Erano dei mesi che intisichivamo dietro
la speranza che un giorno o l’altro ci avrebbero restituiti il calamaio e la
penna. Senza la distrazione di vuotarci la testa coll’inchiostro, non sapevamo
che infelicitarci con discussioni pessimistiche o nere fino in fondo. Non
vedevamo che delusione e dolore. Anche quando traluceva qualche lampo, si
finiva per intetrarci o immusonirci assai più che seduti sotto le finestre di
faccia a Capra Zoppa, senza una parola.
Non ci si proibiva di leggere. Ma
si legge male in una camerata e in una camerata ove gli individui sono padroni
di fare quello che vogliono. Tu leggi, e gli altri chiacchierano. Tu 1eggi,
e due amici ti passano innanzi e indietro sussurrandoti il coro:
A casa, a casa, amici,
Ove v’aspettano,
Le vostre spose.
Tu leggi, e un compagno zufola
e rizufola per il lungo e per il largo, per delle ore, l’Inno dei lavoratori
e subito dopo un altro, te ne canticchia la prima quartina, ricominciandola
con sempre crescente piacere:
Su fratelli, su compagni,
Su venite in fitta schiera,
Sulla libera bandiera
Splende il sol dell’avvenir.
Tu leggi, e due altri
passeggiano, come in una caserma, o lungo un corridoio, o nel cortile, con le
braccia sulla schiena, battendo i tacchi, scombussolandoti il pensiero col
tremuoto dei piedi. Tu leggi, ed ecco un animale che si sveglia di soprassalto,
con dei versi in bocca:
Me non nato a percuotere
Le dure illustri porte,
Nudo accorrà, ma libero,
Il regno della morte.
Tu leggi, e nasce una conversazione che ti prorompe
nel cervello come una gazzarra di voci, ma che finisce per piacerti e uncinarti
a prendervi parte. Tu leggi, e un prigioniero si sbottona e ricorda aneddoti
contemporanei che ti fanno chiudere il libro, tanto sono interessanti. Tu
leggi, e un agente del reclusorio ti chiama dabbasso, in direzione, per una
cosa che ti si poteva dire con un monosillabo, o anche fra cento anni. Tu
leggi, ed entrano i battitori a scomodarti e a rintronarti le orecchie. Tu
leggi, e suona la campana della distribuzione della minestra e del pane. Tu
leggi... Credetelo, in una camerata perdete l’illusione di potervi sommergere
in un libro per ritornare alla vita rifocillato di qualche cosa.
Col permesso di scrivere, il
nostro tempo penale si accumulava e si accorciava rapidamente. Qualche volta si
avrebbe voluto che la giornata di diciassette ore fosse più lunga, per avere
modo di prolungare la gioia del lavoro. C’era tra noi la gara degli operai a
cottimo. Ci si alzava e ciascuno andava al proprio posto. Chiesi e Federici
avevano un tavolo nello spazio in fondo, a fianco della finestra. Il primo
scriveva dalla mattina alla sera, senza mai smettere che all’ora dei pasti o
quando aveva bisogno di stiracchiarsi le braccia, appendendosi al bastone più
alto dell’inferriata. Senza i libri necessari per un’opera descrittiva, o storica,
o politica, egli si era votato interamente al romanzo - un lavoro, da quello
che vedevo, che non gli costava che la fatica manuale. Non è mai a secco né di
idee né di scene. Dotato di un apparecchio digestivo che non gli annoia il
cervello, e arciricco di vocaboli, egli poteva prendere la penna ad ogni
minuto, digiuno o col boccone in bocca, quando pioveva a diluvio e quando il
sole si riversava nella nostra camerata come un’allegria. Alla mattina
riprendeva il filo del racconto senza neppure degnarsi di leggere l’ultima
frase e, dopo la colazione, il passeggio e il pranzo, ricominciava come se non
vi fosse stata interruzione. Il Sue si popolava il tavolo, sul quale scriveva,
di pupazzi per tenere a mente i personaggi che gli nascevano a mano a mano che
entrava nella intimità del romanzo. Gustavo Chiesi ha potuto completare Il
Corpo di Ballo - un romanzo d’ambiente che racchiude tutta la popolazione
del palcoscenico della Scala - senza sciupare più di alcuni nomi scritti sul
cartone dei fogli che produceva. Il suo modo di composizione è dei più
semplici. Incomincia la prima riga e tira via senza mai voltarsi indietro, cioè
senza mai dare un’occhiata alle cartelle che la sua penna ha ammonticchiato.
Non cancella che di rado, una volta o due alla settimana. Non potendo leggere
il suo manoscritto per la sua calligrafia illeggibile, non lavora di lima che
sulle bozze. Ma è difficile ch’egli si permetta di alterare una frase. Sul suo
stampone non vedete ai margini che poche correzioni o dei segni che paiono lasciati
giù da una mosca che lo abbia percorso con le zampe umide d’inchiostro. Perché
la frase gli esce limpida, corretta e brunita, come da una officina. In pochi
mesi ha scritto tre romanzi, letto parecchi volumi e mantenuta una
corrispondenza abbastanza voluminosa.
Il secondo, cioè Federici, si
alzava sempre prima di ogni altro, un po’ perché amava il pediluvio quotidiano,
e un po’ perché gli piaceva diguazzare nel catino più lungamente degli altri.
Iniziava i suoi lavori con una spanciata di verbi inglesi, che egli si
trangugiava tranquillamente, tra un passo e l’altro, fatti colla leggerezza e
la mollezza della gallina che non disturba. Lo si vedeva andare in su e in giù,
rasente le brande, colla grammatica sotto gli occhiali scintillanti, o chiusa
con l’indice tra le pagine, con la sinistra sul collo della destra o cogli
occhi che vagolavano per il soffitto come quelli dell’inspirato o dell’uomo che
manda versi o prosa a memoria. Dopo la distribuzione del pane, la quale
avveniva verso le ore otto, sedeva e si metteva di schiena al lavoro di
traduzione, divorando un esercizio dopo l’altro, senza magari dire una parola.
E noi, fino a quando non si
sapeva di che umore si era alzato, ci guardavamo bene dal buttargli l’amo della
ciarla. Perché, malgrado la gentilezza e la squisitezza d’animo, il Federici
era il compagno più difficile della camerata. Non si sapeva mai da che parte
pigliarlo. Proprio nel momento in cui lo credevate il vostro migliore amico,
poteva scattare per un nonnulla o vi poteva tappare la bocca con una di quelle
parole solenni che arrivano alla testa come un pietrone, o vi poteva isolare
per un tempo indeterminato, senza mai accorgersi della vostra presenza, anche
se vi trovavate gomito a gomito o a faccia a faccia, allo stesso tavolo. Terminato
il boicottaggio, risentivate l’amico che vi dava il buon giorno, che spartiva i
suoi cinque centesimi di frutta con voi, che vi dava, se ne aveva, con la
miglior grazia del mondo, un pezzo del suo cioccolatte eccellentissimo, o che
si metteva con voi al passeggio, ingolfandovi in una conversazione piacevole e
spesso istruttiva.
Il tempo che gli lasciava
l’inglese lo consumava nella lettura. Leggeva romanzi, filosofia, storia e
tutto ciò che di buono gli capitava tra le mani. In musica mi parve più che un
orecchiante o un buongustaio. Canticchiava sovente le arie popolari o più
conosciute delle opere moderne - sapeva dei pezzi di Wagner come e assai più
del Chiesi che aveva propalato e difeso il maestro di musica dell’avvenire con
uno studio, e correggeva le voci stonate degli altri che volevano imitarlo.
Don Davide incominciava dopo la
messa. Prima della messa passeggiava impaziente. Se la guardia, che doveva
accompagnarlo nella cappelletta, ch’egli aveva l’audacia di paragonare a
un’oasi nei claustri del dolore, tardava un po’, diventava nervoso. Anche noi,
il mattino, non appena in piedi, sentivamo un bisogno immenso di uscire da uno
stanzone dal quale l’afa se ne andava assai lentamente. Per il 2557 un minuto
diventava un secolo. Percorreva la camerata a passi lunghi, con le mani sul
dorso, sotto la giacca, con la faccia torva.
Lo si chiamava e si fingeva di
credere ch’egli andasse a compiere i suoi uffici divini fuori del reclusorio.
- Don Davide, fate il piacere di comperarmi
trenta centesimi di sigarette virginia.
- Don Davide, se vedete il
pollivendolo, mandateci a casa un’anitra, sgrassata, come quella della
settimana scorsa.
- Don Davide, non dimenticate di
passare dall’oste che siamo senza vino.
- Don Davide, se trovate del
pesce fresco, mandatene a casa una padellata.
Rientrava ilare e pieno di scuse.
Ci diceva che il pescivendolo era alla spiaggia, che il tabaccaio era andato
alla dispensa e che il pollivendolo non veniva in paese che tre volte la
settimana.
Si metteva al lavoro senza
indugio. Il suo tavolino era tra il finestrone e la sua branda. Si perdeva sui
suoi fogli di protocollo fino a colazione. Durante il lavoro taceva volentieri,
ma non andava in collera se lo si interrompeva e se si faceva di tutto per
fargli perdere del tempo.
Chiesi: Don Davide,
come state?
Don Davide: Bene,
grazie.
Chiesi: Che cosa
supponete che stiano dicendo, in questo momento, De Andreis e Romussi?
Don Davide: È
difficile indovinarlo.
Chiesi: Ve lo dirò io
che cosa stanno pensando. Stanno pensando a una chicchera di caffè buono,
magari con una goccia di grappa buonissima.
Don Davide: Piacerebbe
anche a me, adesso una tazza di caffè caldo con uno spruzzo di grappa di quella
che ho a casa mia, a Filighera!
Riprendevano il lavoro e poi
ricominciavano il dialogo.
Don Davide: Che
opinione hai tu questa mattina sull’amnistia?
Chiesi: Conosco
Pelloux. È un soldato, ma un soldato che ha sempre fatto parte della sinistra.
È impossibile ch’egli si mangi il passato in un boccone. Lascerà passare la
tempesta per contentare un po’ i fanatici e poi, alla prima occasione, metterà
nel discorso reale, per guadagnare della popolarità al re, l’amnistia.
Interveniva qualcuno di noi a
dire che un soldato non poteva dar torto ai soldati. - L’amnistia che cosa
vorrebbe dire? Che le sentenze militari sono state ingiuste. E questo un
generale non lo può dire.
Chiesi: Tu non
conosci Pelloux. Nella sua vita parlamentare ha dimostrato più di una volta di
non essere quello che gli inglesi chiamano un martinet della caserma.
L’esercito non può fargli dimenticare che c’è della gente che soffre
ingiustamente.
Don Davide: Vedremo.
Chiesi: Non si
tratta di voi, don Davide. Voi siete qui per «fini speciali».
Don Davide intingeva la penna con
un risolino, la piegava dolcemente sul pezzetto di carta che si teneva a
destra, e si rimetteva a scrivere. Nessuno ha mai potuto leggere una riga dei
suoi manoscritti. Ma dai discorsi si sapeva ch’egli riempiva le pagine di
impressioni, di reminiscenze, di note autobiografiche, di vita giornalistica,
di articoli di polemica e di sfoghi poetici.
La sua calligrafia non fa mettere
gli occhiali. È nitida e arieggia l’inglesino. Non è quella dello scrittore che
va via all’impazzata e lascia agli altri la briga di capirla. Se il pane
terroso non gli aveva fatto peso o non gli aveva gonfiato il ventre, il
pensiero gli si sgomitolava senza interruzioni. Giornalista col fondaccio
letterario, gli piace, quando non è infuriato dalla rotativa, rifare il
manoscritto, senza toccarlo troppo o levargli la naturalezza della prosa
spontanea. Il suo stile è pastoso, la sua prosa calda, la sua penna duttile, il
suo periodo limpido come un cristallo. Con qualche predilezione per la frase
pariniana, rifugge dalle inversioni del poeta del Giorno, che svogliano
il lettore. L’ingiustizia gli scalda il calamaio egli fa produrre una prosa
vigorosa, senza ridondanze e senza i plebeismi del Baretti. Con o senza collera
egli non è mai volgare. Il suo ingegno poliedrico fa pensare a don Margotti. La
tendenza sentita negli scritti di don Davide è la mestizia o piuttosto
l’emozione.
Le tre mila lettere ch’egli ha
scritto durante la sua prigionia - lettere che potrebbero formare, per il
pubblico cattolico, un epistolario interessantissimo - ne sono un documento.
Sono in esse la sua bontà infinita, lo spandimento, della sua anima mal
rassegnata a stare in prigione, l’affezione intensa per la gente ch’egli ama e
che lo ama, il perdono incommensurato per tutti gli avversari pentiti che gli
hanno tribolata l’esistenza a 52 anni, proprio quando, diceva lui, si ha
bisogno di un po’ di vita buona.
In prigione non ha mai avuto
rimpianti. Egli è sempre stato orgoglioso del suo passato. Non ha mai
avuto che parole d’amore per la sua penna che
l’ha mandato «tra i ferri anziché
adattarsi a mentire e adulare», come non ha avuto che trasporti per il suo
Osservatore Cattolico «divenutogli più che mai prezioso, ora che gli ha
procurato il carcere, e dato occasione di soffrire per la causa che difende e
dimostrare che seriamente anche in faccia alla morte, la difende e la difenderà
sempre».
Costantino Lazzari consolava i
suoi ozii forzati nel silenzio, nella lettura, nel disegno. Taceva per delle
ore, leggeva volumi ponderosi senza sbadigliare, rileggeva i Promessi Sposi con
piacere, la Vita di Benvenuto Cellini direi quasi con entusiasmo e il Sant’Ambrogio
di Romussi, superbamente illustrato, con ammirazione, e disegnava,
disegnava sempre. Disegnava galeotti, secondini, reclusi, frontoni del
reclusorio, compagni di camerata. Copiava danzatrici, madonne, bimbi, uomini
illustri, donne celebri, quello che trovava nelle riviste e nei libri
illustrati. Con la tenacia del volere è potere, dell’uomo che vuoi riuscire ad
ogni costo, la sua matita faceva progressi meravigliosi. Le sue figure
prendevano forma, diventavano vive, assumevano la grazia dell’arte.
- Perché non smetti di fare il
commesso viaggiatore e non ti dai interamente al lapis che ti serve così bene e
che ti darebbe una vita meno stentata?
Perché era troppo tardi, perché
non aveva fantasia, perché l’artista, per essere tale, non deve essere
tormentato dai bisogni urgenti della vita, perché altri lo precedevano di
parecchie miglia.
Non so s’egli abbia continuato e
se continui. So che, se all’abilità del disegno egli potesse aggiungere la
sollecitudine, potrebbe diventare un giornalista che illustra i suoi e gli
articoli degli altri. Egli non è l’ultimo dei ritrattisti. Ha disegnato un don
Davide seduto, vestito da galeotto, il quale resterà il suo capolavoro di
Finalborgo. Ci ha dato una mezza figura di Chiesi mirabile e un Suzzani
intiero, con la gamella in mano, che non dimenticherò facilmente. Ma io sciupo
le parole come il padre di Cellini che voleva fare del figlio un suonatore di
flauto e di cornetta. Cellini lo contentava di tanto in tanto, con qualche
pifferata. Ma continuava per la sua strada a cesellare. Così sarà di
Costantino. Egli diventerà tutto fuorché un artista.
Le ore della sera erano le più
tranquille. Si passava come dall’inferno al paradiso. Federici, Chiesi e don
Davide - il primo in mezzo e gli altri due in faccia - avevano una lampada a
petrolio in comune sui loro due tavoli riuniti. Noi quattro ci servivamo della
lampaduccia a luce elettrica, la cui poverezza di luce ci faceva chinare sovente
gli occhi, o ci lasciava per due minuti sotto un rossore crudele.
Migliorammo la nostra condizione quando a furia di guardarla ci accorgemmo che
aveva del filo attorcigliato che ci poteva servire per allungarla fin quasi al
tavolo.
Tutto sommato, erano ore
deliziose. Il chiasso delle camerate vicine alla nostra cessava con la campana
del silenzio. Salvo qualche gola che sprigionava versi da dannato o qualche
voce che dava fuori nel sonno o qualche disgraziato che manifestava i suoi tormenti
fisici con degli: oh Signor! femm murì, femm!, potevamo supporci in un
sepolcro. Si poteva sentire la penna di qualcuno che s’impuntava sulla carta, o
il piede di cimossa di un sottocapo in giro a origliare e a guardare attraverso
i pertugi, o la respirazione di un recluso al di là della parete, male
adagiato. Lo starnuto di Lazzari, fatto a bella posta per ricordarci che
eravamo vivi, ci faceva trasalire o sussultare come quando si sentono sulle
spalle le mani degli sconosciuti che vi dichiarano in arresto in nome della
legge.
Si lavorava immersi nel lavoro.
Chiesi a mettere in iscena i suoi ballabili, don Davide a scrivere una epistola
dopo l’altra per vivere di ricordi e riallacciare i legami col mondo che lo
conosceva. Lazzari a riprodurre il momento storico dei tre lavoratori con un
disegno grandioso che toccava e ritoccava ogni sera senza dirlo mai finito,
Ghiglione a illustrare le parole di un dizionario tedesco con l’idea
froebeliana che chi legge Himmel accanto a una chiazza di cielo e Frau
dinanzi a una testa di fanciulla, impara una lingua a vapore e non la
dimentica più mai.
- Come farai, gli domandavo, a
illustrare ich habe kein Geld?
- In un modo semplice. Mettendo
tra le parole un individuo che si fruga svogliatamente nelle tasche.
- Ma il tuo dizionario diventerà
una montagna!
Federici allargava la zona dei
suoi studi nella letteratura di altre lingue, in manica di camicia, senza mai
smettere, senza mai aprire bocca, come se fosse stato obbligato dal regolamento
carcerario a divorarsi un dato numero di pagine, e Giovanni Suzzani si
sprofondava nei romanzi dell’editore Aliprandi, scoppiando talvolta in risate
così plateali e così rumorose che costringevano il secondino di guardia a
buttare per il buco un ordine imperioso:
- Silenzio!
In certe sere... In certe sere nessuno lasciava
cadere un libro, nessuno tossiva, nessuno si muoveva come se avessimo saputo
che avevamo alle spalle gli occhi e le orecchie degli agenti incaricati della
sorveglianza notturna.
Ci capitava addosso la ronda, col
lanternone fumoso, come una sorpresa che metteva freddo.
- Sono le dieci!
Non ce lo facevamo dire due
volte. In un minuto spostavamo i tavoli, mettevamo carta e libri al posto,
lasciavamo giù le brande, facevamo il letto e ci buttavamo sul pagliericcio
senza aver modo di cambiare la camicia.
Chiesi era sempre il primo a
toccare le lenzuola. Adagiato, con la guancia sul guanciale, incominciava
subito a ruggire come una belva con una palla nella testa. Don Davide non
dormiva subito. In letto, con una coperta che non lo copriva completamente né
da una parte né dall’altra, sembrava un enorme cetaceo a mezz’acqua. Si voltava
faticosamente come un pachiderma. Federici si metteva sul fianco, con un libro
in mano, in una posizione da ricevere la luce sulle pagine e continuava la
lettura per un’altra mezz’ora. Poi mi diceva:
- Ciao, Paolino, dormi bene.
- Ciao.
Lazzari, santone, con gli
occhiali che gli aveva prestato l’amico Scannatopi e che gli davano l’aria di
una vecchia in collera, si dava furiosamente alla lettura, leggendo cento,
centocinquanta pagine di un fiato, lasciandosi magari sorprendere dalla seconda
ronda col libro in mano.
Dove siamo adesso stiamo assai
meglio che nella quinta camerata. Ma pochi di noi, rientrati in questa vita
vertiginosa, rigodranno la pace delle serate intellettuali del reclusorio di
Finalborgo.
L’uomo è un animale che rimpiange
perfino la galera!
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