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Paolo Valera
I Cannoni di bava Beccaris

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  • PARTE PRIMA
    • LA PIAZZA DEL DUOMO IL VENERDI’ SERA
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LA PIAZZA DEL DUOMO IL VENERDI’ SERA

 

 

 

Che scena! La nuvolaglia si voltolava su se stessa e il cielo rumoreggiava di tanto in tanto e faceva sentire i sordi boati che annunciavano l’uragano. Savoldi, l’operaio dello Stabilimento Pirelli, era appena passato coi compagni che lo accompagnavano a Musocco. La moltitudine che aveva veduto il tram di Porta Volta che infilava via Carlo Alberto, accorse a vederlo. Era tenuto su dalle braccia degli amici sotto le ascelle per dargli aria di passeggero, ma si vedeva che era floscio e andato. Gli occhi erano spenti, la pelle della faccia era morta da far paura e tutta la bocca semiaperta era dissanguata. Vennero consigliati di adagiarlo lungo e disteso. Il tram andava e l’indignazione incominciava.

Il cadavere era in tutte le conversazioni. Pochi lo conoscevano, ma tutti sapevano che era un operaio che aveva lavorato fino a quando la campana lo aveva messo alla porta.

La piazza si gremiva, i portici erano quasi affollati, la fanteria aveva bloccato le entrate della Galleria e nell’interno si vedevano gli agenti e i delegati di P ..S. con la ciarpa del mestiere che andavano e venivano o sostavano in certi punti come in attesa di altri ordini. A qualche passo dalla scalinata della cattedrale, dove erano i bersaglieri col calcio del fucile a terra, ci fu un tentativo di discorso.

Non ebbi tempo di vedere 1’oratore sulle spalle di un gruppo di giovani, che una voce imperiosa lo aveva fatto scomparire.

- Giù, giù! o faccio suonare la tromba!

Eravamo tutti eccitati, tutti in un’atmosfera ardente. Guai se in quel momento un Desmoulins della strada avesse buttato nella calca una scintilla verbale e ci avesse spinti alla rivoluzione! Ci sarebbe stata una conflagrazione sociale. Inaspriti dal dolore, l’incendio sarebbe diventato generale. Invece, anche con la truppa che urtava la folla da una parte e dall’altra per separarla e disperderla nelle vie adiacenti, prevalse la prudenza. Senza lasciarsi frazionare si muoveva tutt’insieme come una massa enorme. Qua e si respirava a disagio. Maledizione di Dio! Come nelle giornate del Colpo di Stato a Parigi, il temporale scioglieva il problema di spazzare la piazza tutta agitata dalla fermentazione cittadina. Tra le otto e le otto e mezzo si è udito come uno squarciamento di cateratte. Pareva che le folgori passassero lacerando il cielo e prorompessero lungo la corsa con esplosioni di tuoni e lampi che illuminassero tutta la volta sottosopra. Fu un diluvio. L’acqua veniva giù a rovesci col chiasso dei filoni che si rompevano sui tetti e sul selciato. La gente si salvava pigiandosi sotto i portici meridionali e settentrionali e per gli svolti delle vie che li lambiscono.

I cordoni militari che bloccavano la Galleria venivano rotti dalla lenta fiumana che non poteva più tornare indietro. Lo straripamento era così possente che si sono dimezzati o frazionati senza resistenza. Nessuna forza avrebbe potuto trattenerla. Una volta ingorgati nel grande tunnel non si camminava, si era portati e si andava via adagio adagio come voleva la corrente umana. Agli ottagoni la respirazione era affannosa. Ci si sentiva premuti da tutte le parti. Tuttavia si sentiva l’inno dei lavoratori cantato da mille voci. Vicino al Gnocchi era un impalcato che avrebbe potuto servire benissimo da piattaforma. Più d’uno s’era messo tra le travi con la voglia di sgolare l’orazione rivoluzionaria, ma non c’è stato verso. Gli agenti e i carabinieri non davano tregua a coloro che avevano la gola piena di prosa veemente. Gli squilli facevano il resto. Tumultuavano l’ambiente, respingevano la moltitudine e facevano larghi che si riempivano quasi simultaneamente.

Ho veduto Zavattari con la sua bella faccia sincera entrare dalla parte della Scala, dopo che era stato sul balcone municipale a pacificare i cittadini con gli altri oratori. L’interruzione della piazza e gli squilli erano impotenti a rarefare la ressa. Le trombe con la loro violenza che incalzava alla fuga, irritavano e indemoniavano.

Alle dieci molta gente spinta e risospinta era rimasta fuori della Galleria e si era avviata a domicilio. I questurini rincorrevano i dimostranti più clamorosi e facevano arresti. Gli arrestati passavano tra gli agenti che li tenevano per il colletto o per le braccia.

Le grida di molla! molla! moltiplicavano il numero di coloro che venivano violentati fino a San Fedele.

Alcuni arrestati s’imputavano e urlavano e si scuotevano per divincolarsi dai tentacoli polizieschi. L’odio di classe si era manifestato con tutta la sua perversione. I signori della Brasera Milanese, dal balcone del terzo piano al di sopra del negozio Munster, riversavano sulla folla parecchi secchi d’acqua.

La gente, esasperata, volgeva in alto i visi stravolti dalla collera con i pugni chiusi e la bocca divenuta un vulcano d’improperi.

I più lontani, quelli dell’angolo, tiravano al balcone sassi che precipitavano per la parete della galleria con un baccano indiavolato. Senza le corse e le rincorse dei questurini e dei carabinieri con gli squilli di tromba, avrebbero scontata la loro buaggine pericolosa con la morte del Prina. Guai se la folla avesse saputo da qual parte si saliva per entrare nei loro clubs!

Così non c’è stato che uno scambio di villanie. Ma i signori che hanno irritata la gente, la devono aver veduta brutta. Perché c’è stato un momento in cui ho creduto che gli epiteti vergognosi e sanguinosi che le buttavano sopra con i loro scaracchi la inducesse a farsi largo attraverso il Campari per uscire sulla scala esterna e salire tumultuosamente a scaraventarli dal balcone. Gli squilli devono aver interrotto il pensiero.

Verso mezzanotte tutti erano stanchi, tutti avevano bisogno di riposare, tutti sentivano la necessità di una sosta.

Mai come in quella notte la piazza della Scala, la Galleria e la piazza del Duomo sono state così silenziose. Parevan luoghi disabitati. Quanti ne avevano arrestati! mucchi. A mucchi son stati chiusi nei camerotti puzzolenti della questura di San Fedele.


 




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