Scrivo all’indomani
dell’avvenimento, ma ne sono ancora tutto sgomentato. Ero lì in via Valpetrosa
che non sapevo proprio quanti ne avessi in tasca. Le poche botteghe erano
chiuse come i portoni delle case. Non c’era aperta che la bottega del fumista
Pietro Lomazzi del numero 8, la casa di faccia alla via che si curva
leggermente fino al margine di via Torino. La Valpetrosa era come il rifugio
delle persone che capitavano in via Torino e si trovavano subito in mezzo alle
palle che sibilavano da tutte le parti. Entravano trafelate e bianche come il
latte. Uomini e donne erano tutti esterrefatti. Balbettavano, monologavano,
parlavano come a se stessi. Alcune donne entravano col grembiule sulla testa
come se avessero voluto proteggersela dalla grandine di piombo che prorompeva e
saltellava per le tegole o schiantava imposte o andava alle muraglie col
fracasso di una sfuriata di pam! pam! Coloro che avevano paura o fretta di
rincasare sostavano per assicurarsi se erano illesi o vivi e riprendevano la
rincorsa per la piazza San Sepolcro. Io e parecchi altri facevamo delle
scappate fino alla estremità della via e mettevamo la testa in via Torino,
allungando il collo da una parte e dall’altra per vedere che cosa avveniva e
dove il fuoco era più assassino. Con il corpo in via Valpetrosa e la testa in
via Torino mi pareva che il combattimento fosse accanito. Udivo un fragore come
di tegole che cadevano dall’alto e si frantumavano e degli spari ora simultanei
e ora isolati. I colpi isolati mi davano l’idea della caccia all’uomo.
Mi figuravo i soldati in catena,
addossati alle facciate delle case o sotto le entrature dei portoni chiusi con
la mano sul grilletto del fucile in posizione di far fuoco. Durante questi
intervalli che mi facevano passare attimi spasmodici mi spingevo sul
marciapiede e qualche volta dal marciapiede fino a mezzo alla strada,
adocchiando da una parte e dall’altra e ritornando di corsa in Valpetrosa, non
appena udivo i proiettili che infuriavano per l’aria o mi pareva di sentire
sulla faccia la ventata calda di una palla passata via come una saetta. A
sinistra, cioè verso la piazza del Duomo, mentre le scariche davano l’idea
della guerra civile, avveniva il saccheggio alle vetrine delle botteghe. Erano pochi
ladruncoli che le scoperchiavano con le mani o con una spranga di ferro
strappata o dischiodata da una delle imposte chiuse col lucchetto. Si sentivano
i crack del legname che si schiantava e il frastuono dei vetri che
frantumavano con le punte delle imposte o coi pugni nudi addirittura. Nell’aria
infuocata della guerra di strada perdevo di vista il ladro, e non vedevo che
l’eroe.
Tutta Milano scappava, si tappava
in casa, si nascondeva nei solai, nelle cantine o nelle stanze più lontane e loro,
gli inquilini degli abissi più profondi della vita sociale, continuavano a
esercitare la loro professione senza neppure darsi pensiero del diavolerio
militare. La paura degli altri era il loro coraggio. A pochi passi di distanza
si uccideva e loro si imbottivano di camicie, di mutande, di merletti, di
cianfrusaglie, di quello che capitava loro tra le mani. Ho veduto uno di quei
ragazzotti ritornare indietro a raccogliere uno degli ombrelli caduto dalla
vetrina dei fratelli Guarnaschelli, almeno se non ho scambiato una bottega per
l’altra, come se si fosse trattato di roba sua. Il ragazzotto lo raccolse e
senza affrettare il passo se lo trascinò dietro come uno a zonzo, svoltando
nella via che conduce in piazza di Sant’Alessandro. Era in lui l’imperturbabilità
di Gavroche, quando involava la giberna di cartucce ai soldati per portare la
munizione ai «camerati» sulla barricata.
A destra il pam! pam! degli spari
si era come allontanato. Pareva che i soldati facessero fuoco marciando verso
il Carrobbio. Anche la caduta dei coppi non era più così fracassosa e
tempestosa. Tendendo l’orecchio udivo che si era andata rallentando, come se il
fucile avesse diminuito il numero dei combattenti sui tetti. Qualche tegola
però si rompeva ancora sul selciato con rumore. Mi arrischiai a passare
dall’altra parte mettendomi colle spalle al pilastro dell’arco del palazzo
chiuso che porta il numero ventinove, con la faccia un po’ protesa per vedere
che cosa avvenisse dalla parte opposta. Ma c’era l’angolo di via della Palla che
impediva ai miei occhi di andare oltre. Passando di corsa ho potuto convincermi
che prima di arrivare al Carrobbio la battaglia a tegole e a palle di piombo
doveva essere stata disperata. Nel momento in cui sono passato non c’era
un’anima. Il silenzio e il vuoto riassumevano il terrore. Pareva che i
cittadini avessero consumato l’ultimo coppo prima di lasciarsi ammazzare. Tutto
il selciato era letteralmente coperto di tegole, di coppi infranti, di sassi,
di cocci, di polvere rossa. I soldati al di là del materiale di combattimento
erano in agguato sotto le porte o distesi lungo i muri, con gli occhi ai tetti
e il fucile in atto di far fuoco. Con un salto fui all’angolo di via Palla, di
fronte alla madonna che deve aver servito di bersaglio a qualche alpino. Il
proiettile a balistite l’ha colpita sotto il braccio, bruciacchiandone l’orlo
del foro. La balistite distrugge pure la religione o la superstizione
incastrata nelle muraglie delle case. Pam! È meglio che le palle buchino i
corpi delle madonne dipinte che delle madonne vive. Stavo cercando se vi fosse
per la tela qualche altra ferita, quando una voce bruca e brutale mi diede la
levata con degli imperativi che non ammettevano discussione. Non mi volsi
neanche indietro. Ho udito che dovevo andarmene o si sarebbe fatto fuoco. In un
balzo mi trovai in S. Maurilio. In fondo vedevo persone che correvano, ma la
parte verso il corso era completamente deserta.
Coi soldati in giro il pericolo
diventava sempre più grave.
In San Maurilio udivo
distintamente che il fuoco era ricominciato e continuava con maggiore
insistenza. A ogni sparo o a ogni scarica sentivo la risposta fragorosa che
veniva lanciata dai tetti. Erano tegole o mattoni che andavano a farsi in pezzi
sulle muraglie o sulle botteghe o sui marciapiedi. Mi giungeva l’eco di edifici
in demolizione. Il combattimento che mi disseppelliva il materiale storico che
mi si era adagiato nella testa leggendo i tumulti popolari di parecchie
nazioni, mi attirava. Io pensavo al modo di trovarmi vicino o di vederlo da qualche
altura ed entrai al numero uno, dove avevo veduto comparire alla spicciolata
parecchi giovani. È una porta lunga e stretta, divisa da un cancello di ferro
che si può sfasciare con una spallata. A sinistra, dietro il cancello, è
l’entrata laterale dell’osteria. Il cortile è angusto, sente di chiuso, ha una
pompa vicino alla latrina e due latrine a fianco dell’edificio che paiono
sospese alle muraglie.
La portinaia è al primo piano,
vicino alla prima scala. È una donna piuttosto alta, con la faccia allungata.
Era sull’uscio tutta spaventata. Non aveva mai visto salire e discendere tante
persone. Tremava a ogni interrogazione. Le domandai se sapeva che cosa andava
di sopra a fare la gente che avevo visto scomparire nel budello buio di sotto,
ma la povera donna rispondeva che non ne sapeva nulla. Era una giornata di
tribolazione che il Signore le aveva mandato per punirla di qualche peccato. La
curiosità di vedere o il desiderio di trovarmi un osservatorio, mi fece
infilare la seconda scala. Dopo pochi gradini mi fermai terrorizzato. Intuii il
dramma che si svolgeva o che si era svolto all’ultimo piano. La ringhiera del
ballatoio dell’ultimo piano comunicava con una vasta terrazza, sulla quale i
vicini salgono a distendere al sole la biancheria che lavano dabbasso nel
lavello della pompa. Con uno sforzo qualunque dalla terrazza si può salire sul
tetto alla portata delle mani, e dal tetto bassissimo è facile saltare sul
tetto più alto, correre da una casa all’altra, riparandosi dietro i comignoli
tutte le volte che ci fosse bisogno di salvarsi dalle palle micidiali.
Io sentivo sulla mia testa una
moltitudine di piedi pesanti che faceva tremare l’edificio e delle voci confuse
che traducevano il subbuglio. Pareva che i corpi si urtassero l’un l’altro per
sostenere un peso enorme, un peso di piombo. Su, su, si diceva, sta su, per la
madonna! Ma pare che l’uomo che volevano che stesse in piedi, si lasciasse
andare su se stesso come morto. Venivano giù tutti assieme ingorgandosi nelle
stretture spingendosi per la scala e scambiandosi parole concitate, come se
avessero avuto paura di venire colti col documento sulle braccia di esser stati
sui tetti. Tanto più si avvicinavano al piano inferiore, quanto più il rumore
tumultuoso delle loro scarpe si attutiva e diventava lugubre. Pareva la discesa
di gente che andasse al patibolo. Io passavo e riandavo attraverso tutte le
sensazioni. Mi figuravo il combattimento per i tetti, cogli insorti gattoni
sulle tegole, che strisciavano fino alle grondaie, fin dove è la vertigine e
vedevo il materiale di guerra passare di mano in mano, fino agli eroi al
margine del precipizio, e vedevo gli eroi rotolare dalla tettoia, con alte
strida d’orrore che turbavano l’aria. Vedevo una scena più spaventevole
dell’altra. Vedevo i rappresentanti del coraggio popolare che andavano giù al
posto dei caduti e tutti gli altri che riprendevano il movimento isocrono di
passare da una fila all’altra le tegole nel silenzio e nell’ansia fino a quando
quelli al margine precipitavano come i primi o giacevano supini, senza vita,
sull’altura pensile, con l’ultimo coppo nella mano che irrigidiva. La
moltitudine discendeva, e la mia visione si insanguinava e diventava spaventosa
e il mio pensiero si attorcigliava come sotto l’azione di un dolore intenso.
Quando mi furono vicini ero come
assiderato dallo strazio. Guardavo istupidito e lasciavo passare il gruppo che
sorreggeva il giovine che incadaveriva ad ogni gradino, che moriva con la
faccia bianca. come la farina, con gli occhi smorti che si travolgevano, con le
guance che assumevano la durezza del marmo, con le labbra che si scoloravano e
diventavano violacee, e si aprivano per lasciar passare l’alito della vita.
Il su! su! dei compagni, che non
volevano che morisse sulle loro braccia, che avevano bisogno di portarlo
altrove, perché nessuno voleva sul piano un uomo che potesse diventare la
sventura di tutti, mi scosse, mi ridette i sensi.
Molti di loro che aveva intorno
avevano la camicia fatta a ventriera piena di sassi. Erano saliti e discesi coi
proiettili della strada che non avevano potuto consumare. I soldati di Bava
Beccaris erano andati sui tetti delle case dall’altra parte della via e a colpi
di balistite li avevano fatti scappare, prima di dar loro tempo di accendersi
con un lanciamento senza tregua e resistere fino alla morte.
Io mi misi alle loro calcagna e
discesi con loro e dietro loro subivo tutta la loro disperazione di non essere
già lontano un miglio. Il terrore di incontrarsi faccia a faccia con delegati o
questurini in borghese, o soldati alla ricerca di rivoltosi, rianimava le loro
gambe stracche, e le voci incitavano il ferito al ventre a stare in piedi, a
camminare, a correre, a nascondersi.
- Su, su! che siamo vicini!
Io li vedo ancora sbucare nella via, rossi come se
fossero usciti da un forno e sbandarsi in un fiato a rotta di collo. Solo i due
compagni, con le ascelle del ferito sulle braccia hanno dovuto continuare la
parte dell’eroe, andando via adagio adagio col moribondo, scuotendolo,
facendolo sussultare e traballare e dicendogli di stare in piedi se non voleva
essere arrestato. Andavano via come tre amici, braccio sotto braccio, e io
tenevo loro dietro con gli occhi ai piedi che descrivevano nel mezzo della
strada gli orrori di una vita che si spengeva.
I piedi che si lasciavano tirar
dietro, scappucciavano, si contorcevano, voltavano la suola dalla parte
opposta, urtavano contro i sassi, sfioravano il suolo, piegavano, puntavano le
punte nei solchi dell’acciottolato come piedi morti.
Io sono rincasato vecchio di
cento anni.
Ho veduto i cadaveri buttati
sulle spiagge dei mari a dozzina, ho veduto morire gente sui campi di
battaglia, ma non ho mai subito il terrore che mi ha fatto subire un uomo
calato da un tetto e sorretto dai combattenti e fatto andare per le strade come
un fusto di carne morta.
Il cadavere che cammina e piega
su se stesso con la testa che va da una parte all’altra, toglie il respiro. Si
allibisce come in mezzo ai fantasmi dell’incubo notturno.
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