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Vittorio Imbriani
Merope IV

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  • XIII   AVAMPOSTI E BIVACCO
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XIII

 

AVAMPOSTI E BIVACCO

 

Verum

Nil securius est malo poeta

MART. XII 63. 13

 

Non moltissimi giorni dopo, io stava di guardia agli avamposti con mezza compagnia, ch'è una guardia faticosa, ma divertita; s'era dormito poco e male la notte, ed ora ci tribolava la fame internamente ed un sole infiammato esternamente. Per non saper che fare m'incamminai di sentinella in sentinella, finché giunsi all'ultima, quella più spinta, all'estremo d'un poggetto, la quale m'indicò sulla cima d'un colle rimpetto fuori del tiro de' nostri pessimi fucili, le scolte nemiche. La noia di vedere le uniformi bianche senza poterci accapigliare, lo scarso mio sonno, quel sole, mi fecero venire a sbadigliare peggio d'un ramarro. Nello stirar le membra mi sentii non so che di duro sul petto: era il ventaglio rubato alla Merope e poi dimenticato ma che mi si ricordava opportunamente; lo adoperai subito per procacciarmi un po' di refrigerio.

Ben presto ci accorgemmo che la fazione caiserlicca avea dato l'allarme e che un uffizialotto ed un sottuffizialuccio accorsi ci esaminavano col cannocchiale; perché godessero meglio lo spettacolo mi misi a passeggiare avanti e indietro squadernando e richiudendo il ventaglio, come avrebbe potuto farlo quella civettuola della mia Merope in un salotto. Il lanzichenecco spianò il fucile e mi prese di mira; ma quantunque il suo fucile fosse di portata maggiore de' nostri, non credo che mi avrebbe potuto toccare; del resto non mi conveniva di muovermi e non mi mossi, aspettando; però l'uffizialotto caiserlicco gli fece rialzare la canna: risposi all'atto cortese salutando col ventaglio, egli fece altrettanto col berretto e se n'andò pei fatti suoi. Probabilmente non ci rivredemo più mai.

Quando piacque allo smemorato nostro aiutante maggiore, un'altra compagnia venne a rilevarci con la solita fiaccona; e mi fu rimessa una letterina anonima di mano incognita: essa mi annunziava che una persona la quale aveva bisogno di parlarmi, mi avrebbe aspettato nella tal casa del villaggio dov'era il Comando del mio e di parecchi altri reggimenti. Ritenni l'invito come un'edizione fuori stagione del pesce d'Aprile, tentata da qualche compagno e pensai fra me e me: «Non me l'accoccherai».

Giungemmo in paese cascanti di sonno e di fame. Facemmo i fasci d'arme sulla piazza e poi ci venne raccomandato di non allontanarci troppo e d'esser sempre all'erta, perché da un momento all'altro poteva trasmettersi l'ordine di partenza. «Bono!» pensai «pare che il riposare un pochetto come va, ci venga esplicitamente vietato, proviamoci almanco a far colezione». Ma non durai fatica ad accorgermi che era esorbitantemente temerario nelle mie pretese. Viste le posizioni nostre e del nemico gli era evidente che nelle ventiquattr'ore dovevamo venir alle mani: solo, era incerto ancora chi attaccherebbe se noi o lui; ora è tradizione gloriosa, è una delle più care consuetudini dell'esercito italiano che il soldato non possa venir condotto al fuoco se non è digiuno almeno da un quarantott'ore, tanto per trovarsi più svelto e robusto. Da Novara in poi l'è sempre andata a questo modo; l'andrà sempre così, perché il dirizzone è preso, e perché se i fornitori rubano a più non posso, anche dove e quando rischiano d'esser fucilati, figuratevi poi in Italia dove non so se la mollezza o la complicità di chi dovrebbe reprimerli, assicura loro l'impunità. Insomma non v'è legge d'onore, non v'è prescrizione del regolamento di disciplina, non v'è dettame dell'arte bellica, che venga nell'esercito nostro eseguito con la scrupolosità con cui si osserva cotesto rigoroso digiuno istituito dalle sussistenze militari per ogni vigilia ed antivigilia di quelle tali feste di doppio precetto volgarmente addimandate battaglie.

Giacché bisognava digiunare, trovai un posticino all'ombra, mi scinsi la sciabla, mi ravvolsi nel mantello e cercai di addormentarmi, tanto per ingannar la fame; i miei sonni non potevano andar vuoti di sogni; né questi della immagine amica di Merope bella.

 

Mi pareva che nel buio fitto d'una notte, la mi fuggisse dinanzi in veste succintissima, tutta ristretta nello scialle, tutta chiusa nel velo: ma fidatevi all'occhio dell'amante quando si tratta di riconoscer la sua donna. Il cupo velluto delle vesti, l'imbacuccatura nello scialle, il fitto zendale, l'impeto delle mosse, la densità delle tenebre notturne, il barbaglio delle fiammelle del gasse che incontravamo nella rapida corsa, non mi occultavano un suo gesto, non m'inforsavano sulla identità sua. In qual città e da quanto tempo le tenessi dietro o dove l'avessi incontrata, non so: la seguiva di vicoletto in vicoletto, di straducola in istraducola, di piazzuola in piazzuola, in ogni sua giravolta, ricalcando col piede le sue pedate, spingendomela innanzi come il cacciatore si spinge innanzi la preda. Ella si rivolgeva di tempo in tempo, e vedendomi così presso accelerava vieppiù il rapido passo; ed io faceva altrettanto, ma ned ella giungeva a dileguarsi, ned io ad afferrarla, sicché si rimaneva alla stessa distanza sempre. Ella sembrava sgomenta: io ne sentiva l'anelito grave, affannoso, come del gladiatore che vinto nella fuga, già si sente sopra il gladio del competitore. Ma perché fuggirmi ella in tal guisa? perché inseguirla io? Quali sospetti o quali diffidenze erano insorte fra di noi? Forse che io temeva ch'ella recasse ad altri quelle membra, desiderate ministre di voluttà? forse che ella fuggiva qualche subitanea e motivata mia collera?

Così sboccammo sulla piazza del Duomo: la luna cospergeva di luce quella sterminata mole marmorea, e l'inargentava dal sommo all'imo, come un sudario involve tutto uno spettro. La intiera piazza brulla, deserta, si sciorinava innanzi a noi come un mare placido. La donna si diè a traversarla: ed io, se qualcuno ci avessi visti, sarei stato creduto l'ombra del suo corpo. Ella s'indirizzava verso la chiesa come uno schifo s'indirizza verso il porto che gli stende incontro ambedue le braccia de' suoi moli; e raggiunta che l'ebbe, ed ascesa la gradinata, s'ingolfò nella porta maggiore e disparve.

Anch'io m'introdussi sotto le vaste navate della cattedrale, ma in quelle tenebre che succedevano al chiaro di luna, la perdetti di vista: gli occhi la cercavano indarno mentre io girava su e giù rifrugando ogni angolo, ogni cantuccio del tempio. Cantavano il Miserere, deprecavano con quella spaventosa cerimonia notturna l'ira supposta del loro favoloso Iddio. L'orrenda preghiera, che io direi bestemmia, echeggiava terribilmente ripercossa da quelle ampie navate e piombava più crudele su quei petti stessi che l'avevano esalata: Miserere mei deus, secundum magnam misericordiam tuam.

Io però son troppo avvezzo a' ripetii delle donnicciuole perché lo spettacolo mi turbasse un attimo solo ne' miei propositi. Che altri implori dal fato di risparmiargli il fiele dopo gustato il dolce; che altri si lasci da vane paure atterrire dal godimento possibile: io no. Io cercava qui la mia donna, colei che doveva darmi la piccola parte di felicità predestinata alla mia vita e che per istolti scrupoli si negava di somministrarmela. Io l'aveva inseguita fino in quel luogo d'asilo e l'avrei strappata dal confessionile, divelta dall'altare, per richiamarla al più dolce e più sacro dovere di natura: amar chi t'ama. Ma dove s'era mai dunque appiattata? Infinite erano le astanti, e tutte genuflesse, tutte in veste bruna e con la fronte piegata e col velo calato. Ogni bocca ruttava singhiozzi e preghiere e l'organo profondeva un'armonia fragorosa e come il rovaio sbatte le fragili canne, così appunto prosternava col soffio quelle turbe servili e tremanti che gridavano: Et secundum multitudinem miserationum tuarum: dele iniquitatem meam.

Gli sproni miei risuonavano su quel pavimento fatto di tombe e vuoto sotto; la mia sciabla urtava gli angoli de' pilastri. Era un pezzo e rifrugava invano la chiesa; ma finalmente, sì, eccola! questa ch'è lì ginocchioni, non puole esser altra che lei. Riconosco l'atteggiamento; le vesti son quelle: l'occhio dell'amore non s'inganna. S'è posta qui innanzi per isfuggirmi, perché sa ch'io so le sue abitudini e che avrei cominciato dal rovistare tutti i luoghi bui e solitari. Merope mia, ti ho colta! Me le inginocchiai allato, mentre sul capo mio rombava come un brontolar di tuono il versetto: Amplius lava me ab iniquitate mea, et a peccato meo munda me.

E cominciai a dirle, a quella Merope velata, quanto io l'amassi ed a chiederle mercede, ad implorarne il dolce guiderdone d'amore. L'ammoniva che per lei, cosa salda, non c'era quella scusa del mostrarsi inesorabile che si ammetteva pel suo dio, cioè il non esistere. Se quelle turbe lì deprecavano sciagure, supplicavano pace, io offriva a lei di soffrir qualunque massimo dolore purché... purché prima io me l'avessi goduta. Oh sì, miserere di me, buona Merope! goderti a qualunque o patto o costo! goderti ed avvenga che può, vuole o sa! Ed ella ascoltava, senza consentire, ma senza ritrarsi. Finch'io le chiesi lì, tosto, un bacio; ed alzai il velo per darglielo. Allora la testa lenta lenta mi si rivolse, senza carne, senza cute, un cranio; due orbite vuote si fissarono sugli occhi miei; due braccia ossee afferrarono e contennero le mie braccia; e mentre io cercava svincolarmi, sentii due fetide mascelle comprimermi la bocca. Ed il coro cantava intorno a me: Quoniam iniquitatem meam ego cognosco et peccatum meum contra me est semper.

Mi svegliai: c'era un bel sole ed io stava all'aria aperta. Non s'udiva altra voce che della vivandiera la quale gironzava offrendo acquavite a' soldati; e chi mi aveva afferrate le braccia e mi scuoteva era Pietro De Mulieribus, sottotenente nella mia stessa compagnia, detto da tutti galantuomo e sedicente poeta. Io lo conosco da otto anni e non saprei persona che meglio incarnasse l'archetipo dell'amico vero. Non ha mai dimenticato di restituirmi que' bezzi ch'io non gli ho prestati; non ha mai dato opera a sedurre quella moglie ch'io non posseggo; né mi ha truffato in quelle partite a tre sette ch'io non ho mai giocate seco. L'incontrai la prima volta in un vagone di seconda classe, fuori d'Italia: converrebbe avere sperimentato che voglia dire lo star mesi e mesi senza udire i cari suoni della madrelingua nostra per comprendere come due possano sedere alla tavola rotonda dello Struzzo in Norimberga estranei affatto ed alzarsi amici dopo un paio d'ore e cinque o sei bottiglie di Reno. Ed amici siamo perdurati attraverso infinite vicende. Di tempo in tempo secondo che la fortuna o forse anche un po' di pazzia ci balestra, ci troviamo a faccia a faccia or qua or là, quando in tunica da soldato, quando fra gli scaffali di polverosa biblioteca, quando e più spesso in uno de' centomila siti dove non si capita né per amor di patria né per amor di scienza. «Oh se' tu qua?». «Che buon vento?» e si rappicca il dialogo interrotto certo da mesi, forse da anni. «La facciamo una partitina a scacchi?». «Una no, bello; due sì» ed eccoci trasformati in taciturni Cancellieri dello Scacchiere. E così campiamo qualche settimana rimembrando, almanaccando, filosofando, scaccheggiando; e poi, una stretta di mano,

 

Io vêr Gerusalem, tu vêr l'Egitto,

 

a buon rivederci. E non ci separammo senza desiderio, mai; e non ci rivedemmo mai senza giubilo: lo starsene alla larga è una gran sicurezza per la durata delle amicizie.

Ma la norma per cui dura il mondo, vuole che ogni cosa rinchiuda un germe dissolutivo, il quale o prima o poi l'annichila; ed eccomi pronto a spiegarvi quello che affretterà l'ora fatale della nostra bella amicizia, degna piuttosto de' secoli eroici che di quest'epoca corrotta, degenere. Pietro ha un difetto imperdonabile: si crede, o almeno vuol che lo si creda, o se non altro vuol che si creda ch'egli si crede poeta. Guai a capitargli in camera, dove si studia d'attirarti adoprando ingannevoli lusinghe! guai! T'inchioda in un seggiolone, ti preclude ogni fuga, e... e... e que' suoi versi (non dico di no, io) saran fior di roba; ma sentirli venir giù come una pioggerella fitta per una e due e tre ore... l'è supplizio da forsennare, sapete? e poi! udirli oggi, bene! - e udirli nuovamente domani per ammirare dei mutamenti, ahimè! - e udirli un'altra volta dopo l'anno per giudicare se li ha ben rifatti, ohi! - e udirli una quintadecima fiata dopo un lustro per verificare se fan sempre lo stesso effetto, uff! - Invano tossisci e sbadigli e sputi e ti soffi il naso e ti divincoli! Inesorabile come l'avvoltoio del Caucaso, Pietro non isghermisce la sua preda:

 

O non vede o non cura o non s'avvede

 

legge, leggicchia, rilegge: «Non voglio tediarti, solo un'altra poesiuccia, e basterà per oggi; il resto, a domani. Veggo che sei un po' stanco: questa pagina e ti lascio in libertà; ci combineremo poi qualche altra volta. Se non ti spiace, pochi altri versi: non ti pentirai di ascoltarli. Due minuti ed ho finito. To', questo componimento era il migliore: hai da sentirlo e, parola d'onore, fo punto». E così promettendo sempre d'ultimare que' tormenti, via di carriera! Ed io, quantunque oltrepassino ogni limite d'umana sofferenza, rassegnatamente li ho sofferti, alla Cleopatra, deliberata morte fierocior, senz'arrischiar mai un appunto, un dubbio, un biasimo a scanso d'inutili ed interminabili discussioni. Quanto questa rassegnazione m'abbia a costare, ne sia giudice chiunque conosce la mia intolleranza d'ogni nullità poetica... a cominciar dalla mia propria.

Ed ora anche lì nella milizia su quella piazzuola dov'io dormicchiava nella polvere aspettando il segnale per marciare incontro alla morte, quel bravo ragazzaccio veniva a rompermi il sonno ed il capo con le sue velleità poetiche: cosa da mandarlo al diavolo, se vi fosse un diavolo; o da pregare che dio lo confonda, se esistesse un dio! Veniva a pregarmi di un giudizio sincero, schietto, leale intorno alcuni suoi deboli prodotti poetici, ch'egli tempo prima aveva indirizzati a non so quale sua Signora e Padrona: era un lavoruccio tenuto sino allora gelosamente occulto a tutti, e solo a me per via della grande amicizia e delle circostanze straordinarie, lo manifestava. Quell'omo lì aveva giurato di farmi bestemmiar finanche la guerra! e veramente era venuto al campo io preparato e deliberato a soffrir fame, sete, stenti, vilipendi, malattie e ferite ed anche la morte: ma non i suoi versi; e se avessi potuto prevederli il mio zelo bellicoso si sarebbe raffreddato se non estinto, gnorsì!

«Per dedicarle questi pochissimi versi, fra' tanti scarabocchiati per lei, m'è d'uopo nascondere il mio nome ed il suo. Tu stupirai ch'io osi por mano a' metri lirici. Ma che? ci ha versi e versi: alcuni scritti dal poeta pel secolo, altri per sé. I primi sono splendide gesta, da pochissimi, e la fama ne dura quanto il moto lontana; i secondi sfuggono involontariamente da' petti commossi, come un sospiro. Questi miei appartengono all'ultima classe: poco male adunque se rimarranno noncurati o se il vento li disperderà, come avviene de' sospiri appunto. Alla Signora e Padrona mia ricorderanno nel viaggio, che le auguro felice; nella villeggiatura, che le desidero lieta; tale che da gran tempo è suo e che non sa e che non vuole rassegnarsi a non poterlo esser sempre. Pur ch'ella non dubiti mai del suo, oso dirlo, più sincero amico!».

Credereste ch'io ebbi la dabbenaggine di commuovermi al sentirlo parlar così, tutto agitato, co' lacrimoni agli occhi ed uno stracciafoglio in mano? Amante, sapevo compatire ai ridicoli che dà l'amore. Mi proffersi pronto ad ascoltarlo. Ned egli se lo fè dir due volte e mi mitragliò de' versucciacci che volendo potrete leggere qui trascritti:

 

 

CORAGGIO

 

Nuove speranze allegrano

Il derelitto cuore;

E nuovamente a ridere

Or mi comincia amore.

Vò incontro a nuove lacrime,

Vò incontro a nuovi affanni,

Sprezzante, ancor che memore,

De' miei passati danni.

Così bramosi corrono

Nella mischia i guerrieri,

Poscia che a stento incolumi

N'emersero pur ieri.

 

PARTENZA

 

Né la mia voce scernere

Tra 'l fremito del mar:

Né puoi veder la candida

Pezzuola sventolar;

Né per contarne i palpiti

Pormi la man sul cor;

Né sculto in petto leggermi

L'alto, infinito amor.

 

NULLA CHIEDE

 

Non T'ho chiesto né un bacio, né un guardo,

Non T'ho detto un sol detto d'amor.

Le parole son suono bugiardo!

Col silenzio T'ho aperto il mio cor.

 

AVVENIRE

 

T'amo al par della patria, ad un modo:

Senza pianto codardo sul ciglio.

Notte e giorno incalzarti non godo

Con preghiere, con guardi e sospir.

Ma per saldo e maturo consiglio

T'amo, come una legge giurata,

Come s'ama l'insegna spiegata

Che si segue sul campo a morir.

E se invano io dovessi bramarte, -

Come altero pel rigido esiglio

Il tribuno sconfitto si parte,

Partirommi, o leggiadra, da Te!

Senza pianto codardo sul ciglio

E col labbro atteggiato al sorriso,

Ma coll'animo infranto e diviso

Ma perduta ogni speme, ogni fé!

 

 

VENDEMMIA

 

Dovunque ride un grappolo

Tra foglia e foglia qui,

Verran della vendemmia

Tra poco i canti e il giubilo,

Tra poco i lieti dì.

Oh! in mezzo ai canti e al giubilo,

Teco, amor mio vagar!

E quando in ciel sfavillano

Di notte cento fiaccole

Ebro al Tuo fianco star!

 

 

MOSCA

 

Quel vino che suggi, t'inebria e t'attosca;

Tu muori aspramente, turbandomi, o mosca

Ingorda, il diletto ch'io provo nel ber.

Così, sventurato, bramando costei

Vò incontro ad affanni, turbando anch'a lei

Quell'ore serene che i fati le dier.

 

 

IMMUTABILE

 

Ben dici, e indarno. Depor non posso

L'antico affetto come un vecchio guanto:

Ben puoi dall'occhio strapparmi il pianto,

Ma quel sogno non puoi trarmi dal cor.

Mi scende in petto la tua rampogna

Qual pioggia fra l'arena, e nulla giova.

Eco non desta: regnar vi trova

Come il silenzio nel deserto, Amor.

 

 

BERSAGLIO

 

Bruna pupilla che mi suscitasti

D'amor nel petto il desiato incanto.

Qual dotta e pronta man da' bianchi tasti

Sprigiona l'armonia che induce al pianto;

Bruna pupilla, alla memoria mia

Presente sempre, al par delle canzoni

Che ne' be' giorni dell'infanzia, han pia

Forza di tranquillarci co' lor suoni;

Bruna pupilla! se mai giorno spunti

Che in te figger potrò l'ardente bocca,

Della vita avrò i termini raggiunti,

Come la palla che il bersaglio tocca.

 

 

LAGO

 

Sei come un'acqua limpida di lago

Che la maggior tempesta increspa appena,

E in grembo a cui di rimirarsi è vago

Chi provvido destin sul lido mena.

Nudrita da purissime sorgenti,

Nascosa in cima della vetta aprica,

Non la infanga la piena de' torrenti,

Non la costringe umana opra nimica.

Potess'io come il sole alto levarmi

Bello di gloria e di splendor l'aspetto!

E nel gelido Tuo grembo specchiarmi

E co' raggi d'amor scaldarti il petto.

 

 

BARCAIOLA

 

Siede a poppa e fida al vento

La succinta barcaiola:

La navicella trascorre sola

L'onda del lago col suo solco lento.

Tu così fidando al fato

Solchi il pelago del mondo;

Implorando che un soffio secondo

T'adduca ad un sepolcro riposato.

 

 

CEFALALGIA

 

Muove la terra per lo spazio, in tanta

Folla d'astri s'aggira, e in man l'azzurra

Coppa del mar leggiadramente reca,

Che forse un assetato astro lontano

Del cielo in qualche scuro angolo aspetta;

Ned una stilla trabocca. E Tu muovi

Alla mia volta, con la tazza colma

Del più amaro caffè; scherzando, prima

Di darla, un sorso del licor libasti. -

Ove il labbro apponesti, il labbro apposi.

 

 

SOGNI

 

Veder vorrei su quella bruna vetta

Trasparir dal fogliame una casetta;

All'infelice

Sognar s'addice.

E trasparir da' cortinaggi in quella

Stanza romita una gentil donzella;

All'infelice

Sognar non lice?

E trasparir dagli occhi a quella vaga

Ch'ella d'amarmi e di null'altro è paga.

All'infelice

Sognar disdice.

 

 

INDARNO

 

Dallo scoglio infecondo non suscita

Mai la piova né un'erba, né un fior;

Nel tuo petto le tante mie lacrime

Non han desta scintilla d'amor.

 

 

DISPERAZIONE

 

Nulla sperar degg'io!

Detto me l'hai tu stessa:

Pur di sperar non cessa

Costante il petto mio.

Nulla sperar degg'io!

Tu 'l dici e formi un riso;

Io noto il tuo sorriso

E la parola oblio.

 

 

FIUME

 

Gli alberi e i fiori allettano

A trattenersi qui;

Qui tutto è pace e giubilo

O fiume melancolico

Perché fuggir così?

«L'onda solinga e cupida

Geme in lontano mar:

Amor m'incalza, e vommene

In quell'algoso ed algido

Amplesso a riposar».

 

 

LA ROSA

 

Spiccata dal verde cespuglio fragrante

Ti ride in pugno trepida una rosa:

Fuoco negli occhi l'invidia sprazza

Alla bambina che teco scorrazza,

Concessa alle braccia di cupido amante

Tale un dì riderai trepida sposa:

Forse sprezzante, fors'anco ignara,

De' miseri che invan t'avranno cara.

 

 

QUEL CHE SO

 

So che t'ho resa misera

So che ti costo lacrime

Ma t'amo tanto!

So che fra noi s'innalzano

Saldi, infiniti ostacoli,

Ma t'amo tanto!

So che t'appresto assenzio

Quando a sperar persevero

Ma t'amo tanto!

Ma so che a me benevola,

Tu sai, né punto biasimi

Ch'io t'ami tanto!

 

 

LETTERE

 

Poveri fogli da lei vergati,

Dolci reliquie di tanto amor;

Quasi a memoria v'ho già mandati,

Pur sempre in mano prendovi ancor.

Per voi m'inebbrio quasi d'accanto

L'avessi; e i mille baci vi dò,

Che alla sua destra, che sul suo guanto,

L'ingordo labbro figger non può!

Bei dì d'affanno, bei dì d'affetto

Addii che lievi rendea la spen!

Nel rimembrarvi mi balza il petto,

Quant'ho perduto comprendo appien!

Deh! pria che giunga l'infausto giorno

Che s'oda in chiesa quel sì fatal,

Che il vago capo di mirto adorno

Solo non posi più sul guancial;

Vo' ancor vederla! Vo' che al mattino

Ancor gradisca fiori da me;

Sederle a mensa voglio vicino,

Mentr'ell'agucchia, sederle al piè;

Udir dal dolce suo labbro, ch'ella

Felice è quanto sperar si può;

L'ultimo vale, come a sorella,

Ultimo un bacio, donarle io vo!

Addio fanciulla! Vergine addio!...

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

 

«Che te ne pare?» disse quel boia conchiudendo la lettura.

Dovevo spiattellargli il pensier mio? Ma veramente io poco gli aveva dato retta; la mia fantasia cullata dalla sua monotona declamazione aveva preso il volo e si affaccendava con un pranzo, un letto ed una compagna da letto immaginaria: ed a vergogna degli amanti confesserò di non aver desiderato allora più la mia Merope che qualunque altra; non si trattava che della deficiente soddisfazione di tre bisogni fisici. Solo di tempo in tempo, quando un verso più sbagliato dei rimanenti mi richiamava con l'urtarmi i nervi al senso del doloroso presente, solo allora mi sfuggiva un bravo, un benissimo, che non aveva più senso de' sì, de' convengo strappati agli accusati dalle torture o dalla intimidazione che a' tempi nostri fa da vicetortura. E Pietro allora, interrompendosi: «Eh, questo è niente! senti qua, che adesso viene il meglio, proprio!». Io non m'era però mai accorto che questo meglio fosse buono: ma provava una secreta invidia per quell'uomo che amava tanto, quantunque d'infelice amore e la sua donna e la poesia, da non saperle dimenticare neppure fra le armi, da perdurare nelle sue illusioni erotiche ed artistiche. La sua posizione avea del buffo, come quella di chiunque ama e fa fiasco, tenta e non riesce; ma quel buffo aveva una lieve tintura di sublime! E poi! Era quello il momento da intavolare una discussione estetica e letteraria? Lo lodai, dunque; mentii, ne convengo; ma chi è senza macchia dia l'esempio di lapidarmi.

 

 




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