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Vittorio Imbriani
Merope IV

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  • XI   INTERLUDIO
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XI

 

INTERLUDIO

 

So klammert sich der Schiffer endlich noch Am Felsen fest, an dem er scheitern sollte.

GOETHE

 

Qui ci distrasse Pietro De Mulieribus marciando trionfalmente nel caffè e sbattendo il fodero dello squadrone contro tutti gli scanni e tutti i deschi. Fatto alto presso il bancone ed ordinata una razione di bibita calda, il mio collega osservandissimo bersagliò di barzellette quel Berg-op-Zoom della padrona che cascava di sonno; e poi, visto che non vi apriva breccia, eseguì un front'indietro e ci avvisò: «Bravi! si sta qua voialtri? Permettete, un posticino qui. E di che domine v'intrattenete con quelle facce allibite, con quelle pupille spiritate? Avete nello sguardo qualcosa dello spavento che si pinge in volto all'imprudente soprappreso dalla vertigine, mentre s'incurvava sull'abisso».

«Difatti,» gli rispos'io mentre il coinquilino si soffiava il naso ed il Dalmata versava un altro gocciolo d'acqua calda nel bicchiere «difatti ci affacciavamo sulla peggio voragine la quale possa spalancarsi sotto a' piedi d'un galantuomo. Si parlava di quegli assunti impossibili che, se non c'entra il miracolo, conducono difilato alla demenza. La passione ottenebra l'intelletto; fin dove reggeranno le tue forze? nol sai; dove stanno i confini di natura? nol discerni; e perseveri. Per esempio... quante volte non dubitai se deridere o compatire que' pazzi che in buona fede vorrebbero destare qualche scintilla d'onore, qualch'entusiasmo per la virtù, qualche ombra di dignità nell'animo àpata e brutale delle plebi? Stolti, chi vi abbada? che vi pensate di conchiudere? Siete come il misero amante che s'abbatta e s'arrabatti con donna insensibile: non saxa surdiora nautis».

«A chi credi parlare?» m'interruppe Don Pietro. «Non t'ho mai recitati de' versi scritti alcuni anni fa?...».

«Sì, sì, sì; me ne ricordo a meraviglia».

«Ma questi signori non li sanno; li dirò per loro. Ehi tavoleggiante, non ti dimenticare poi quella bibita, sai!...».

«Come!» gridò la padrona dal banco. «Il signor Tenente non è stato servito?».

E Pietro: «Favorito sempre; ma chi dà loro l'esempio della noncuranza verso me, chi, se non Lei, padrona?». Poi rivolto a noi c'imbandì gli sciolti seguenti, de' quali lo avremmo dispensato volentieri.

 

 

NON SAXA SURDIORA NAUTIS

 

1.

 

Poi che t'aggrada di spregiar quantunque

Lo squallor de la vita in parte asconde;

Poi che in effigie da la man balzate

Di tacito scultor, più vita ferve

Che in queste membra Tue; né il primo io sono

Né l'ultimo sarò che indarno affatto

Qual ch'e' sia (stima, amor, cruccio, abominio;)

Mendichi prosternato alla Tua soglia;

Pietà mi desti, misera! e perdono

La noncuranza che a mio danno mostri.

Chi mai più degna di compianto? Ha senso

La belva, il tronco, il sasso; e Tu, più scoglio

De' Tuoi sterili monti, in quel marmoreo

Volto né affanno, né piacer palesi.

Mira! or mugghiando con la ripa il flutto

Cozza e vieppiù che non minacci adempie;

Ed or vezzeggia ed accarezza il lido

Umile come il volgo inanzi all'are.

Mira! talvolta il ciel di gaudio avvampa

Risalutando il sol; poi, quand'e' parte

Rannuvola la fronte e lacrimoso

Ha di stelle il sembiante. E quest'antica

Terra or le vesti e la sua chioma infiora,

Or disadorna sta come una estinta.

Perché affermi o smentisca o spieghi i detti

Ambigui diè madre natura all'uomo

Mobile il volto, e pallidezze e pianti

Spontanei e risa ed il rossor pudico.

L'aspetto uman certezza reca e indarno

Studia a domar l'ipocrisia siffatta -

mente ogni corda che al voler sia schiava.

Che Tu sia d'altra stirpe? o di qual saldo

Metallo disarmonico hai le fibre?

Né mai l'ira o l'amor, né mai cordoglio

Né mai letizia spetrerà quel seno?

Dimmi e sonata l'ora che al pentirsi

La via preclude, lascerai la vita

Come tutta l'hai corsa, immobil, muta?

Se punto punto la vaga assomigli

Che il primo artista sviluppò dal marmo,

D'uopo non era che nell'astio i numi

Lo avvincesser sul Caucaso a pastura

Degli avoltoi, purché solo ei l'amasse.

 

 

2.

 

Ma forse, come quella pace indizia

Ch'è in Te perfetta, profuga d'Olimpo

Fra noi T'aggiri? A' servi Tuoi benigna

Deh! sii, ché muno d'adorarti piega.

La destra, o numi, l'uom vi porge; e un sacro

Patto antico rinnova. Oh! se una volta

Monti su monti in odio al cielo alzammo;

Se al vostro fulminar cittadi e colti

Sommerse di petrolio una laguna;

Se fu tiranno il cielo e l'uom rubello;

Di que' tempi vestigio or non avanza:

Tal, poi che a' suoi confini ognun ritorna

Vengon meno de' popoli i corrucci.

Diè l'immortalitade a numi il fato,

Immota sempre; a noi morte e gli affetti.

Sovra le nubi, oltre le stelle, il regno

Squallido dello informe a voi soggiace,

Lo spazio e il tempo che non son nel luogo;

La natura benigna a noi più vaga

Stanza e una tempra più gentil concesse:

Nostro è questo pianeta; è de' mortali

Retaggio; non v'ha impero altri; ma lieti

Si accorda ospizio a chi dell'etra scampa,

Che teatro non è d'opre e d'eventi,

E la leggiadra umana forma veste.

Le dolcezze d'amor vosco partimmo;

Fuman d'incensi e d'olocausti l'are

D'ex voto adorne; e svelti dalle viscere

Del globo i marmi eccelsi templi formano;

Come il selvaggio che imbandisce all'ospite

La propria figliolanza e la sua femmina

Gli offre, noi siamo; e scelte umane vittime

O che le scuri appo l'altar le prostrino,

O che lunghi anni là ne' chiostri gelidi

Languiscano sepolte, a voi non mancano.

Né voi già su' patiboli ed in campo

Grati all'ospizio, sanguinar sdegnaste.

 

 

3.

 

Donna, Signora, Dea, quell'io di preci

Vergine ancor, che sol fui visto in chiesa

Civettar con ragazze o mirar quadri;

Che la certezza d'un'eterna morte,

Che strema vita d'esule antepongo,

All'inchinarmi ad ogni imposta legge;

Quell'io mi prostro e priego a Te. Che soffra

Non sai, né intender puoi; Tu che nel petto

Tanta serenità celeste alberghi!

Volgimi un guardo che la incerta rotta

M'incuori a prorseguir; come di marzo

L'alito che inginestra il mio Vesuvio

Co' baci l'arso cor di speme infiora;

Porgi il bel corpo a me quasi spumante

Bicchiere a stanco peregrin profferto. -

Ch'io sia predestinato a suscitarti

A nuova e miglior vita? A dirti: surge

Et ambula? Ch'io sia promesso in sogno

Già da gran tempo al Tuo core tranquillo,

Tranquillo come il mar che non tempesta?

Darsi non può che un tal strumento suono

Non tramandi; ma l'alma agghiaccia in questi

Freddi, al par de' torrenti. Oh viènne, dove

Nacqui, laggiù! Germoglieratti amore

Nel guardo, nel pensier, nel cor, nel riso.

Così, tornando primavera, il seme

Sparso da' venti su' ghiacci invernali

Spunta dovunque come vago fiore.

 

 

4.

 

Ma no! T'amo qual sei. Bel sasso, oh resta,

Deh resta sasso! sperda il vento il matto

Voto; io non so quel che mi chiegga. Amara

Troppo è la vita degli affetti, e logra

Quel non trovar mai posa al par degli astri

Che perlustrano il ciel. Non vo' che pianto

T'annebbî il guardo sereno. Rimanti

Qual Ti conobbi. Io che sospiro e bramo

Che ogni brama, ogni affetto, ogni lusinga,

Grazie alla morte, il faticarmi cessi,

T'imprecherei la vita, a Te? No, s'anco

Bastasse un detto a tràrmiti d'innanzi

Supplichevol di quanto indarno or chieggo,

Avrei ritegno a profferirlo. Dura

Quale appresi ad amarti; e serba quella

Pace infinita, insolita, diffusa

Sovra ogni Tua sembianza, e d'infinita

E d'insolita invidia or fatta segno.

Chi sa se del cor mio lo specchio ancora

Rifrangerebbe la mutata immago?

Come la luna all'ansio globo, schiva

Per que' brevi anni che vivrò, m'aleggia

Irraggiungibil meta ognor davanti.

La vita stanca, perché assegui; e al nudo

Sembra ogni cencio porpora. Il conteso

Tuo godimento mi sarà conforto

A mai non disperar nell'ardua via.

Stolto chi nel castel fatato, scosse

Dal sonno antico col predetto bacio

E principessa e cavalieri e fanti.

Sull'intatto manier gli antichi dritti

Da quell'abbraccio inauspicato il tempo

Riprese, e sasso scatenò da sasso:

Pochi secoli e al suol giacque ruina!

Pochi soli e canuti e fiacchi e spenti

Fur principessa e cavalieri e fanti!

 

«Sicuro!» ripresi io che non aveva dato punto retta alla declamazione. «Non c'è peggio d'amar l'insensibile. Soffri, e non ti si abbada o si scherza col tuo dolore e si scandaglia per giuoco la piaga; parli, e si pensa ad altro e non ti si risponde o si pongono in burla que' tuoi discorsi; deliri, e si passa oltre o si ascoltano sorridendo quei tuoi vaneggiamenti come sogliamo conceder l'orecchio a' vaniloquî d'un demente. Ed ogni tuo dire e fare e soffrire è indarno: non perché tu sia persona ingrata od altri anteposto, anzi perché ami un sasso. Che puoi sperare dalla pietra? Non c'è peggio dello spossarsi inconcludentemente così, quando la forza d'inerzia che t'affacchini a scuotere prevale sugli sforzi tuoi. La pugna è piccolo travaglio, la disfatta è lieve cordoglio quando hai avuto che fare con un avversario sensibile, al quale hai potuto aggiustar colpi anche tu, che s'è travagliato anch'esso, col quale potrai riappiccarla. Ma fiaccarsi le corna contro un muraglione sordo alla tua bestemmia, inconscio del danno che t'arreca o che gli arrechi! Rappresentare il simillimo di quel babbuassaccio ch'è il mare, e che da un novero non ben determinato di millenni batte e sbatte e ribatte le sponde senza guadagnare un pollice di spazio sull'arena, senza ammollire o piegare lo scoglio!...».

«La più crudele imprecazione del nostro volgo» annotò il Dalmata «è questa: che possa vegnì innamorao d'un saxo».

«A chi credono parlare?» commentò De Mulieribus. «Quel che voi dite in metafora, io l'ho sperimentato in effetti: né so ripensarvi senza sgomento immenso, infinito. Ve' i curiosi! peggio che femminette: voglion sapere e come e dove e quando. Sia pure, a' vostri comandi...».

«Altri versi, Pietro?».

«Prosa, Quattr'Asterischi, prosa! Narrerò da cronista fedele, e poi? Loro conchiuderanno con una risataccia; ed io? cantando il duol si disacerba. Bottega, portami poi quella bibita con tutti i comodi, che non c'è fretta! Sarà un'ora che l'ho chiesta! Eccomi a loro, signori».

 

 

 




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