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Vittorio Imbriani
Merope IV

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  • XV   SOGNO POSTUMO
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XV

 

SOGNO POSTUMO

 

C'est à vous de rêver et de faire ds songes

Puisqu'en vous il est faus que songes sont mensonges,

MOLIÈRE

 

Neque sepulcrum, quo recipiatur, habeat, portum corporis

Ubi, remisa humana vita, corpus requiescat a malis.

ENNIUS

 

I had a dream that was not all a dream

BYRON

 

Dopo un paio d'ore di marcia, a notte fatta, si ordinò l'alto e di formare i fasci d'armi: io mi ravvolsi nel mantello, mi buttai per terra, m'addormentai e sognai. Va, dubita che i miei sogni non profetizzino, quando in questo mi parve d'esser morto; il che pure dovrà verificarsi! E se quest'una circostanza s'ha da realizzare o perché non accadrebbe il medesimo delle rimanenti, eh? Se dovrò. come ho sognato li dormendo a ciel sereno in quel breve alto, sentirmi palpare dalle invereconde mani de' seppellitori e ravvolgere nel sudario e inchiodare nel cataletto; sentire le mentite lacrime ed i falsi baci d'addio de' miei superstiti, e le bugiarde preghiere de' signori preti al loro domineddio menzognero, doh! perché non mi aspetterei all'avveramento delle meravigliose cose che mi parvero succedere alla morte?

Debbo testimoniarmi che, visto com'io morissi la prima volta, non m'era poi condotto male: aveva sopportate tutte quelle scenate con la massima equanimità: né un muscolo del corpo, ned una fibra dell'animo s'era commossa: non c'è indifferenza filosofica la quale possa paragonarsi a quella che s'acquista con la ceremonia detta volgarmente crepare. Degli amici si disputarono l'onore di sottopor gli omeri alla mia cassa; e m'accôrsi che si scendeva in istrada attraversando una moltitudine fragorosa ed affaccendata. Il morto non avendo assolutamente nulla da fare, io pensai bene di ascoltare quel che si facessero i vivi i quali mi portavano a sotterrare: udiva il calpestìo della folla, lo scalpitìo de' cavalli, il convocio de' mercantuzzi, il bestemmiar de' cocchieri; voci confuse chiedere cos'è? chi è? e finanche lo scoppiettìo de' cerei. I venditori di ciriege urlavano: vi' che sciorta de palle,! so tuoste cchiù de a faccia de li femmene! i pescatori: mmo eva p'ù mmare chisto! i paludani spingendo gli asinelli carichi di erbaggi: vruoccole ca so bone anca dint'a lu letto! i peperonai: chi tene u mmarito biecchio! ed i bimbi che vendevano i giornali annunziavano la mia necrologia: «Bonediceva io tra me e me «pare che la mia morte faccia un po' più chiasso della vita». Ma da morto che sa il suo dovere, non me ne sentiva solleticato.

Giunti in cimitero, deposero il feretro sul margine d'una fossa e fecero silenzio. Allora sentii qualcuno curvarsi sul mio cataletto e chiacchierare, chiacchierare, chiacchierare con una parlantina unica. Di tempo in tempo un plauso, un mormorio d'approvazione, interrompendolo, mi facevano presumere lo sterminato novero de' convenuti, come dal fremere prolungato del vento nel fogliame s'indovina l'immensità della foresta. Era la mia orazion funebre, l'ultimo vale, come suol dirsi, l'estreme parole che mai mi sarebbero rivolte, giacché non aveva poi tanto fatto da meritare apostrofi poetiche, né lasciava una vedova qualunque che rimaritandosi dovesse commemorarmi ogni tanto per tormentare il mio successere; il quale potrebbe anch'essere il mio secretario od il mio lacchè od altrettale veramente.

Chi diavolo era l'oratore? che mai l'orazione? M'ingegnavo d'afferrar qualche frasuccia, di riconoscere almeno l'organo del facondo uomo; se non che la spessezza delle tavole, il vento che sperdeva le parole pronunziate con tanta enfasi, e quel rumorio che si disviluppa da ogni moltitudine ancorché raccolta e silenziosissima, non mi lasciarono cavar questo gusto. Non per questo m'indispettii. come tante volte in vita quando nelle società, accorgendomi che la tale o tal'altra parlava della mia riverita persona al vicino, non m'era riuscito d'indovinar neppure il senso generale del dialogo, per quanto intendessi con le orecchie.

Mi encomiavano? mi riprovavano? Chi sa quali fiumi di rettorica quel valentuomo avrà prodigati sul conto del meno rettorico fra gli uomini spiegando con volgarità, azioni, e pensieri: tutte cose che io medesimo, assai meglio informato de' particolari, non aveva mai potuto apprezzar con giustizia? E dopo questo giudizio pubblico forse falso, ma indubbiamente encomiastico, che direbb'egli di me in privato quel parolaio declamatore del mio panegirico tornando a casa a braccetto con la moglie e la druda co' fanciulli per mano? che direbbero di me quegli uomini, cessando di esser folla e ripigliando quel criterio individuale e quel buon senso che gli uomini rinunziano quando si agglomerano? Oh bella, e che m'importava? Un fico. Che riguardava me cadavere se la mia memoria fosse esecrata o benedetta? L'amor di gloria, già così potente sull'animo mio, s'era spento oramai, spento affatto. Il biasimo e la lode de' contemporanei e de' posteri, della città e della storia mi tornava indifferentissimo.

Non v'era ambizione, non errore, non sacrifizio, non colpa della mia vita passata, non giorno che non mi sfilasse dinanzi; come non v'è bacca del rosario che non passi sotto le dita della bizzoca. Ma tanta era la mia apatia che ricordava senza giudicare punto. Le memorie che altre volte valevano a strapparmi lacrime di sangue, che poche ore prima mi facevano soffrire peggio delle pugnalate; non mi turbavano più. Così le più dolci e tenere ricordanze di amori goduti, di speranze giovanili, di lode meritata, non mi lusingavano ormai l'animo. Credi tu che un marmo si affligga perché un Sansone traditore se n'è servito ad ammazzare la sacra ed inviolabil persona di un Re filisteo; o che sorrida per aver servito di letto agli amori della moglie di Ferondo col suo confessore? No, neh? Fate conto ch'io mi fossi un marmo e non corbello.

Che m'importava oramai più che non si fossero avverati gli ambiziosi sogni di gloria, ch'io mi aveva foggiati fanciullo ad immagine e similitudine degli eroi di Plutarco da Cheronea e di Vittorio Alfieri da Asti? Ah que' libracci sono un vino poderoso che inebbria e fa girare il capo! Guai, chi ci si abitua! diventa incapace di sentirsi titillare il palato dall'acquetta appena tinta che forma la bevanda più solita nella vita. Dopo che avete riempiuto il cervello d'un ragazzo di tutte le agitazioni della vita pubblica, di tutto lo scompiglio della vita poetica; dopo ch'egli s'è aggirato per anni con la fantasia fra rivendicazioni a libertà, tirannicidi, congiure, guerre d'indipendenza e civili, ambiziosi che giungono all'impero, trionfatori che vincono il nemico decuplo, uomini e donne che sanno tranquillamente uccidere ed uccidersi; come ragionevolmente pretendere ch'egli si rassegni alle umili sorti della vita contemporanea, che ponga interesse ne' pettegolezzi quotidiani, che abbracci una professione ingloriosa ma fruttifera? specialmente poi quando ha sortito i natali in un'epoca ed in una terra sconvolte e turbolenti al pari di que' be' secoli di Roma e di Grecia; quando ha visto amici, parenti combattere per acquistare una cosa pubblica; quando è stato travolto in una di quelle emigrazioni nelle quali si espatria l'eletta d'un popolo. Mangerà pane come un anacoreta, ma dovrà aver la sua parte ancorché minima in ogni vicenda della patria; e la miseria gli sembrerà più che compensata dal pensiero clie cinquecento carogne ch'egli non conosce, ne sanno il nome.

Che m'importava che i desideri dell'adolescente fossero rimasti insoddisfatti, que' potenti desideri stillati, concentrati dall'astensione e dalla fantasia, di una bellezza perfetta. nella quale io m'imbatteva ad ogni piè sospinto nell'Arte, e della quale vaneggiava di aver trovata un'incarnazione immacolata nella vita. Oh quel primo amore che non sa distinguere ancora fra l'idea sublime, ch'è parto della nostra mente, e la femminetta più o men fango, più o men venalità, in cui c'illudiamo di vederla pienamente, totalmente, integralmente emanata, come que' Cristiani si figurano che il loro dio fosse tutto intero nelle povere membra del galileo crucifisso! Il verbo dell'adolescenza è la bellezza: ed io le aveva consacrato un tal culto ideale, che ogni altra cosa disparve a' miei occhi, che la gloria stessa non m'innamorava più se non in quanto era bella ed in quanto poteva ottenersi proseguendo la bellezza. Ahimè, stolto colui che richiede ad una donna, ad un'arte quel che non è in poter loro il fornire! Simile allo scrittorello che s'ostini ad anfanar sempre la medesima idea od al gretto pittorucolo che non sa più ritrarre null'altro tranne un tipo, l'amante che si chiude in una femmina, s'isterilisce. Quell'idea sublime che è la bellezza non può esaurirsi nelle fattezze, nella mente, ne' costumi d'una persona, anzi solo nell'infinita serie di fattezze, di menti, di costumi di quante donne sono, furono e saranno. Che un momentaneo errore sia fatale; che l'uomo possa in un delirio più o men breve, cattivato da qualche bella parte, reputare onninamente incarnato quel suo tipo; è un fatto: ma pover'a lui, se presso la miglior donna non prova a lungo andare nausea e sfatamento, se non s'accorge subito ch'ella è una maschera dietro la quale si nasconde imbruttita la divina ed incorporea amante; una Pulcheria cortigiana che presta le sue membra agli amori puri della schiva Lelia.

Che m'importava finalmente che fossero tornate vane anche le speranze dell'adulto, quando sorto ad autonomia caratteristica di pensiero non ebbe più altra brama che di vivere e di affermarsi nella pienezza del suo istinto e delle sue passioni? Sconsolati tempi, ma belli ancor essi, ne' quali aveva imparato a stimare il valore delle azioni umane, unicamente dall'impressione che producevano sull'animo mio; in cui aveva accettato con indifferenza il dolore e la voluttà, l'atto abietto ed il generoso, la riuscita ed il fiasco, purché il cuore palpitasse un istante, fosse per un attimo sottratto al tedio della vita. Tempi, quando godeva d'imbrogliare stranamente le mie azioni ed i miei affetti, come l'alchimista operava co' suoi ingredienti, nella inconsulta speranza di veder uscir l'oro da quella miscea.

Già prima d'esser nel sepolcro più volte mi era travagliato a sviscerare e notomizzare la mia coscienza, senza che mi riuscisse di decifrar mai, il movente vero di parecchi operati miei: la coscienza ci mente per istinto, involontariamente; e noi s'usa forse più reticenze e restrizioni mentali ne' monologhi che ne' sproloqui al pubblico. Ebbene ora finalmente leggeva chiaro in me stesso: d'alcuni fatti elogiati dall'universale e mio secreto orgoglio, scopriva ora de' perché reconditi nelle ultime latebre, ne' più oscuri angiporti del cuore; perché tanto abietti e schifosi, ch'io mi farei disprezzato ed odiato, quando pur fossi stato ancora capace di odio e di sprezzo.

Oh di quanto erra l'uomo nell'immaginarsi che tutto sia rose in quell'Eden ch'egli si figura essere il sepolcro! I signori vivi si formano un'idea radicalmente falsa della morte: so di parecchi i quali non veggono l'ora di rincantucciarsi nella tomba, sperandovi riposo dopo i travagli del vivere, quasi una Tebaide vuota, silenziosa, lontana da ogni consorzio, dove s'abbia pace dall'esercizio de' cinque sensi. Fanno i conti senza l'oste: una vita orribile si agita entro nelle fosse delle sepolture, sotto gli sterili marmi; vita di putredine e di dissoluzione. Quella materia tanto travagliata sotto la forma umana, non è stanca di sentire e di soffrire, e si sobarca a nuove ed oscene e minori forme di vita, come allo sciogliersi di un grande impero sorgono mille autonomie di repubblichette. Dalle zolle che i becchini ti precipitano addosso, fino a quella ipotetica tromba che secondo la mitologia cristiana dovrà bandire il favoloso giudizio universale, sembra di udire laggiù, sotto il coperchio della bara, mille rimbombi spaventevoli... cioè che spaventerebbero se la morte non avesse fatto inaccessibile alla paura anche il più codardo.

Gl'insetti succhiellavano gli assi del feretro per giungere a quella che per loro era dolce preda del mio cadavere, com'io appunto con un po' d'astuzia ed un po' di violenza m'era pazientemente sgombrata la via ed aperto l'uscio a più d'un soave amore; la terra sfranava dopo le pioggie che mi avevano allagato; i cagnacci famelici raspavano nottetempo il terreno sovrappostomi; i passi de' beccamorti o dei curiosi soffermati per leggere il mio epitaffio mi s'aggravavano sulla fronte; e giungevano fino a me le grasse loro risate nel compilare ciò che probabilmente era il mio elogio. Giacchè ci casca opportuno, lasciate ch'io vel dica: nel visitare i campisanti siate raccolti e taciturni: come non insultereste gli affamati banchettando a porte spalancate in tempo di carestia, così non vogliate insultare i morti esultando e rallegrandovi tra di loro; astenetevi soprattutto dal vituperare chi v'ascolta e non può risentirsi, ha peggio che la sbarra in bocca, peggio che catene al pugno ed è chiuso in una cassa chiusa sotterra... Ma giova sperare che non tutti i morti siano così mal morti come era io, da conservare ancora l'abitudine di percepire e di ragionare.

Anche talvolta i passi leggerissimi d'una qualsiasi pia fanciulla che sola soletta si recava presso a qualche tumulo ignorato o dimenticato da ogn'altra anima viva; il frusci-frusci delle sue prolisse vestimenta urtate alle pietre ed alle siepi; le vanissime preghiere mormorate dalla bocca di lei; giungevano fino in fondo al mio cataletto osceno, come un lontano saluto della vita fuggiticcia, come un ultimo sventolar di pezzuola dell'amica che viene rapidamente involata dal piroscafo.

Un giorno, sentite cosa accadde: il mio vicino, cioè quel quondam galantuomo o quondam furfante che occupava la fossa attigua alla mia, non aveva avuto l'accorgimento di comperarsela, come avevan fatto per me, a perpetuità. Il suolo gli era stato conceduto temporaneamente, per un numero di anni ora compito, sicché bisognò ch'egli si rassegnasse a sfrattare e tramutarsi nella fossa comune. Del resto l'incomodo fu maggiore pe' beccamorti ed anche per me mal morto. Ogni vangata che quei messeri vibravano, mi scrollava e sconquassava il cataletto già infracidito dall'umidità. Ed ecco una voce gentilina chieder loro soavemente chi fosse la persona che venisse fatta sloggiare di : «Vattel' a pescarisposero gli zappatori «avremmo un bel da fare se volessimo sapere a mente i nomi di tutti quelli che ci passan fra le mani. Quel che affermiamo e giureremmo senza saperlo si è ch'egli fu adorno di tutte le virtù e lasciò molti inconsolabili... sulla iscrizione mortuaria. Del resto non sappiamo più di lui che di chi lo surrogherà qui in breve».

«E questa gran tomba qui, tutta recente, di chi è mai?» riprese la donna toccando la mia lapide con l'ombrellino.

«Non sappiamo noi mica, ma leggete la scritta; vi sarà detto qualcosa. Sapete leggere, neh vero?». Oh sì, sapeva leggere, ne avrei potuto far fede io dal fondo della fossa, io, che in altri tempi aveva bagnate di lagrime e di baci mille sue letterine; io, che aveva riconosciuta quella voce immantinente. Sì, l'avete indovinato, quella solitaria passeggiatrice era la donna da me tanto amata, Merope appunto; Merope, che come accade a' migliori amici nella vita, aveva finito per allontanarsi da me e pormi in dimenticanza; Merope che ora, raccolte le vesti, s'inchinava sul mio giaciglio, come una madre sulla cuna del figliuoletto, come Psiche sull'Amore addormentato.

Lesse, ma non tutta l"epigrafe; dopo poche parole il pianto le tolse di proseguire, quando fu ben certa che il sepolto era l'uomo dell'amor suo. Si fece forza e trangugiando le lacrime volle andare fino in fondo alla iscrizione, all'ultima linea: DA TUTTI COMPIANTO: «E la tua diletta ignorava il luogo del tuo giaciglio, e non una ghirlanda che infiori, non un salice che adorni la tua lapide abbandonata allo squallore. Hanno accumulato i marmi sulla tua fossa, ma perché non ti fosse possibile il fuggirne, ma per dimostrazione di partito. Ricordano quotidianamente il tuo nome nelle aule e nelle piazze, ma come si brandirebbe un'arma, or depresso dal vitupero, ora esaltato dall'apoteosi; ma non uno che serbi pia memoria di te. Rimpianto? no, non sei: la tua morte è stata un discapito per alcuni, sì, ma un cordoglio? ohibò! Ned occorre imputar loro questo a colpa. Ti han pagato della moneta pattuita: i vincoli delle consorterie non sono legami d'affetto. Quel che ogni parte è in obbligo di tributare a' suoi defunti dalla necrologia encomiastica fino al mausoleo per sottoscrizione, veramente hai tutto avuto, anzi han fatto le cose senza grettezza: le parole costan fiato, ed i gonzi che la fan da sottoscrittori ammontano allo stesso numero delle stelle. Ma chi ti era debitrice di pianto sincero ed inesausto, era io quella! Tu mi amasti pervicacemente e non per ozio. Oh quelle nostre serate di voluttuoso strazio, quand'io dava repulse, come si getta olio nel fuoco, per veder meglio divampare il tuo affetto! E quella tua bocca, tanto dotta nelle lusinghe, è muta! E non ti levi per istringere e baciare la mia mano, per querelarti ch'io te l'abbia porta col guanto! E non m'ami, non ami più la tua Merope, la tua desideratissima, come solevi chiamarmi! Non chiedi, non desideri più nulla da quella, io che per riaverti non ti sarei più restia in nulla? Ebbene, povero amico, io non posso dirti di sorgere e camminare; né tu, stanco della vita, forse il gradiresti: io non posso richiamare que' tempi che furono, ed accondiscendere a' tuoi capricci: oh se fossi stata presaga allora della tua prossima dipartita, se un indovino mi avesse diagnosticato quel male che doveva involarti, mi sarei mostrata teco come si è col moribondo pel quale, sia pure strana quanto si voglia la sua brama, non sanno trovare alcuna ripulsa. Una cosa posso: ricordarti, onorar la tua tomba, pianger qui spesso. E voglio esser la tua sempre amica, ed illudermi che ti sia grata la mia vicinanza».

Depose un mazzolino sulla pietra gelida, quasi offerta propiziatoria, quella cara Merope, e credo che pregasse ancora. Dipoi, mi visitó assiduamente; vogliam dire che dimorasse nel vicinato e che il cimitero fosse per lei passeggiata comoda e prossima. Conobbi tutte quelle inutili cure che i vivi non s'affannerebbero a prodigare alle tombe, se conoscessero quanto gli abitatori di queste vi sono indifferenti; preghiere che nessun dio ascolta, fiori che il morto non vede e non annusa, so io di molto? La mia signora sedeva ore ed ore sugli scaglioni del mausoleo, o con qualche eterno lavoro femminile (forse, chi sa, quelli stessi ch'io aveva visto incominciare?) o con qualche romanzuccio (perché no -? di quelli che io le aveva lodati) o fantasticando (possibilmente anche dei nostri amori); e poi si ritirava lentamente.

Ed io ben aveva imparato a distinguere le sue pedate fra tutte, ma mentirei asserendo di aspettarle, o desiderarle; mentirei se affermassi d'esser anche solo compiaciuto di quell'affetto postumo, di quel lutto sincero almeno secondo ogni apparenza. Che volete? i morti sono apatisti e non mica per baia come Agostino Coltellini a quei suoi Accademici Meglio così: figurarsi che e quanto avrei sofferto, se per caso si fosse potuto riaccendere in me l'antica fiamma, ora ch'io non poteva neppure trovarle sfogo nelle chiacchiere! Quante commedie sugli amanti vecchi! ma che sarebbe la loro ridicola impotenza a fronte a quella di un amante morto e sotterrato per giunta, ad un pizzicor d'amore nelle membra che cadono in isfacelo? Oh quella inesorabil civettuola della Merope avrebbe forse avuto caro di suscitare questa nuova razza di abominosa passione e di turbarmi la requie della tomba come aveva turbata la pace della vita! Ma per quanto una bella donna sia onnipotente, diamine, il suo impero è limitato da alcune leggi di natura: non nego che sia tale

 

Da far vedere un morto, andare un cieco,

 

da serenar come Laura il cielo con uno sguardo o da placar come Semiramide la soldatesca con una treccia scomposta... ma sulla morte non ha presa, no.

Merope non veniva sempre sola. Si capisce, aveva trovato da surrogarmi, e come un convitato che dato fondo alla prima bottiglia, ne attacchi un'altra; così poi che non aveva più l'amor mio e durava in vita, aveva tolto a ripeter con altri le stesse scene, le stesse civetterie. Pare che il mio sepolcro fosse il loro convegno: qui non sorvegliati, non osservati, fra il cielo azzurro ed i tumuli verdeggianti, osavano accomunar le anime: speranze, brame, fedi, travagli; osavano divertirsi nelle guerricciuole amorose, che figurano un giuoco presso a poco come il gladiatorio, nel quale spesso si muore, elegantemente è vero, ma crudelmente appunto perché bisogna costringersi a spirare con grazia, motteggiando, sorridendo. Povero mio successore! non eri avversario da tener fronte a quella dotta signora più che nol fossi stato io: mettevi troppa parte di te in quello che per lei era pur sempre uno scherzo; facevi come que' pazzi scaccheggiatori pe' quali tutto non è finito quando una delle parti ha ricevuto il matto, anzi se ne accorano e ci riflettono tutto il giorno, e la notte non sanno appiccar sonno, ed appiccato sonno riveggono mille visioni di cavalli, d'alfieri, di pedoni, di torri, di re, di regine, di gambitti, di scacchi doppi e matti e di scoperta, d'arrocchi, e poi si espergefanno di subito urlando: «Eureca! l'ho trovata la mossa che mi salva!», L'è un prender troppo sul serio cose di minima importanza; ed a me che sono cascato nella stessissima trappola si conviene l'avvertirne i pericolanti. Amoreggiare sta bene: è un ozio come un altro; un ozio affaccendato per iscacciar la noia come le scienze, le lettere, le arti; ma contiene stare attenti a non innamorarsi per daddovero: schermidori, badate che non caschi il bottone dalla punta del fioretto!

Non ch'io m'ingelosissi; intendiamoci veh! Un morto geloso, non mancherebbe altro, gua'! Finché aveva vissuto ed aveva potuto desiderarla e possederla, oh mi sarebbe stato amaro strazio l'udire una di quelle parole, il vedere uno di que' gesti; il pensiero anche, sissignori, che morto io avrebbe potuto far ciò; ma ora, che m'importava? Talvolta mi venne un sospetto, che per procacciarsi una strana illusione, per degustare e risuscitare il passato, ella desse quelle poste sulla mia tomba, come giacendo colla domestica nel letto della padrona uno s'acceca e crede di aver che fare appunto con questa. Sì, amava me in quel messere, lo amava in quanto le sue idee arieggiavano le mie. Ma che volete, morta in me la vanità come ogni altra passione, neppur di questa sostituzione io mi sentiva lusingato.

Non crediate però che il mio sepolcro fosse solo confidente di occulti amorazzi di donne, ritrovo solo di amanti impacciati più o men platonici. Uomini che sdegnavano di locare gli affetti in forma di corruttibil carne; caratteri indomiti incocciati nell'apostolato assunto, i quali sdegnando le fischiate e le imprecazioni e gli anatemi del volgo «cieco» come dicevan'essi, si accanivano dietro all'idea eletta dalla lor mente, quasi bracchi dietro alla fiera; che sentivano scorrere caldo nelle vene il sangue giovanile, ebbri di scienza e d'entusiasmo; gente di questa fatta si assembrava in conciliaboli notturni circa la pietra che m'avevano eretta e pronunziava di que' giuramenti e risolveva di quei partiti che la storia registra e non giudica. Io di sotto a' marmi ed alle zolle ed alle assicelle udiva le parole cader loro di bocca ad una ad una nel silenzio e nelle tenebre, come appunto lo stillicidio in una grotta di stalattiti; e mi raffigurava que' volti e mi interpretava quegli animi; e voci e volti ed animi avrebbero esterrefatto ogni vivente. Giacché si trattava d'uomini implacabili come forze naturali, che avevano escogitata l'utopia d'Archimede e prendendo per ipomoclie e fulcro il loro sistema si accingevano a spostare il mondo.

Ebbene, quel sistema era stato mio; ed ora se avessi avuto il moto avrei alzato le spalle quando me ne avesser fatto parola. O falso o giusto che si fosse che montava, ditemi? Il vero non ha pregio che per la mente umana, la quale sola può svincolarlo dalla scoria delle apparenze in cui è combinato; come è solo in poter del chimico l'ottenere allo stato libero e puro alcuni corpi primi, che appena restituiti alle condizioni naturali trovan subito modo di combinarsi con altri e trafugarsi. E la virtù della mente umana non sopravvive alla vita. Laggiù m'era indifferente tutto e guardavo quelle idee, come un ebete selvaggio guarderebbe una scatola di reattivi.

Di giorno in giorno la putrefazione progrediva nel mio corpo, come suole accadere che un poderoso nimico invada lentamente una contrada: ogni giorno cominciava la dissoluzione d'un altro membro, d'un altra parte, e quell'edificio organico in apparenza così saldo sembrava disfarsi quasi neve al sole. Se allora si fosse scoperchiato l'atauto, nessuno de' più intimi avrebbe potuto riconoscermi in quella materia informe. Io non era più una disposizione ordinata di polpe, ossa, nervi, sangue, peli; io non era più un cadavere; anzi una poltiglia, un pattume, non rappresentato da suoni in alcuna lingua umana, perché nessuna fantasia può raffigurarselo senza schifo ed orrore, tanto n'è raccapriccevole l'aspetto, pestifera l'esalazione da costringere a chiudere gli occhi ed oppilarsi il naso e volgere altrove la testa. Gli occhi purulenti sprofondavano a catafascio nelle orbite; la pelle nerastra e tumefatta si spaccava e screpolava come un suolo volcanico trasudando e spandendo sanie, marcia ed umori viziati ed ogni sorta di liquidi nauseabondi: le carni decomposte si staccavano dall'arcame cariato e formicolavano di falangi d'insettucoli alati rettili che vi trovavano lieto pascolo.

Ed io? sempre indifferente! Si sa che per questo si crepa! e sarebbe strano che un defunto volesse continuare in quelle cure affettuose per le proprie membra che si condonano appena ad una civettuolucciaccia: ad un zerbinettellino. Che una signora si allarmi per un lividore, perr una graffiatura, per una lentiggine, per un furuncoletto, e si tappi in casa finché non ne venga eroso ogni vestigio, finché la cicatrice non sia rimarginata e l'ultima traccia sparita, è ben giusto. Essa ha pregio in quanto è bella, ed ha in pregio l'esser pregiata. Ma un povero morto, l'è un altro par di maniche! anzi s'egli fosse capace di provar consolazione dovrebbe rallegrarsi d'essere ridotto in questo stato, ch'è per lui quasi una guarentigia dell'unica cosa la quale potrebbe ancor desiderare, ove tuttavia possedesse facoltà di formolare un desiderio, vale a dire d'esser lasciato marcire in santa pace!

Cosa che molti vivi desiderano indarno, perché non hanno la ventura di esser così fetidi. Tutto è privilegio al mondo, anche l'orridezza.

Un giorno la Merope non venne, mi mancò. Strani e funesti fragori empivano l'aria, scotevano il suolo ed echeggiando fin sotto la vôlta funebre penetravano al mio orecchio. Le campane squillavano a stormo, i tamburi battevano la generale, le trombe de' cacciatori formolavano conciso conciso i comandi: alto, avanti, passo di carica, cominciate il fuoco, attacco alla baionetta; e mille e mille bocche umane confondevano vociferazioni; ed il cannone rombava di tratto in tratto con quella vociaccia che uscendo da' suoi polmoni di bronzo fa ammutolire finanche gli eserciti, che si sbandano; finanche i rètori, che allibiscono.

Io riconobbi subito cosa volesse indicare questo frastuono

 

Per la pratica grande che n'avea;

 

io cittadino cospiratore, soldato, tribuneggiatore, mi era trovato non una volta in simil ballo; e comprendeva arcibenone che le sorti della patria si giuocavano di nuovo in una partita sanguinolenta, che per ottenere un assetto vero di libertà, per distruggere le camorre democratiche, per mettere il potere in mano de' forti, de' sapienti, degli onesti, i miei amici tentavano una di quelle imprese come il Diciotto Brumaio ed il Due Dicembre, gloriose e lodate... purché si vinca ed il futuro dia campo agli autori di mostrare i nobili intenti loro. Si trattava di ciò che può chiamarsi o rivoluzione o colpo di stato.

Ebbene, ho a dirla? io non provava ansietà, non curiosità. Cosa volete che significhi patria ad un morto, dato e non concesso che significhi pe' vivi qualcos'altro che un pretesto all'ambizione, alla cupidigia? Libertà? che importa al cadavere affunato nel sudario, inchiodato nella bara, incatenacciato nell'ipogeo? Giustizia è parola vuota a chi sta fuori la società, a chi non ha più interesse a menomar gli altri dei loro dritti, a frodarli del debito. Accada quel che vuole accadere il morto non può uscire dall'apatia del non essere. Vinca chi sa vincere, in che sarebbero mutate le mie condizioni?

Io porgeva l'orecchio: uccidevano, singhiozzavano, voci di pianto imploravano misericordia. Il camposanto era divenuto campo di sangue: una fortezza che veniva espugnata d'assalto, una trincea che veniva disputata a passo a passo, conquistata a tomba a tomba. Sul mio sepolcro, nella mia cappella funebre era lo Stato Maggiore degl'insorti a' quali il mio nome era grido di battaglia. Udiva gli ordini che discutevano, le minacce che venivan loro intimate, i rantoli de' moribondi, l'esultare della canaglia vittoriosa; ed incatenato nella tomba io pur troppo non poteva sorgere, indifferente alla rovina del mio concetto, ai danni della patria, al macello de' concittadini; e non deplorava di non esser con loro, di non potere od affrettare il trionfo o seppellirmi nella catastrofe d'un'impresa, di principi tanto amati e sostenuti col braccio e con la parola. Proprio così! il mio cuore ghiaccio non palpitava più né per l'onore, né per l'amor patrio: io l'aveva dimenticata quest'Italia mia, m'era caduta dall'animo, dopo tanto affetto. È ciò possibile anche in sogno? anche nel nulla della morte?

Per parecchi giorni consecutivi non udii più che i beccamorti occupati ad isfossar nuove sepolture. Erano tanti i caduti della guerra civile che quantunque venissero pel maggior numero scavate alcune voragini in cui si accatastarono a catafascio uomini e donne senza impicciarsi a verificarne l'identità, pure quel cimitero dovette essere ampliato che si riteneva dover bastare per un intero mezzo secolo a tutti i defunti della città. Non un cantuccio che rimanesse vuoto. Il becchino aveva avuto ragione nel predire alla Merope ch'io non avrei atteso a lungo un nuovo vicino: quella fossa contigua al mio sepolcro fu ingombra di un altro cadavere.

Nelle nostre città quando uno viene ad alloggio rimpetto od accanto la casa vostra, nella strada, nel palazzo stesso, sul medesimo piano, ebbene, voi scambierete imbasciate, carte, visite, stringerete relazioni più o men bugiarde di amicizia, v'incurioserete di acclarare ogni minimo pettegolezzo che lo riguardi, v'arbitrerete ad almanaccare una litania di supposizioni, a prendere informi sul conto suo, che so! Insomma gli farete un posto nella vita vostra: ed in breve ci saranno interessi, legami, aspirazioni comuni; e se non altro lo canserete od odierete, ed è già molto.

Non così nelle necropoli. nessuno s'impaccia d'investigare chi gli giacerà d'accanto per l'eternità, donde ci venga, cosa fosse, che facesse, quali cure e sofferenze gli abbiano rotto lo spirito ed il corpo obbligandolo a ricoverarsi nel grembo materno e pietoso del nulla. Vi putrefà poco discosto senza che permutiate o pensiate a permutare una parola, una stretta di mano, un'occhiata. Non ci ha rapporti di buon vicinato fra' morti; né si luogo a pettegolezzi, né ci sono fastidi e noie reciproche; ognuno basta a sé.

Il tumulto di que' lavori straordinari era pur terminato, e regnavano i silenzi della notte: i becchini se n'erano iti a gozzovigliare con le loro bagasce, ed. i morti rimanevano immoti nei posti loro assegnati; una capinera cantava sulla siepe fiorente in quel luogo triste sempre ed ora vieppiù contristato dalle ire cittadine; ed ecco io riconobbi quel passo leggiero della donna che mi fu benigna in vita, che mi era amica in morte. Povera Merope, se un morto potesse attendere checchessia, direi d'averti aspettata.

Era ben dessa e sola; ma non venne come al solito sulla mia tomba, anzi andò difilata a quella che un giorno aveva vista escavare, e che avevano ricolma testè: senza marmo ancora, senza nome. Ed abbandonandosi ginocchioni su quelle zolle che le nascondevano l'ultima amicizia degli anni suoi provetti diè in pianto dirotto, assinghiozzato; quel povero petto dovea balzare sul terreno come una cassa male affunata balzella sulla carretta.

Povera, povera donna! Perder dunque tutto: ogni amore, ogni gioia, ogni felicità! Chi si sarebbe più dedicato a lei, ora che i suoi capelli cominciavano ad incanutire! e le venivan meno coloro che avvinti da una cara consuetudine, vedevan sempre l'animo perfetto sotto alle fattezze che toglievano a scomporsi alquanto. Povera donna amorosa, come vivrai senz'amore? Chi glielo avesse detto quando dava posta al suo giovane nel cemeterio, per passarvi lietamente qualche ora del giorno, chi glielo avesse detto che vi sarebbe tornata di notte, ella timidissima, sola, derelitta, e che il suo vago giacerebbe sotterra insanguinato, esangue; il nuovo affetto accanto all'antico!

E quel gagliardo generoso non s'era lasciato distogliere dal dover suo; né il pensiero del cordoglio di lei, né le salde braccia che la sua Merope gli aveva buttate al collo, lo avevan fatto esitare un attimo ad incontrare il pericolo mortale: oh non era indegno di succedermi nel cuore e ne' baci della nostra donna. Né certo Merope, più che nol facesse meco, s'era adoperata per trattener lui da ciò ch'entrambo reputavan giusto e nobile. Que' begli occhi turgidi di pianto oh! non erano stati consigliatori di viltà, no, mai. Ed eccola ora fuor di casa a mezzanotte, in una città abbandonata alla soldatesca avvinazzata, al popolazzo sguinzagliato, eccola in un luogo di spavento a lacrimare sulla muta fossa del suo diletto! Oh gioie rapidamente fuggite! Men che nulla era bastato per far cenere l'uno e sconsolata l'altra. E forse mai non avevan goduto un lampo di piena, intera voluttà, mai! Quanto dovea rimorderle d'avere sciupato in civetterie il tempo che avrebbe potuto esser consacrato assai meglio al piacere!

Tutt'a un tratto sentii un fragor d'armi e di sghignazzamenti, e canti osceni, ed un grido di sbigottimento e d'angoscia della Merope. Fu come se mi animasse un nuovo alito di vita, come se un'eco lontana delle abitudini e delle passioni antiche si facesse ancor sentire in me. Non udii più solo, anzi cominciai ad ascoltare; non rimasi più apata, anzi mi commossi e fremeva pensando alla mia donna minacciata e pericolante, alla turpe violenza che gli eroi della giornata volevan farle. Io non so come accadesse: ma lo spirito mio, non più trattenuto da vincoli corporei, emerse lentamente dalla tomba, tanto ch'io cominciai a dubitare che potesse esser vero quel che ci raccontano dell'immortalità dell'anima. Cosa che a chiunque non è cretino può accader soltanto in sogno.

La luna splendeva nel firmamento immacolato da nuvole: non un'aura e tutto sarebbe stato cheto tranne pe' gemiti del mare, per le strida dell'assiuolo e per le disperate armonie della capinera.

Merope si provava di svinghiarsi dalle braccia d'un par di soldati che la costringevano saldamente e cercavano di chiuderle con la mano la bocca alle grida. Nella colluttazione giunse a liberarsi la sinistra e puntandola in volto ad uno degli sciagurati, tentò di allontanarlo: quel briccone alzando gli occhi mi scorse. Allibì, la voce gli morì nella strozza, gli traballarono le ginocchia, gli caddero le braccia, lasciò andare la donna e fatti sei passi indietro stramazzò come corpo morto. Il compagno spaventato, si rivolse abbandonando la vittima, e visto che m'ebbe, sguainata la sciabola mi fu sopra: ma quando s'accorse ch'io non offriva più resistenza d'un groppo di nebbia a' suoi colpi, si diede a precipitosa fuga. Merope rimase non meno esterrefatta della impensata salvezza che nol fosse dell'impreveduto pericolo. Anche a lei si disciolsero le ginocchia ed impallidirono le tempie: che infatti di più terribile per una femmina che il vedersi a quattro passi un antico amante redivivo?

Ebbene, era morto io, non era più che uno spettro impalpabile: pure, al riveder nuovamente quell'amor mio potentissimo, al veder la Merope pallida e tremante come una sposa colta in flagrante adulterio dal marito, io sentii divampare di nuovo in me l'antico affetto, mi sentii porre un'altra volta sul collo quel giogo del suo amore. E non potei non seguirla quando riavutasi, si strinse tutta nelle vesti e fuggì con rapido passo verso la città.

La seguiva e rimisi il piede nelle strade della metropoli ch'io credeva di aver percorse l'ultima volta quando mi fecero l'esequie. Ell'era più mutata di me: quando la rividi dopo tredici anni di esiglio vi trovai meno trasformazioni che ora dopo la mia breve relegazione a domicilio coatto nel sepolcro. Misera patria! qua e un divampar d'incendi, tumulti di folla avvinazzata, saccheggi e stupri ne' casamenti espugnati! Ad ogni dieci passi la strada mi mostrava qualche frantume di barricata, o qualche pozzanghera insanguinata, o qualche affusto spezzato, come un pitocco mostra le piaghe che ha indosso per muovere a pietà. Giunsi fino all'antica reggia, quella reggia cui pel bene pubblico avevamo voluto ridar forza e prestigio, e che ora fatta stanza di osceni bagordi raccettava l'idolo, il feticcio, il bue Api che la buassigine plebea investiva di potere dittatoriale. Ogni ingresso era custodito da scolte cenciose che dovevano respingere chiunque non si documentasse amico del loro nuovo padrone: ma gli spettri ed il rimorso forzano qualunque consegna. Chi vidi in soglio! cose da rinnegar dio se mai ci avessi creduto! Un codardo venuto in fama per atti di spacconeria e di camorra; un demagogo volgare, solenne cansator di pericoli, impudente fino ad arrogarsi i titoli che non competevano alla sua bastardigia, il quale senza un soldo di beni ereditari, senza un'onesta professione che gli desse il pane, aveva vissuto da vizioso epulone! Oh plebi, questi sono gli uomini che voi esaltate! oh immaginazione egiziana: tu non sai adorare che i coccodrilli, non sai antropomorfizzare i tuoi numi!

Ahimè! veder queste cose, e non essere che uno spettro! E per più ludibrio accogliere rinvigorite dal lungo sopore tutte le passioni umane, senza aver come sfogarne una sola! Oh io non ho mai lodato il pugnale, ma quando si vede la patria in balia di siffatta geldra come far rimprovero di averlo adoperato a chi non può disporre d'altro mezzo per diminuire l'ignominia, per documentare che almeno c'è uno che dissente, uno che non è complice? Oh la bella vita, che ti modo di piangere l'amico, d'abbracciare l'amante, di uccidere un nemico! Oh che inferno sarebbe la morte se non fosse davvero il nulla!

Smarrita la traccia di Merope nel laberinto delle strade oscure e vuote, errai lunga pezza rivisitando luoghi per me ricchi di memorie, finché il primo barlume foriero del nuovo giorno non apparve in Oriente. Lo spettro che si arrischia nelle città de' vivi è come il ladro che s'insinua in una casa: fugge gli uomini e la luce; non bazzica dov'è frequenza di viventi. L'ora delle fantasime era passata, mi fu forza tornare alla mia fossa. E vi tornai contento perché quel che aveva visto mi facea comprendere quanto fosse migliore l'esser morto e libero che vivo e schiavo della nuova gente esaltata. Ma la tirannide plebea non pace nemmeno a' sepolcri; somiglia quelle belve per le quali son cibo prelibato le carogne. Se lo sanno gli antichi Reali di Francia sepolti a San Dionigi e dovetti sperimentarlo anch'io.

Sentii rimbombar la cerchia del cimitero di imprecazioni e delle strida forsennate d'una turba demente, arringata da facinorosi i quali incitavano a devastare e manomettere. Venivano dopo premeditato un sacrilegio; intendevano di disseppellire un cadavere, d'abbruciarlo e di spargerne le ceneri al vento. Quel cadavere da incenerirsi era il mio. Al più prode de' viventi sarebbe venuto meno l'animo, se gli fosse venuta sopra quella furia. Io non dirò come udissi storpiare e vituperare quel mio povero nome dal popolazzo ebbro ed assoldato; né come sollecitamente co' mazzapicchi, co' badili, con le leve, con ogni sorta ingegni travolgessero il mio monumento, demolissero la cappella, infrangessero la lapide, disserrassero l'ipogeo, dissotterrassero il feretro. Che differenza dal giorno dell'esequie!

Quest'era la ricompensa che mi decretava la maestà del popolo sovrano! questa la vendetta perché mi era sempre diniegato ad incensare il moderno Moloc! Chi potrebbe mantenere che io meritassi questo trattamento da' miei conterranei? Io non m'illudeva né su' miei meriti né su' demeriti: forse e senza forse non mi si confacevano tante lodi e ricompense: la tomba a pubbliche spese, la statua, l'apoteosi erano state un soprappiù. Ned io le avea chieste, ned era mia colpa se una parte avea preso il mio nome per grido di guerra. Ma quella immeritata esaltazione giustificava, legittimava forse l'inaudito vitupero? Ma l'intrusione di Giovanna Grey nel trono d'Inghilterra legittima la scure di Maria Tudor? Ma era proprio indispensabilmente richiesto dalla coscienza nazionale ch'io fossi strappato dal recondito giaciglio, che alle chiazze della putrescenza si aggiungessero i lividori delle percosse, che venissi trascinato pel fango, che le mie membra disfatte spazzassero il lastrico della intera città, e venissero poi sovrimposte ad un rogo improvvisato con le fascine e la legna accattata di porta in porta, con gli avanzi delle barricate, con le porte e le suppellettili delle case devastate? Non era una logica reazione contro un idolo vano, un rimettermi al posto che mi spettava e dal quale mi aveva fatto uscire l'altrui cecità, anzi una semplice vendetta di mascalzoni invidiosi.

Detter fuoco alla pira e la fiamma crepitando, scrosciando, cominciò a lambirmi con le sue lingue di foco; la dea Democrazia si beava le nari col fumo che a vortici tramandava quell'olocausto e si deliziava l'orecchio col selvaggio plaudire ed acclamare della ribaldaglia luridissima. E repentinamente levossi un gran turbine che sparpagliò scintille e tizzoni co' suoi vortici sulle tettoie delle case prossimane; e ben tosto le grida trionfali si tramutarono in ululato di terrore e di rabbia: maledizioni non prima udite mi flagellarono le orecchie abbrustolate. Gl'incendi si destavano qua e sicché in breve l'intera città fu in fiamme.

Da ogni finestra prorompevano vampe e sgorgavano globi di vapori densi e neri; i tetti s'accasciavano scrosciando; il vento ingolfandosi in quella fornace e rinfocolando l'incendio frammischiava le mie ceneri vendicate a quelle di migliaia d'altre vittime; la popolazione impazzata, non osando più contrastare alla furia dell'elemento vorace, scappava per poi voltarsi a considerare stupidamente quella bolgia che annichilava il suo ed i suoi.

Frattanto il mio spirito impassibile e muto contemplava questo immenso ardore innanzi a cui impallidivano le stelle e notava mille strani casi compassionevolissimi, de' quali uno lo commosse a grave pietà. Da un alto balcone si sporgeva la mia Merope adorata, così com'era balzata di letto, scamiciata e scapigliata, e supplicava aiuto dalla folla con le mani protese quasi per respingere gli amplessi delle fiamme. Ma nessuno di quella plebe aveva il pudore di tentare la disperata impresa, ché già la casa stava per crollare tarlata internamente dallo incendio. Ond'ella sgomenta: «Aiutogridava «aiuto! Il pavimento mi scotta le punte: i cortinaggi del letto ardono. Oh non mi lasciate perire barbaramente così! Salvatemi, od almeno uccidetemi con una palla, abbreviatemi quest'agonia senza scampo e senza modo. Ma come! s'io andava per le strade, non uno che non mi volgesse sguardi cupidi, non uno che rasentandomi non mormorasse smozzicatamente una parola d'ammirazione e di desiderio; ne' balli s'implorava come una grazia di fare un giro meco; ho respinto offerte di moneta che avrebber fatto esitare non dico Emilia, anzi Desdemona; ed ora ch'io sto qui seminuda e chieggo uno per prendermi in braccio e portarmi via, nessuno che si faccia innanzi? Oh signori, signori! le suppellettili ardono tutte: signori, scampatemi da questo vivicomburio e fate di me quel che crederete meglio. Io non ho preso parte alle battaglie di questi giorni; ho soccorso indiscriminatamente i feriti senza chieder loro il partito al quale appartenevano... Oh ma ch'io debba dire che tutti gli uomini di coraggio sono morti ormai? Oh ma sarete tanto vili da non portarmi soccorso? Oh mi vergogno d'avervi implorati, vili! Una cosa soprattutto mi dole: il darmi in ispettacolo morendo a voialtri vili, vilissimi, vili!». E la casa crollò; e tra quel fragore e quelle rovine fumanti risuonavano ancora sulla stupida folla l'ultime sue parole: «Vili, vilissimi, vili».

Domando io se un sonno agitato da simili visioni non isfinisca invece di riposare. Mi riscossi, i compagni eran , presso a' fasci d'arme, quale sonnecchiando, quale fumando: il capitano aveva accesa la pipa. Pietro De Mulieribus fortunatamente dormiva, sennò m'avrebbe declamati altri versi. Io non fumo e m'era passato il sonno: cominciai a fantasticare su quelle strane immagini che mi s'erano involontariamente accalcate innanzi alla mente, e ad evocarle ad una ad una nella memoria ed a sviscerarle. «Per bacco, sarei curioso di sapere cosa poteva essere la mia orazione funebre! Peccato ch'io non abbia afferrato le parole di quel mio panegirista! Bah vediamo di supplire alle lacune del mio sogno come Freinsheimo ha supplite quelle di Tito Livio, e giacché non ho da far nulla di meglio, improvviserò qua, su due piedi, la mia orazion funebre. Imparzialità, soprattutto, mi raccomando, Quattr'Asterischi! Vediamo un po', se io non fossi io, cosa sbraiterei sulla mia tomba? Quell'egregio uomo del barone Taylor diceva: io non chiederei più d'una cosa alla provvidenza; e sarebbe di poter pronunziare alcune parole ben sentite sulla mia propria tomba. Chi ha tempo non aspetti tempo: anticipiamo. Chi sa, se morto una volta avrò più agio o voglia d'occuparmene?». E passeggiando su e giù lungo il fronte della compagnia, mi combinai le seguenti parole commemorative.

 

 

 




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