XVIII
IL
FERITO DELLE PATRIE BATTAGLIE
O
me felicem! o nox mihi candida! et o tu Lectule, deliciis facte beate meis!
PROPERT.
Quando rinvenni era quasi notte e la mano d'un
chirurgo mi medicava e fasciava la piaga un po' arrandellatamente; poi mi sollevarono
e deposero su d'un carro cosperso di poca paglia con due altri gravemente
feriti. Il carro si mosse; era una macchina sconquassata che ci scuoteva
dolorosissimamente; ad ogni trabalzo mi pareva di morire; a mala pena reggeva
ad aprir gli occhi, ma non iscorgevo le cose che in confuso, quasi una
fantasmagoria; e provava uno sfinimento da non dirsi. Si può esser quanto uomo
volete, ma è brutta cosa il soffrire. Mi sfuggì di lamentarmi supplicando un
sorso di acqua; ed un'ombra nera che non si partiva dal fianco della
carrettella, mi porse il refrigerio d'una fiaschetta con acqua e rumme. Così
andammo un pezzo; ed io era ricaduto in uno stato d'assopimento che mi rendeva
insensibile a tutto, tranne al dolore acuto, quando ci fermammo in mezzo ad un gran
convocio ed a molte fiaccole. Mi pare di udire il mio nome, rialzo a stento le
palpebre e discerno lì ritto, con un ridicolo sussieguo, il signor medico capo;
colonnello De'-Miei-Stivali, valente in medicina meno assai che nel sottrar
mezzimilioni; giro gli occhi intorno e scorgo un visibilio di facce: tra
l'altre il chirurgo pseudomilitare che mi avea raccolto nel bosco e che
parlava, parlava, e sembrava render conto della mia condizione. L'umanissimo
colonnello De'-Miei-Stivali quando ebbe udito, veduto, toccato, sputò in terra,
si soffiò il naso e pronunziò questo effato: «Peuh! Male, male. Auguro male! Il
meglio sarebbe di consegnargli un buon colpo di questo revolve nel cranio:
tanto non può salvarsi e gli si risparmierebbe dolore».
«Ma pure,
colonnello...» insisteva quel buon diavolaccio del chirurgo, che vedeva
scombussolati tutti gli studi suoi da questo nuovo metodo curativo.
«Non può
salvarsi, tenente, le affermo io. La palla è entrata di qua, è uscita di là:
probabilmente ha leso un polmone. Deve morire, non c'è rimedio, ve lo
garentisco. Ammazzarlo sarebbe carità».
«Colonnello,»
scappò fuori un borghese, medico condotto del villaggio, che non aveva le
ragioni disciplinari del chirurgo pseudomilitare per ammutolire al quos ego
ed agli ipse dixi del medico capo, «colonnello, io certamente non posso
rispondere del ferito, perché le guarigioni dipendono da mille circostanze e il
corso delle malattie è pieno di impreveduti; ma pure... non per oppormi ai suoi
decreti... tenterei e veggo probabilità di salvare quest'infelice. La palla non
è dentro; il polmone, se pure qualche lobo è tocco, è lievemente leso. Può
morire, ma può campare. Ne ho visti riaversi di molto più malconci. È da
tentarsi»,
«Se volete
fare un esperimento in anima vili...».
«Signor colonnello,»
l'interruppe una voce femminile tremante «se qui vi sono anime vili, non son
certo quelle de' caduti sul campo. Voi date il ferito per ispacciato; il
dottore qua promette di salvarlo probabilmente; ed io, al quale il ferito
appartiene lo affido alle cure di lui. Vi prego d'impartire gli ordini
acciocchè non mi s'impedisca di farlo trasportare dove io crederò opportuno e
dove se non altro potrà morire fra volti amici ed onesti».
Il colonnello
De'-Miei-Stivali si guardò dal rispondere, anzi voltò le spalle e fece come gli
era stato detto. Ah! se l'impunità che i costumi concedono alle femmine per
ogni loro parola, spesso serve a procacciare momenti amari a cuori affettuosi e
gentili, talvolta però le si deve di far suonare alle orecchie degli abietti
quelle verità che la codardia virile non osa spiattellar loro; e le donne son
per questo appunto le più pertinaci ribelli; e ti mettono inesorabilmente al
posto che ti spetta.
Due pappini
diretti dal chirurgo borghese mi presero per sotto le ginocchia e per sotto le
ascelle, ma come e dove mi trasportassero non saprei dire, perché non me ne
ricordo: io svenni di nuovo, e dopo un lungo letargo durai anche più tempo in
faticoso delirio. Comunque sia, c'è una lunga soluzione di continuità nella mia
memoria, ripiena di fantasmi stranissimi, indistinti e da un confuso senso di
dolore.
Quando libero
da ogni vaneggiamento, riacquistai la coscienza de' miei mali e riapersi gli
occhi; mi parve di riconoscere la stanzuccia rustica dov'era il gran letto in
cui giaceva io; ed il rozzo canapè, e quel tavolinetto... ma fui certo di
ravvisare una donnina che agucchiava silenziosamente su d'uno sgabello, né mi
sorprese ch'ella sedesse lì. Ed era? Null'altra che la Merope.
La Merope sì,
ma patita, dimagrata, con gli occhi cerchiati, in semplice vesticciuola di lana
nera; bella però sempre e forse quanto non era stata mai. Le sue ditina
lavoravano spedite spedite, ma l'indovinavi più intenta a' suoi pensieri che a'
punti del cucito. Io me la guardava fiso fiso, quand'essa alzando il capo, mi
sorrise. Chi sa quante notti e quanti giorni la mi aveva diligentemente
vegliato, senza ch'io mai rispondessi ad un suo sorriso, mai la ringraziassi
con una parola assennata di riconoscenza! Ma ora finalmente sì, e quando m'ebbe
porta una medela e ch'io rinfrancato potei raccozzare due frasi stentate, le
feci un regalo maggiore (come potetti accorgermi da un suo quasi infantile
batter palma a palma) che se le avessi annunziata la morte del marito. Ell'era
tanto felice di veder l'effetto della sua bontà, delle sue cure assidue! Io era
cosa sua, doveva a lei la vita: quell'occhio suo aveva un non so che di
benigno, di quasi materno.
Per opera sua
m'avevano raccolto: saputo da un lievemente ferito ch'io era caduto, ricorse
prima al signor colonnello De'-Miei-Stivali, e non potendo questi occuparsi di
futilità simili, s'avviò su d'una carrettella lei col primo chirurgo che si
profferse d'accompagnarla, e con due pappini di buona voglia, pel luogo dello
scontro; dove raccattò me e due altri. Essa aveva aiutato a spogliarmi; essa
aveva porte le sfilacce e le bende al chirurgo; essa aveva fatte otto miglia a
piedi sempre allato alla carrettella; essa aveva dato a bere acqua e rumme al
ferito assetato che non ebbe neppure forza di raffigurarla e di mormorare un
grazie. Poveretta! quanto fastidio si dava per salvarmi la vita, essa che meco
consentiva nello stimare la vita per la meno desiderabil cosa del mondo.
Contraddizioni umane! e quel colonnello De'-Miei-Stivali che notoriamente ama
soprammodo questo pellegrinaggio terreno ed i suoi cosiddetti piaceri; quel
colonnello mi voleva fraternamente consegnare una pistolettata, a maggior
gloria del sommo Architetto dell'Universo; e duro a dirsi, forse, anzi senza
forse, meglio sarebbe stato per me che si fosse fatto non come desiderava
l'amica, ma come pretendeva l'esoso. La morte è meglio del vivere sotto ogni
aspetto.
Merope, come
ho già detto, Merope mi aveva accudito parecchi giorni, senza pensar mai a sé:
aveva negletta ogni altra cura della sua persona tranne di lavarsi il volto e
le mani: essa vegliatrice dell'infermo, essa fasciatrice della ferita. E quando
una donna giunge a sacrificarti la sua ambizione di figurare, d'abbellirsi,
quando abbrevia o sopprime per amor tuo il tempo sacro all'azzimatura,
all'acconciatura, alla pettinatura, all'abbigliamento; quando dimentica il suo
belletto e la sua polvere di riso e la sua cipria e i suoi cosmetici e le acque
di odore; quando smette per accudir te le vesti eleganti; fa più, più assai,
che non uno di noi quando per procacciare del lusso ad una sgualdrina baratta
tutto il suo, o quando perduto in un cosiddetto puro affetto, trascura ogni
dovere di cittadino, d'uomo onorato.
E quel che
vidi, ora ch'era in istato di vedere, mi commuove fino alle lacrime sol ch'io
ne pensi: una madre appena avrebbe fatto tanto! Ci ha sacrifizi, ci ha
dimostrazioni d'affetto possibili solo fra l'adultera ed il drudo, in
quell'amore combattuto e condannato dal volgo che più d'ogni altro offre campo
alla virtù. Merope aveva derelitta la figliuola, comprometteva la fama e
l'avvenir suo, non per abbandonarsi a tumultuosi piaceri, non per godere
secrete voluttà, anzi per consumare melancolicamente le sue giornate al
capezzale d'un moribondo: e di tanto eroismo non doveva sperare che alcuno le
tenesse conto. Ed i moralisti, di quattro al soldo, che pullulano in Italia, se
occorresse parlar di lei, la chiamerebbero una donna perduta, una svergognata.
Ce ne abbiamo tanti omicciattoli, che portano in fronte quel che non sanno di
averci, che han fatto in gioventù spropositi senza scusa, perché gli obietti
eran turpi e gli animi loro spassionati, ed i quali oserebbero vituperare il
santo affetto che avvinceva la Merope pel suo Quattr'Asterischi, la potente
passione che Quattr'Asterischi nutriva per la sua Merope. Quando alla signora
accadeva parlare di questa genìa turpe, ella tremava e sogghignava ad un tempo,
come al vedere un rospo schifoso per la sua bava, ridicolo per la sua laidezza:
quand'io penso a questi codardi mi sento una rabbia in corpo, quale sente ogni
onesto al veder ossequiata l'adiposa sciocchezza e l'impotenza; e penso che la
natura come ha destinato il marmo allo scalpello dell'artista, come ha
destinato il fango a' calpestamenti de' viandanti e le schiene d'asino alle vergate
de' ciucciari, così pure ha destinate quelle facce da' nasi rincagnati a'
sonorissimi schiaffi. Ebbene, sì, l'affetto che ci legava era illegittimo,
adultero. E che poi? non ci burliamo, amici, l'adulterio è una istituzione
sociale né più né meno antica o rispettabile del matrimonio, e del pari
necessaria; essi s'implicano a vicenda; e se uccidi l'uno, nuoci all'altro,
Come la malattia segue gli eccessi, come la pena si atterga alla colpa, così
pure dovunque e sempre che il matrimonio non è giusto ed equo, segue
necessariamente l'adulterio. Occupa la medesima parte nella vita di famiglia
che le vacanze universitarie tengono nella vita della scienza: se il dotto
studiasse e lavorasse sempre sempre per molti anni e per tutti i mesi di tutti
quegli anni sul medesimo argomento, in verità finirebbe per divenire o cretino
o matto; appunto come la caldaia d'una macchina continuamente scaldata e non
ripulita mai, finisce per iscoppiare. Le distrazioni delle vacanze svagando la
mente, la ritemprano e le danno nuova virtù per sobarcarsi a nuove fatiche. E
così appunto l'adulterio ritempra e svaga gli animi e li rende capaci di
tollerare più coraggiosamente le noie ed i sacrifizi della vita coniugale, che
altrimenti finirebbe per istupidirli, per renderli inetti ad ogni passione.
Quindi si ricava di quanto errino coloro che lo chiamano delitto e che lo
proscrivono: mi ricordano que' bravi inglesi che vollero sterminare i passeri,
ed ottenero l'intento; ma ora poi li rimpiangono senza schermo da mille
generazioni d'insetti che quelli efficacemente combattevano. Del resto, lo
ripetiamo, i fatti parlano; e dacché c'è matrimonio, coesiste l'adulterio:
punito spesso dalla legge con mortali supplizi; biasimato, condannato,
perseguitato da vuoti declamatori con quanta enfasi potevano; i costumi e
quella poesia che li rappresenta non hanno mai cessato dall'affermarne la
necessità, la giustizia. Ma v'ha di più. La mancanza d'un contratto,
l'impossibilità di ricorrere alla coercizione giuridica costituiscono
gl'impegni d'onore, i soli davvero santi. Un debito di giuoco è sacro, appunto
perché nessun tribunale lo riconosce; la mercede della meretrice e del ruffiano
sono inviolabili, appunto perché il servigio prestato non è titolo per
pretendere legalmente il salario: e non ammette scusa il falsare uno di questi
obblighi, mentre in molti casi si perdona l'avere abusato del denaro del
migliore amico ed il frodare un onesto negoziante del legittimo pagamento. E
così pure il patto degli adulteri è un patto d'onore, e non gli si può venir
meno senza infamia, quando il fallire alla fedeltà coniugale è mille volte
perdonato da' più severi ed austeri. Non dico che sia bene così, ma solo che i
costumi italiani son questi e che quanto è conforme a' costumi, non può dirsi
immorale. Ma lasciamo questa digressione e torniamo a quella che ora, sì,
potevo chiamar davvero: Medica mia pietosa.
Mi
accarezzava come si fa pe' fanciulli bizzosi e prediletti. Io già proprio era
con lei quasi come un bimbo con la mammina. Non so come, ma naturalmente era accaduto,
che mentre la s'era avvezza a darmi sempre del tu careggiativo; nel parlare a
me non voleva venire sulle labbra che il rispettoso voi. Del lei poi, di quel
goffo spagnolismo, non c'eravamo serviti mai; è una delle mie antipatie; ho un
bel fare, ma quando anche voglio non riesco a chiacchierare per un quarto d'ora
in terza persona con chicchessia; le sconnessioni ancorchè consacrate dall'uso
e dalla grammatica mi ripugnano però sempre.
Tutto era
comune fra di noi. Per un irragionevol vezzo d'amore s'era messa alla dieta
medesima del povero malato, lei sana; e non ci fu verso di ottenere che
mangiasse un po' più concludentemente, per pregarla ch'io facessi.
Non lasciava
mai la mia cameretta, non si allontanava mai da me né giorno né notte: se per
caso io non me la vedevo d'intorno, m'assaliva una inquietudine,
un'irrequietezza, le quali non cessavano che al suo riapparire. I docilissimi
ammalando divengono indocili, ed io non m'era mai piccato d'arrendevolezza; ma
ad una parola sua obbedivo come se non fosse stato possibile di replicare. Ad
ogni mia bizza ella mi faceva un bel ragionamento con vocina risoluta e poi mi
appoggiava un bel bacio in fronte e conchiudeva: «È vero che lo farai? Sì? come
ho detto io? Sì? Bravo!». Sfido io ad opporsi, a ricalcitrare!
Non soffriva di esser medicato da altre mani,
io: ed ella aveva vinte tutte le ripugnanze della donna elegante, mondana, per
le piaghe; tutte le timidezze nel trattare i rimedii. Il dottore consigliava e
prescriveva; ma chi mi fasciava e sfasciava e medicava, chi applicava le
sfilacce e toccava con la pietra infernale era lei, lei sola. Né mai le mani di
vecchio chirurgo che da quarantanni si travagli a
sparar cadaveri ed operar vivi, mai non seppe avere la delicatezza di quella
manina inesperta di donna; di quella manina piccola in guisa che bisognava
ordinarle i guanti apposta, perché i guantai non hanno prevista co' loro numeri
tanta eleganza; di quella manina che fino allora non aveva saputo che agitare i
tasti d'un pianoforte o ricamare borsellini o manovrare col ventaglio o tutt'al
più guidare una penna forse bugiarda su carte profumate; e che ora per la prima
volta trattava tutte quelle rozze e brutte cose.
La sera Merope si
coricava allato a me, nello stesso letto, perché ned io avrei trovato pace
lontano dalla sua assistenza, ned ella avrebbe avuto cuore di starsi tante ore
divisa da me. Io ero tanto e tanto infiacchito dalla ferita, tanto spossato e
ridotto a larva del mio essere precedente; e la gentile era divenuta per me
qualcosa di così materno e sacro, che non pensava neppure a desiderarla. Ma non
avrei potuto addormirmi senza darle la mano: così riposavamo costantemente
vicini sul medesimo guanciale. Talvolta mi destavo di notte soffrendo e non
poteva più richiuder palpebra: allora si riscuoteva anch'essa, m'accarezzava,
mi calmava e mi riaddormentava raccontandomi un sacco di pettegolezzi e
d'inezie: e non si può credere quanto m'interessassero quelle chiacchiere,
quelle ciance in bocca sua. Sera e mattina io la vedeva spogliarsi, vestirsi,
lavarsi, acconciarsi, senza mai perderla d'occhio, perché avrei sofferto a non
averla presente; ma nel mio sguardo non c'era nulla della lasciva ingordigia
dell'amante: avevo assolutamente dimenticato che la Merope era una donna e che
la donna è un soavissimo strumento di voluttà.
Tanto che quando col proceder della guarigione e col
ripigliar delle forze, l'immaginazione rientrando in possesso de' suoi
dritti; come chi dopo lungo esilio torni alle sue case, cominciò a scuotermi da
quel letargo de' sensi, a pormi di nuovo qualche desiderio in cervello, durai
fatica a riaddomesticarmi col pensiero ch'io poteva amar la Merope con ben
altro costrutto che non ne ricavassi da quell'affetto tra il filiale ed il
fraterno. Come appunto le carezze di quelle donne che i costumi ci hanno rese
inviolabili e sacre; così quelle della mia medica pietosa, mi accendevano il
sangue bensì, ma dapprima non m'inspiravano che un desiderio indeterminato
d'amore, e non già il desiderio dell'amore di lei. Poi, quando ebbi cominciato
a ridesiderarla, quando già la guardavo con occhio di concupiscenza, uno strano
pudore mi allacciava la lingua: io provava un occulto rimorso di quelle mie
brame, quasi mi fossi impaniato in una passione incestuosa: mi era tanto
assuefatto a star con lei in una stanzuccia, in un letto, giorno e notte, senza
idea, senza conseguenze, che ora mi figurava un delitto il valicare quella
linea stabilita dalla consuetudine. Tanto gli abiti sono potenti e l'uomo li
cambia facilmente per legge di natura, per dettami divini! E certamente se non
mi avesse profondamente mortificato il ridicolo di quella parte di casto
Giuseppe ch'io sosteneva, certamente non avrei osato mai chiedere.
Pure un
mattino (la cosa andò co' suoi piedi, io non saprei dir come) osai, chiesi. La
Merope arrossì, sorrise, si strinse tutta in sé, balbettò non so che parole di:
«poi! poi!» e ch'io era troppo debole ancora per pensare a certe cose, e
ch'ella non voleva esporsi a vedermi peggiorare, a perdermi per imprudenze
intempestive; e tant'altre chiacchiere che una donna snocciola, spiffera,
infilza quando vuol negare. Io mi era afflitto, aveva messo il muso e stavo di
malumore; allora prese quel suo accento fra il persuasivo ed il rimbrottoso, mi
sgridò, mi ammonì che non voleva vedermi così, che non voleva assolutamente,
che penserebbe e provvederebbe e ch'io frattanto aveva da far quel che mi si
diceva; e poi mi carezzò; e poi mi diede un bacio; e sfido io di resistere alle
stregonerie di quella fatucchiera, di persistere nell'ingrugnamento, d'insistere
nelle richieste più o meno indiscrete! Si sa, l'uomo è il balocco della donna,
ed o consentire o ribellarsi alla fin fine fa quel che s'è proposto la sua
padrona.
Ma quando fu
verso sera, madama ebbe l'infelice ispirazione di farsi preparare un letticciuolo
separato su del canapè e d'alquante seggiole. Io non espressi nulla, ma
m'indispettii tanto che mi venne una febbre da cavallo ed abbandonatomi sul
letto mi diedi a piangere disperatamente. La Merope se n'accorse rientrando in
camera, mi costrinse ad alzare la fronte, a guardarla in faccia e mi pose il
quesito: che c'è? Risposi che non c'era nulla. Ed ella replicò ch'io non
gliel'avrei data ad intendere. Allora io convenni che c'era qualcosa. Ed essa
finì per cavarmi di bocca tutto, tutto. Bisogna avere arrendevolezza pei
malati: il letticciuolo fu disfatto, le materazza e le lenzuola sparirono, le
sedie tornarono al loro posto e quando venne l'ora che ci soleva ritrovare
coricati, la mia Signora era al suo solito luogo ed aveva la mia mano in mano e
come si addormentano i bambini favoleggiando loro dell'orco e delle fate, così
essa mi conciliava il sonno con una lunga storia di certi pettegolezzi;
pettegolezzi orditi a suo danno, da una brutta signora e da un orribile signore
che per amor di lei io detesto cordialmente quantunque non li conosca e ne
abbia finanche dimenticato il nome.
Grazie alle
prescrizioni del buon medico, grazie alla mia robustezza, grazie soprattutto
alle cure dell'ottima donnetta, io andava sempre di bene in meglio; e col rinvigorire
del corpo, ringagliardiva ad un tempo il bisogno d'espansione, di amore; ed
infiacchivano tutte quelle vane immaginazioni che si erano momentaneamente
frapposte fra la Merope e me. Io l'amava più che mai ora che io era certo del
suo amore, certo di non essermi avventurato in uno di quei mortificantissimi a
solo ne' quali sdrucciola tante volte malavvedutamente anche un uomo di
spirito, e che Pier delle Vigne chiamava giocare a faglia. Poi
quell'amare così dopo essere stato quasi morto, dopo che s'era uscito presso
ch'io non dissi dalla tomba, aveva molto degl'impeti, della spontaneità d'un
primo amore; una lunga castità ritempra, rinvergina quasi e mente e corpo. Io
provavo molte di quelle ingenue curiosità. di que' pudori, di quelle esitazioni,
di que' palpiti che non sogliono provarsi che una volta, una sola, quando
s'ignora ciò che si agogna, quando uno può illudersi: ma io avevo quasi
dimenticata l'antica mia sperienza, tutto il passato era come una lavagna sulla
quale la mia ferita aveva passata la spugna.
Ed ella mi
amava davvero ed io n'era convinto. Innanzi agli occhi di lei era sparita ogni
cosa tranne me: un giorno trovai sul tavolino una lettera di casa sua che dal
bollo postale riconobbi esser giunta da una settimana e che pure essa non si
era curata di aprire. Pregiudizi sociali e religiosi, scrupoli, affetto
materno, tutto mi offriva in olocausto e senza farmelo sentire, come cosa
dovuta, epperò voluta. Povera donna! ed io accettava. Sicuro, esser amato da
una giovanetta, da una fanciulla che non ha ancor levato gli occhi in fronte ad
uomo vivente, aver la certezza che siete il primo a mormorarle quelle parole
inebbrianti, a toccarne quelle pure labbra; è dolce. Ma più nobile, più degno,
più glorioso è il conquistare un cuore in poter d'altri, strappare col vostro
amore una donna dalle braccia di affetto diverso per natura o per iscopo. Non
comprendo che gusto abbia a regnare, chi non ha usurpato il trono. E bello è
soprattutto il ridestare nuovo incendio d'amore in quell'animo che n'era già
stanco e che s'era alzato nauseato dal convito che c'imbandisce la gioventù; il
fargli riprendere fede alle illusioni gentili dell'adolescenza, come un arguto
novellatore può di nuovo indurti ad ascoltare i racconti di fate che
dilettarono la tua infanzia.
S'ella ora
non consentiva al mio impaziente desiderio, ciò non accadeva perché volesse più
negarmi cosa alcuna: era mia, ben mia, tutta mia, e scommetterei che si sarebbe
risentita come d'un insulto se alcuno (ma non vedevamo anima viva) avesse supposto
ch'essa non era la mia druda. Si considerava come debitrice a me del suo corpo,
come impegnata dalla parola data; e per quel senso virile d'onore che la
sublimava tanto al di sopra delle pettegole le quali si figurano virtuose
perché non sono state godute che posteriormente ad alcune formalità, per quel
senso virile di onore mi riconosceva tacitamente il dritto di disporre a mio
modo di lei. Ma un certo ineffabile pudore, una ritrosia radicata nell'aver
tanto poco goduto e tanto sofferto per le sue condiscendenze verso altri,
fors'anche il timore che l'appagarmi interamente potesse aver per effetto di
allontanarmi da lei, non altri motivi, l'inducevano a procrastinare.
Debole
resistenza, breve indugio. Venne finalmente una notte, una notte proprio felicissima
come ce l'aveva augurata la contadina deponendo sul tavolino quel gran lume
d'ottone a tre becchi. Io non so, se in quella serata trovai più persuasive
parole; se le lagrime mie ebbero virtù di commuoverla; o se quel bisogno che mi
spingeva verso di lei potesse egualmente su d'essa in favor mio - ma qual che
ne sia il perché, l'amore ci congiunse ed ottenni il guiderdone di tanto
desiderio,
Se fossi
morto allora in braccio a lei, se la mia ferita riaprendosi per quegli sforzi
m'avesse condotto a sputare il polmone e la vita; ci sarebbe un terzo nome da
aggiungere a quelli dei due felici ricordati da Solone a Creso.
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