spettro. La intiera piazza brulla, deserta, si sciorinava innanzi a noi
come un mare placido. La donna si diè a traversarla: ed io, se qualcuno ci
avessi visti, sarei stato creduto l'ombra del suo corpo. Ella s'indirizzava
verso la chiesa come uno schifo s'indirizza verso il porto che gli stende
incontro ambedue le braccia de' suoi moli; e raggiunta che l'ebbe, ed ascesa la
gradinata, s'ingolfò nella porta maggiore e disparve.
Anch'io
m'introdussi sotto le vaste navate della cattedrale, ma in quelle tenebre che
succedevano al chiaro di luna, la perdetti di vista: gli occhi la cercavano
indarno mentre io girava su e giù rifrugando ogni angolo, ogni cantuccio del
tempio. Cantavano il Miserere, deprecavano con quella spaventosa cerimonia
notturna l'ira supposta del loro favoloso Iddio. L'orrenda preghiera, che io
direi bestemmia, echeggiava terribilmente ripercossa da quelle ampie navate e
piombava più crudele su quei petti stessi che l'avevano esalata: Miserere
mei deus, secundum magnam misericordiam tuam.
Io però son
troppo avvezzo a' ripetii delle donnicciuole perché lo spettacolo mi turbasse
un attimo solo ne' miei propositi. Che altri implori dal fato di risparmiargli
il fiele dopo gustato il dolce; che altri si lasci da vane paure atterrire dal
godimento possibile: io no. Io cercava qui la mia donna, colei che doveva darmi
la piccola parte di felicità predestinata alla mia vita e che per istolti
scrupoli si negava di somministrarmela. Io l'aveva inseguita fino in quel luogo
d'asilo e l'avrei strappata dal confessionile, divelta dall'altare, per
richiamarla al più dolce e più sacro dovere di natura: amar chi t'ama. Ma
dove s'era mai dunque appiattata? Infinite erano le astanti, e tutte
genuflesse, tutte in veste bruna e con la fronte piegata e col velo calato.
Ogni bocca ruttava singhiozzi e preghiere e l'organo profondeva un'armonia
fragorosa e come il rovaio sbatte le fragili canne, così appunto prosternava
col soffio quelle turbe servili e tremanti che gridavano: Et secundum
multitudinem miserationum tuarum: dele iniquitatem meam.
Gli sproni
miei risuonavano su quel pavimento fatto di tombe e vuoto sotto; la mia sciabla
urtava gli angoli de' pilastri. Era un pezzo e rifrugava invano la chiesa; ma
finalmente, sì, eccola! questa ch'è lì ginocchioni, non puole esser altra che
lei. Riconosco l'atteggiamento; le vesti son quelle: l'occhio dell'amore non
s'inganna. S'è posta qui innanzi per isfuggirmi, perché sa ch'io so le sue
abitudini e che avrei cominciato dal rovistare tutti i luoghi bui e solitari.
Merope mia, ti ho colta! Me le inginocchiai allato, mentre sul capo mio rombava
come un brontolar di tuono il versetto: Amplius lava me ab iniquitate mea,
et a peccato meo munda me.
E cominciai a
dirle, a quella Merope velata, quanto io l'amassi ed a chiederle mercede, ad
implorarne il dolce guiderdone d'amore. L'ammoniva che per lei, cosa salda, non
c'era quella scusa del mostrarsi inesorabile che si ammetteva pel suo dio, cioè
il non esistere. Se quelle turbe lì deprecavano sciagure, supplicavano pace, io
offriva a lei di soffrir qualunque massimo dolore purché... purché prima io me
l'avessi goduta. Oh sì, miserere di me, buona Merope! goderti a qualunque o
patto o costo! goderti ed avvenga che può, vuole o sa! Ed ella ascoltava, senza
consentire, ma senza ritrarsi. Finch'io le chiesi lì, tosto, un bacio; ed alzai
il velo per darglielo. Allora la testa lenta lenta mi si rivolse, senza carne,
senza cute, un cranio; due orbite vuote si fissarono sugli occhi miei; due
braccia ossee afferrarono e contennero le mie braccia; e mentre io cercava
svincolarmi, sentii due fetide mascelle comprimermi la bocca. Ed il coro
cantava intorno a me: Quoniam iniquitatem meam ego cognosco et peccatum meum
contra me est semper.
Mi svegliai:
c'era un bel sole ed io stava all'aria aperta. Non s'udiva altra voce che della
vivandiera la quale gironzava offrendo acquavite a' soldati; e chi mi aveva
afferrate le braccia e mi scuoteva era Pietro De Mulieribus, sottotenente nella
mia stessa compagnia, detto da tutti galantuomo e sedicente poeta. Io lo
conosco da otto anni e non saprei persona che meglio incarnasse l'archetipo
dell'amico vero. Non ha mai dimenticato di restituirmi que' bezzi ch'io non gli
ho prestati; non ha mai dato opera a sedurre quella moglie ch'io non posseggo;
né mi ha truffato in quelle partite a tre sette ch'io non ho mai giocate seco.
L'incontrai la prima volta in un vagone di seconda classe, fuori d'Italia:
converrebbe avere sperimentato che voglia dire lo star mesi e mesi senza udire
i cari suoni della madrelingua nostra per comprendere come due possano sedere
alla tavola rotonda dello Struzzo in Norimberga estranei affatto ed alzarsi
amici dopo un paio d'ore e cinque o sei bottiglie di Reno. Ed amici siamo
perdurati attraverso infinite vicende. Di tempo in tempo secondo che la fortuna
o forse anche un po' di pazzia ci balestra, ci troviamo a faccia a faccia or
qua or là, quando in tunica da soldato, quando fra gli scaffali di polverosa
biblioteca, quando e più spesso in uno de' centomila siti dove non si capita né
per amor di patria né per amor di scienza. «Oh se' tu qua?». «Che buon vento?»
e si rappicca il dialogo interrotto certo da mesi, forse da anni. «La facciamo
una partitina a scacchi?». «Una no, bello; due sì» ed eccoci trasformati in
taciturni Cancellieri dello Scacchiere. E così campiamo qualche settimana
rimembrando, almanaccando, filosofando, scaccheggiando; e poi, una stretta di
mano,
Io
vêr Gerusalem, tu vêr l'Egitto,
a buon rivederci. E non ci separammo senza desiderio, mai;
e non ci rivedemmo mai senza giubilo: lo starsene alla larga è una gran
sicurezza per la durata delle amicizie.
Ma la norma
per cui dura il mondo, vuole che ogni cosa rinchiuda un germe dissolutivo, il
quale o prima o poi l'annichila; ed eccomi pronto a spiegarvi quello che
affretterà l'ora fatale della nostra bella amicizia, degna piuttosto de' secoli
eroici che di quest'epoca corrotta, degenere. Pietro ha un difetto
imperdonabile: si crede, o almeno vuol che lo si creda, o se non altro vuol che
si creda ch'egli si crede poeta. Guai a capitargli in camera, dove si studia
d'attirarti adoprando ingannevoli lusinghe! guai! T'inchioda in un seggiolone,
ti preclude ogni fuga, e... e... e que' suoi versi (non dico di no, io) saran
fior di roba; ma sentirli venir giù come una pioggerella fitta per una e due e
tre ore... l'è supplizio da forsennare, sapete? e poi! udirli oggi, bene! - e
udirli nuovamente domani per ammirare dei mutamenti, ahimè! - e udirli un'altra
volta dopo l'anno per giudicare se li ha ben rifatti, ohi! - e udirli una
quintadecima fiata dopo un lustro per verificare se fan sempre lo stesso
effetto, uff! - Invano tossisci e sbadigli e sputi e ti soffi il naso e ti
divincoli! Inesorabile come l'avvoltoio del Caucaso, Pietro non isghermisce la
sua preda:
O
non vede o non cura o non s'avvede
legge,
leggicchia, rilegge: «Non voglio tediarti, solo un'altra poesiuccia, e basterà
per oggi; il resto, a domani. Veggo che sei un po' stanco: questa pagina e ti
lascio in libertà; ci combineremo poi qualche altra volta. Se non ti spiace,
pochi altri versi: non ti pentirai di ascoltarli. Due minuti ed ho finito. To',
questo componimento era il migliore: hai da sentirlo e, parola d'onore, fo
punto». E così promettendo sempre d'ultimare que' tormenti, via di carriera! Ed
io, quantunque oltrepassino ogni limite d'umana sofferenza, rassegnatamente li
ho sofferti, alla Cleopatra, deliberata morte fierocior, senz'arrischiar
mai un appunto, un dubbio, un biasimo a scanso d'inutili ed interminabili discussioni.
Quanto questa rassegnazione m'abbia a costare, ne sia giudice chiunque conosce
la mia intolleranza d'ogni nullità poetica... a cominciar dalla mia propria.
Ed ora anche
lì nella milizia su quella piazzuola dov'io dormicchiava nella polvere aspettando
il segnale per marciare incontro alla morte, quel bravo ragazzaccio veniva a
rompermi il sonno ed il capo con le sue velleità poetiche: cosa da mandarlo al
diavolo, se vi fosse un diavolo; o da pregare che dio lo confonda, se esistesse
un dio! Veniva a pregarmi di un giudizio sincero, schietto, leale intorno
alcuni suoi deboli prodotti poetici, ch'egli tempo prima aveva indirizzati a
non so quale sua Signora e Padrona: era un lavoruccio tenuto sino allora
gelosamente occulto a tutti, e solo a me per via della grande amicizia e delle
circostanze straordinarie, lo manifestava. Quell'omo lì aveva giurato di farmi
bestemmiar finanche la guerra! e veramente era venuto al campo io preparato e
deliberato a soffrir fame, sete, stenti, vilipendi, malattie e ferite ed anche
la morte: ma non i suoi versi; e se avessi potuto prevederli il mio zelo
bellicoso si sarebbe raffreddato se non estinto, gnorsì!
«Per
dedicarle questi pochissimi versi, fra' tanti scarabocchiati per lei, m'è
d'uopo nascondere il mio nome ed il suo. Tu stupirai ch'io osi por mano a'
metri lirici. Ma che? ci ha versi e versi: alcuni scritti dal poeta pel secolo,
altri per sé. I primi sono splendide gesta, da pochissimi, e la fama ne dura quanto
il moto lontana; i secondi sfuggono involontariamente da' petti commossi,
come un sospiro. Questi miei appartengono all'ultima classe: poco male adunque
se rimarranno noncurati o se il vento li disperderà, come avviene de' sospiri
appunto. Alla Signora e Padrona mia ricorderanno nel viaggio, che le auguro
felice; nella villeggiatura, che le desidero lieta; tale che da gran tempo è
suo e che non sa e che non vuole rassegnarsi a non poterlo esser sempre. Pur
ch'ella non dubiti mai del suo, oso dirlo, più sincero amico!».
Credereste
ch'io ebbi la dabbenaggine di commuovermi al sentirlo parlar così, tutto
agitato, co' lacrimoni agli occhi ed uno stracciafoglio in mano? Amante, sapevo
compatire ai ridicoli che dà l'amore. Mi proffersi pronto ad ascoltarlo. Ned
egli se lo fè dir due volte e mi mitragliò de' versucciacci che volendo potrete
leggere qui trascritti:
CORAGGIO
Il derelitto cuore;
E nuovamente a ridere
Or mi comincia amore.
Vò incontro a nuovi affanni,
Sprezzante, ancor che memore,
De' miei passati danni.
Nella mischia i guerrieri,
Poscia che a stento incolumi
N'emersero pur ieri.
PARTENZA
Tra 'l fremito del mar:
Né puoi veder la candida
Pezzuola sventolar;
Pormi la man sul cor;
Né sculto in petto leggermi
L'alto, infinito amor.
NULLA
CHIEDE
Non T'ho chiesto né un bacio, né un guardo,
Non T'ho detto un sol detto d'amor.
Le parole son
suono bugiardo!
Col silenzio
T'ho aperto il mio cor.
AVVENIRE
T'amo al par della patria, ad un modo:
Senza pianto codardo sul ciglio.
Notte e giorno incalzarti non godo
Con preghiere, con guardi e sospir.
Ma per saldo e maturo consiglio
T'amo, come una legge giurata,
Come s'ama l'insegna spiegata
Che si segue sul campo a morir.
Come altero pel rigido esiglio
Il tribuno sconfitto si parte,
Partirommi, o leggiadra, da Te!
Senza pianto codardo sul ciglio
E col labbro atteggiato al sorriso,
Ma coll'animo infranto e diviso
Ma perduta ogni speme, ogni fé!
VENDEMMIA
Tra foglia e foglia qui,
Verran della vendemmia
Tra poco i canti e il giubilo,
Tra poco i lieti dì.
Teco, amor mio vagar!
E quando in ciel sfavillano
Di notte cento fiaccole
Ebro al Tuo fianco star!
MOSCA
Quel vino che suggi, t'inebria e t'attosca;
Tu muori
aspramente, turbandomi, o mosca
Ingorda, il
diletto ch'io provo nel ber.
Così,
sventurato, bramando costei
Vò incontro ad
affanni, turbando anch'a lei
Quell'ore
serene che i fati le dier.
IMMUTABILE
Ben dici, e indarno. Depor non posso
L'antico
affetto come un vecchio guanto:
Ben puoi dall'occhio strapparmi il pianto,
Ma quel sogno
non puoi trarmi dal cor.
Mi scende in petto la tua rampogna
Qual pioggia
fra l'arena, e nulla giova.
Eco non desta: regnar vi trova
Come il
silenzio nel deserto, Amor.
BERSAGLIO
Bruna pupilla che mi suscitasti
D'amor nel
petto il desiato incanto.
Qual dotta e
pronta man da' bianchi tasti
Sprigiona
l'armonia che induce al pianto;
Bruna pupilla, alla memoria mia
Presente
sempre, al par delle canzoni
Che ne' be'
giorni dell'infanzia, han pia
Forza di
tranquillarci co' lor suoni;
Bruna pupilla! se mai giorno spunti
Che in te figger
potrò l'ardente bocca,
Della vita
avrò i termini raggiunti,
Come la palla
che il bersaglio tocca.
LAGO
Sei come un'acqua limpida di lago
Che la
maggior tempesta increspa appena,
E in grembo a
cui di rimirarsi è vago
Chi provvido
destin sul lido mena.
Nudrita da purissime sorgenti,
Nascosa in
cima della vetta aprica,
Non la
infanga la piena de' torrenti,
Non la
costringe umana opra nimica.
Potess'io come il sole alto levarmi
Bello di
gloria e di splendor l'aspetto!
E nel gelido
Tuo grembo specchiarmi
E co' raggi
d'amor scaldarti il petto.
BARCAIOLA
La succinta barcaiola:
La navicella trascorre sola
L'onda del lago col suo solco lento.
Solchi il pelago del mondo;
Implorando che un soffio secondo
T'adduca ad un sepolcro riposato.
CEFALALGIA
Muove la terra per lo spazio, in tanta
Folla d'astri
s'aggira, e in man l'azzurra
Coppa del mar
leggiadramente reca,
Che forse un
assetato astro lontano
Del cielo in
qualche scuro angolo aspetta;
Ned una
stilla trabocca. E Tu muovi
Alla mia
volta, con la tazza colma
Del più amaro
caffè; scherzando, prima
Di darla, un
sorso del licor libasti. -
Ove il labbro
apponesti, il labbro apposi.
SOGNI
Veder vorrei su
quella bruna vetta
Trasparir dal
fogliame una casetta;
All'infelice
Sognar s'addice.
E trasparir
da' cortinaggi in quella
Stanza romita
una gentil donzella;
All'infelice
Sognar non lice?
E trasparir
dagli occhi a quella vaga
Ch'ella
d'amarmi e di null'altro è paga.
All'infelice
Sognar disdice.
INDARNO
Dallo scoglio infecondo non suscita
Mai la piova
né un'erba, né un fior;
Nel tuo petto
le tante mie lacrime
Non han desta
scintilla d'amor.
DISPERAZIONE
Detto me l'hai tu stessa:
Pur di sperar non cessa
Costante il petto mio.
Tu 'l dici e formi un riso;
Io noto il tuo sorriso
E la parola oblio.
FIUME
A trattenersi qui;
Qui tutto è pace e giubilo
O fiume melancolico
Perché fuggir così?
Geme in lontano mar:
Amor m'incalza, e vommene
In quell'algoso ed algido
Amplesso a riposar».
LA
ROSA
Spiccata dal verde cespuglio fragrante
Concessa alle braccia di cupido amante
Forse sprezzante, fors'anco ignara,
QUEL
CHE SO
So che t'ho resa misera
So che ti costo lacrime
Ma t'amo tanto!
So che fra noi s'innalzano
Saldi, infiniti ostacoli,
Ma t'amo tanto!
So che t'appresto assenzio
Quando a sperar persevero
Ma t'amo tanto!
Ma so che a me benevola,
Tu sai, né punto biasimi
Ch'io t'ami tanto!
LETTERE
Dolci reliquie di tanto amor;
Pur sempre in mano prendovi ancor.
Per voi m'inebbrio quasi d'accanto
L'avessi; e i mille baci vi dò,
Che alla sua destra, che sul suo guanto,
L'ingordo labbro figger non può!
Addii che lievi rendea la spen!
Quant'ho perduto comprendo appien!
Che s'oda in chiesa quel sì fatal,
Solo non posi più sul guancial;
Ancor gradisca fiori da me;
Mentr'ell'agucchia, sederle al piè;
Felice è quanto sperar si può;
Ultimo un bacio, donarle io vo!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
«Che te ne
pare?» disse quel boia conchiudendo la lettura.
Dovevo spiattellargli il pensier mio? Ma veramente io poco gli aveva
dato retta; la mia fantasia cullata dalla sua monotona declamazione aveva preso
il volo e si affaccendava con un pranzo, un letto ed una compagna da letto
immaginaria: ed a vergogna degli amanti confesserò di non aver desiderato
allora più la mia Merope che qualunque altra; non si trattava che della
deficiente soddisfazione di tre bisogni fisici. Solo di tempo in tempo, quando
un verso più sbagliato dei rimanenti mi richiamava con l'urtarmi i nervi al
senso del doloroso presente, solo allora mi sfuggiva un bravo, un benissimo,
che non aveva più senso de' sì, de' convengo strappati agli accusati
dalle torture o dalla intimidazione che a' tempi nostri fa da vicetortura. E
Pietro allora, interrompendosi: «Eh, questo è niente! senti qua, che adesso
viene il meglio, proprio!». Io non m'era però mai accorto che questo meglio
fosse buono: ma provava una secreta invidia per quell'uomo che amava tanto,
quantunque d'infelice amore e la sua donna e la poesia, da non saperle
dimenticare neppure fra le armi, da perdurare nelle sue illusioni erotiche ed
artistiche. La sua posizione avea del buffo, come quella di chiunque ama e fa
fiasco, tenta e non riesce; ma quel buffo aveva una lieve tintura di sublime! E
poi! Era quello il momento da intavolare una discussione estetica e letteraria?
Lo lodai, dunque; mentii, ne convengo; ma chi è senza macchia dia l'esempio di
lapidarmi.
|