Il pomeriggio della seconda
giornata del maggio novantotto, è stato per tutti una sorpresa. Coi serra serra
del giorno prima, durante i quali sono caduti morti un questurino e un operaio,
c’era in giro qualche apprensione, ma nessun Mathieu de la Drôme avrebbe preveduto che due o tre
ore dopo si sarebbero fatte le fucilate per le vie come in tempo di
rivoluzione. La gente che passava e vedeva la truppa che si sparpagliava per le
arterie principali veniva presa dal panico ma non correva fino alla
disperazione. Più tardi le notizie si facevano e si sfacevano. Chi narrava di
aver assistito al massacro e chi smentiva il narratore. La cosa curiosa di
tutti i momenti tragici della vita pubblica, è che nessuno era sicuro di quello
che raccontava.. Le persone che asserivano di aver l’eco della scarica nelle
orecchie, si lasciavano poi convincere dagli altri che lo sbigottimento aveva
dato loro una fantasia spaventata. Mi ricordo come se fosse adesso. Un uomo
tutto grigio, tutto tremante, diceva balbettando che cinque o sei operai erano
andati uno sull’altro fulminati da una scarica militare. Il ricordo della scena
lo faceva piangere in un modo convulsonario. Un altro presente lo guardava
meravigliato e si convinceva di essere davanti ad un pazzoide. Era passato lui
dallo stesso punto, alla stessa ora, e non vi aveva veduto anima viva. Si
trattava di un caso di allucinazione? Certi spargitori di notizie false
dovrebbero essere arrestati, si diceva. Si fa presto a disonorare la truppa. In
quel momento tutti avevano bisogno di credere che i soldati fossero incapaci di
ubbidire ad ordini selvaggi e il vecchio incominciò a titubare, a credere di
aver straveduto e a ritirarsi dal capannello come un diffamatore colto in piena
calunnia. Di vero non c’era che un berretto che passava da un centro all’altro,
per ricomparire più tardi con la materia cerebrale di un pitocco buttato in
terra col cranio sfracellato.
Verso l’imbrunire le notizie
erano sempre allo stato confusionario, ma i cittadini prudenti rincasavano in
fretta e in furia, sbalorditi e disperati. Nessuno o pochi sapevano quello che
era avvenuto dalle due a sera, ma tutti sentivano che c’era stato qualche cosa
di grave, di sanguinoso, di furioso, che bisognava salvarsi o caricare il
fucile per difendersi. Io ero violento contro me stesso. Avevo veduto, avevo
negli occhi i morti e i feriti, negli orecchi gli spari e i rantoli ed ero per
la strada pallido di collera a fare nodi alla cordicella che avevo tra le dita
per contenermi. Tutti i nostri uomini pubblici, tutti i nostri grandi, tutti i
nostri deputati, tutti i nostri consiglieri, tutti i nostri giornalisti, tutti
i nostri personaggi, sono rimasti assenti, non si sono fatti vivi, hanno
ignorato che nella via i soldati ammazzavano il popolo disarmato, il popolo che
non sapeva nulla. Quanta viltà! I nostri uomini politici non sono eroi che ai
banchetti. Lamartine nel ‘48 e Victor Hugo nel ‘51 non hanno insegnato loro
niente. L’uno e l’altro, illustri, hanno osato passare tra selve di baionette,
quando le baionette facevano strage; l’uno e l’altro sono rimasti
imperturbabili sotto la grandine di piombo; l’uno e l’altro hanno saputo
apostrofare la truppa che non fraternizzava col popolo. I deputati del ‘51
hanno fatto le barricate. Baudin vi è rimasto. I nostri non hanno neanche l’età
senile che li scusi davanti la storia. In quel momento che io pensavo alle
crudeltà militari e buttavo in terra tutti gli idoli della vita pubblica
milanese, facevo mentalmente un manifesto da affiggersi per ricomporre il
coraggio cittadino se ve ne fosse rimasto. Proprio in quell’attimo mi sono
trovato a faccia a faccia con un medico che mi diede l’appuntamento per la sera
in una trattoria dove solevamo pranzare qualche volta. Qualcuno gli aveva
raccontato che ero stato in giro a raccogliere episodi con la matita e perciò
alla riunione che doveva aver luogo ero indispensabile. Dove? Non lo sapeva
neppure lui. Non si supponevano spie fra noi, ma le preoccupazioni in momenti
così turbati erano necessarie. Il segreto in tante bocche è sempre un pericolo.
Alle volte, o per mania di darsi dell’importanza o per fiducia con chi si
parla, si fanno confidenze che diventano di tutti. Ci salutammo e ci ritrovammo
a tavola con un giovane deputato che rappresenta anche ora un collegio
piemontese. La trattoria sentiva della giornata. Molti posti erano vuoti.
Coloro che mangiavano parevano costernati, o tacevano o conversavano sottovoce
con una sobrietà di parole che dava all’ambiente un non so che di lugubre. Ci
separammo con l’intesa di andare ciascuno per nostro conto alla redazione di un
giornale, dove saremmo stati ricevuti dalla persona incaricata di dirci il
luogo della riunione. Vi trovai molte facce sconosciute, facce garibaldine,
facce democratiche e un via vai di gente che andava e veniva. Anche la
redazione traduceva la giornata del diavolo. Le figure passavano tristi e mute,
poi ripassavano con lo stesso contegno riguardoso delle persone che non
vogliono essere interrogate. Tuttavia sovente l’amicizia interrompeva la
musoneria e costringeva a parlare. Si sentiva un po’ di tutto. Chi diceva con
la voce dimessa che non c’era più nulla da fare, perché ormai la libertà dei
cittadini era alla mercè del comandante della truppa di Milano, e chi
raccontava che gli insorti avevano dato fuoco al palazzo Saporiti dopo di aver
fatta una gigantesca barricata sul corso Venezia, e chi faceva venir su la
pelle d’oca con mucchi di cadaveri portati via dal luogo del disastro a braccia
di popolo. Da tutte quelle narrazioni contraddittorie le mie illusioni
continuavano a volar via, Qualcuno aggiungeva che erano incominciati gli
arresti a domicilio e aggiungeva panico a panico. I più prudenti prendevano la
via del loro domicilio senza voltarsi indietro. Ce ne andammo alla spicciolata
come eravamo entrati. Io e il mio amico deputato prendemmo la via dell’Ospedale
Maggiore, attraversammo il corso di Porta Romana, infilammo una delle vie che
lo lambiscono e seguitammo a camminare in direzione di San Celso. La via era
piuttosto deserta e il medico che prestava il suo appartamento per il convegno
era dabbasso in strada che additava la porta agli aspettati e adocchiava se
sbucasse da qualche parte la polizia. La portinaia era di cera. Tremava. Essa è
quella tale stata citata al Tribunale per riconoscere se la signora Kuliscioff
fosse stata la donna velata, cercata invano per provare il complotto. Salimmo
un’altra scala dopo il primo piano, suonammo e ci venne aperto. Passati
dall’anticamera al salotto di riunione vi trovammo un po’ di tutti i colori
politici, dal rivoluzionario scarlatto al radicale pallidissimo. Capi di
organizzazioni operaie, deputati socialisti, deputati repubblicani, deputati
radicali, consiglieri municipali, qualche ex-assessore municipale, direttori di
giornali, giornalisti, avvocati, ingegneri, medici, persone che si occupano di
politica e di questioni sociali, leaders di questa e di quella piattaforma.
l’uscio non stava mai quieto. Ogni momento si apriva e lasciava passare due o
tre persone. Sovente passavano nel salottino senza salutare alcuno, qualche
volta stringevano le mani di qualche amico e davano la buona sera. Pochi minuti
dopo non c’era più posto che sul pavimento e l’uscio non aveva cessato di
andare avanti e indietro. Coloro che entravano dovevano contentarsi di rimanere
all’entrata o nel corridoio che faceva da anticamera. Siccome nessuno degli
invitati sapeva dove e con chi si sarebbe trovato, così ho veduto molte facce
diventare smorte o biancastre o paonazze. Alcuni non sapevano neppure in casa
di chi si trovavano. La maggioranza era terrorizzata, l’inquietudine di alcuni era
tale che pareva che avessero i piedi sugli aghi, la casa del medico pareva un
braciere. Vi si respirava un’aria ardente. Parecchi sono entrati e sono usciti
senza dire parola. In quasi tutti era la preoccupazione di un’irruzione di
poliziotti. Se non fosse stata una vergogna assentarsi dopo essere stati
veduti, parecchi avrebbero preso la scala. Tutti assieme rappresentavano la
fortuna di Di Rudini, di Bava Beccaris e di Minozzi, il questore. Per tutti
loro saremmo stati il complotto, i preparatori dell’insurrezione, i capi della
rivolta. Non ci fu scelta di presidente, ma uno dei presenti si incaricò di
dirigere la discussione. Ascoltavo e tutte le mie illusioni se ne andavano. In
nessuno era l’idea della resistenza. Scarlatto o rosso l’oratore era mansueto,
timido, capace di sciorinare tutte le platitudes della prudenza. Non c’era
niente da fare e si mancava di tutto. L’idea più forte era quella di affiggere
un avviso per pacificare la popolazione e impedirle di farsi ammazzare così
stupidamente, come spettatori a mani vuote, mentre i soldati scaricavano senza
pronunciare una parola. Il manifesto per pacificare la gente aggredita a colpi
di balistite mi sembrava ingiurioso. Qualcuno ha manifestato la rancida idea
giacobina. La truppa fraternizzi col popolo! La truppa non fraternizza mai col
popolo! Se ha fraternizzato è cosa del passato. È cosa del ‘48. Non è che a
Parigi, al tempo di Luigi Filippo, che si è veduto simile spettacolo. Gli
ostaggi! Chi ha parlato di ostaggi? È roba da cartisti. Allora si credeva che
nascondendo Wellington e gli altri ministri, e gli altri personaggi ufficiali,
e il principe di Galles, si potesse costringere il Parlamento a concedere la
carta della loro riforma. Ma adesso? Morto o scomparso un ministro se ne fa un
altro. Che cosa hanno giovato gli ostaggi ai comunardi? La loro morte ha
affrettato il trionfo di Thiers. Un moto simultaneo? Ferrovecchi! Quando voi vi
sarete impadroniti di Bava Beccaris, del prefetto, del sindaco, della giunta,
del questore e di tutti coloro che contano per qualche cosa nel mondo
ufficiale, e vi sarete contemporaneamente impadroniti, diciamo, della
polveriera, delle caserme, dei telegrafi, della questura, delle carceri per
liberare i prigionieri politici, delle banche, perché la guerra senza munizione
monetaria è impossibile, quando, diciamo, avrete tagliate tutte le
comunicazioni e avrete eliminate tutte le teste governative, voi vi troverete
in una condizione peggiore di prima. Sarete imbarazzati della vittoria.
L’insurrezione milanese del ‘48, si è trovata, su per giù, nelle stesse
condizioni. I capi del movimento si sono contentati di conquistare Milano, e
così i nuovi contingenti austriaci venuti dal di fuori li hanno sopraffatti.
Neanche un rovescio di dinamite sui soldati potrebbe salvare dal disastro.
All’indomani la città sarebbe bloccata e bombardata. La colpa cadrebbe sulle
nostre teste. Non c’è nulla da fare. Una sollevazione generale spontanea? Voi
avete udito. Non ci sono neanche i ferrovieri. I ferrovieri rifiutano di
abbandonare i treni. Allora che cosa sono venuti a fare? E se non ci sono loro
che sono organizzati e disciplinati, chi volete che insorga? Gli impiegati, gli
esercenti, i negozianti, gli industriali tenuti lontani da ogni movimento
insurrezionale dai loro istinti e dai loro interessi? Una scampanellata ha
agitato tutti i nervi e precipitata la discussione. Era entrata una signora
velata a prendere il marito deputato e dietro lei eran giunti due o tre altri a
far gelare il sangue. Si continuava ad arrestare a domicilio. Alcuni si valsero
del momento di commozione per prendere la scala. Guai se la polizia ci avesse
sorpresi. Nessuno avrebbe cavato dalla testa pubblica che l’adunanza avesse
intendimenti insurrezionali. Le figure più note della democrazia milanese
sarebbero state sotto chiave e tutti sarebbero stati convinti che i propositi
dei radunati erano rivoluzionari. Proprio non ci rimaneva che scioglierci e
dirci addio. L’affissione di un manifesto di pacificazione era pericoloso.
Poteva dar ragione a Bava Beccaris. Non c’era alternativa: o mettersi alla
testa della rivolta, se fosse una rivolta, o tacere e lasciare che gli
avvenimenti si svolgessero da sè.
Il padrone di casa era ansioso.
Le pattuglie erano in giro. La portinaia era sottosopra. Ci si è raccomandato
di andarcene alla spicciolata come vi eravamo venuti. In pochi minuti fummo
tutti dispersi. Io ero con tre o quattro alla distanza di dieci o dodici passi
l’uno dall’altro. Alcuni minuti di ritardo e saremmo stati tutti in gabbia. Il
delegato, o l’ispettore che fosse, con una frotta di questurini in borghese,
era avviato al domicilio del medico, o in quella direzione. Ci disperdemmo
vicino al Baj. Durante la notte molti dei convenuti si sono dati alla fuga,
alcuni sono stati arrestati, parecchi sono stati ghermiti più tardi e non pochi
sono rimasti ignoti.
La riunione è stata sospettata o
scoperta quando eravamo tutti al largo, compreso il padrone dell’appartamento
che ci aveva ospitati, il quale era già in viaggio per la via di Lugano. La
portinaia fortunatamente ha fatto la stupida per progetto o non ha potuto
compromettere alcuno, perché quella gente non era mai passata dalla sua
portineria. Ella non ha saputo dire alla polizia se non che erano salite molte
persone dal dottore e che fra le molte persone era una signora coperta da un
fittissimo velo. La si è cercata per tutta Milano. Con essa si sarebbe messo
assieme il complotto, la congiura, la cospirazione, il proposito di insorgere.
Ma la signora è rimasta sconosciuta e i tribunali militari, dopo che la portinaia
non ha saputo riconoscere nella signora Kuliscioff la signora velata, hanno
dovuto abbandonare il clou del processo dei giornalisti e dei deputati:
vale a dire l’intesa per rovesciare la monarchia e dare all’ltalia una
repubblica.
Ho taciuto tutti i nomi perché
non sono autorizzato a pubblicarli. Così taccio anche quello della signora,
dicendo solo che la donna velata non era proprio la signora Anna Kuliscioff.
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