Nove maggio. Sono a zonzo, come
gli altri giorni, col lapis e il libro delle note in saccoccia. Mi darei dei
pugni. Ho dimenticato a casa il kodak, che mi avrebbe aiutato a raccogliere le
scene della strada. La giornata è splendida, ma il sole non riesce a far
rifiorire le guance della popolazione terrorizzata. La gente è smorta,
biancastra, inquieta. Ciascuno va via per la sua strada, senza voltarsi
indietro, senza salutare gli amici. È come se uno sospettasse dell’altro. In
ogni persona che passa si fiuta un insorto o un delatore. Le muraglie sono
impiastrate di avvisi di tutte le dimensioni. È Bava Beccaris che ingiunge alle
masse i suoi ordini, senza punto far sussultare i nervi della popolazione. C’è
qualcuno che mormora. Ma gli altri che leggono gli cacciano gli occhi negli
occhi come se volessero divorarlo. Nella fraseologia del generale, c’è sempre
del padrone che parla al servo e dell’imbecille che dalla scuola militare non
ha portato via che la brutalità del mestiere. Egli invita i cittadini a versare
le armi da fuoco, come se i fucili, gli spadoni e i fioretti fossero sacchi
di noci o bottiglie di liquori, o fiaschi di vino!
Durante le sommosse popolari
l’aristocrazia e la borghesia inglesi vanno direttamente alla sezione di
polizia a prestare giuramento e a cingersi i fianchi del conciapopolo, il quale
è un randello corto che spacca la testa del rivoltoso al primo colpo. I policemen
non sono per le vie e per gli squares dei tumulti soli, abbandonati
al disprezzo della folla che mugge contro i nemici dei suoi diritti. Escono
dalle caserme con le upper classes, con dei pari, degli ammiragli, dei
generali, dei deputati, degli avvocati, dei medici, dei banchieri e col resto
dei cani grossi della terrocrazia e della plutocrazia. Le upper classes della
paneropoli, si contentano invece di lasciare il loro biglietto di visita alla
residenza del generale Bava Beccaris, il quale è, come tutti sanno, nel palazzo
del comando militare in via Brera, 15. Un biglietto di visita costa poco e
sopprime la noia di un probabile conflitto con le moltitudini.
Leggo la Perseveranza - il
quotidiano della consorteria milanese, che incomincia questa mane la vitaccia a
cinque centesimi. In questo giorno è un giornale che sbalordisce. Non è più il
leone sdentato e invecchiato nella gabbia del serraglio. È un leone in piedi
che rugge squassando la giubba e guarda la «plebe» con la minaccia negli occhi
torvi. Dal primo giorno dei tumulti, la Perseveranza ha buttato via ogni
solidarietà professionale. È divenuto un foglio fratricida. Si presenta ogni
mattina al pubblico, con le mani gocciolanti del sangue dei colleghi che ha
sgozzato nella notte. Le sue colonne sono piene di delazioni. Essa incita gli
agenti a piombare sui difensori della libertà di stampa.
La maggioranza dei giornalisti
milanesi è composta di forcaioli. Non pensa che col ventre. Manderebbe al
patibolo tutti noi che abbiamo l’audacia di prendere i ventraioli della penna
di redazione a pedate. I vostri nomi sono registrati nel mio diario.
In questo momento di disgusto mi
ricordo con compiacenza della Parigi giornalistica delle giornate di luglio,
dei giornalisti del ‘30, i quali rimasero uniti a difendere i diritti della
libertà di scrivere contro le ordinanze reali che volevano distruggerla.
Piuttosto che subire il bavaglio, hanno preferito lasciare la penna in
redazione e discendere nelle vie a combattere sulle barricate fino a monarchia
finita. I soldati fraternizzarono coi «rivoltosi» per il rispetto alla Carta, e
Carlo X dovette scappare dal «cervello del mondo» di notte, come un ladro.
Piazza San Fedele è popolata. Ci
sono qua e là dei capannelli che chiacchierano. I gradini del teatro Manzoni e
della chiesa in faccia sono gremiti di spettatori. Intorno al monumento discutono
parecchi signori dal solino lucido e dalle mani inguantate. Approvano l’energia
del generale e dicono che Milano finalmente ha trovato la mano di ferro che le
mancava. Ma aggiungono che avrebbe dovuto risparmiare Turati «perché non è mica
uno scalmanato che vada in piazza con una palata di parole roventi a
rimescolare il fondaccio delle passioni volgari della plebaglia. Egli è un
intellettuale con idee che non sono le nostre, ma che si possono discutere».
Si aspetta la solita processione
degli arrestati del giorno prima. È uno spettacolo desolante questo di
assistere alla sfilata di sessanta o ottanta individui, legati a due a due,
circondati dalla cavalleria, dai carabinieri e dagli agenti di pubblica
sicurezza, con la bocca della rivoltella che li guarda in bocca. Il pensiero
che la distrazione possa farne scattare qualcuna, mi fa sentire il tormento
degli aghi nella pelle. Perché fate loro attraversare mezza Milano a piedi, a
rischio di trovare qualche esaltato che gridi viva o abbasso qualche nome? Per
procombere su loro ed ammazzarli? Mi sento male a pensarci. No, oggi non voglio
vederla. Mi bastano quelle di ieri e dell’altro ieri.
Filo per Santa Radegonda e mi
fermo rasente il Duomo, cogli occhi verso la piazza. È occupata militarmente e i
soldati hanno l’aria di poveracci che non hanno riposato nel proprio letto.
Coloro che tentano di flanellare lungo i cordoni militari, vengono mandati al
diavolo con la voce rude che sente del momento.
Domando il permesso all’ufficiale
vicino ai magazzini del Bocconi di attraversare la Galleria per salire
all’associazione della stampa. Gli presento la tessera sulla quale è incollata
la mia fotografia. Non si può. Non è permesso. Gli ordini militari non si
discutono, e volto indietro per il corso Vittorio Emanuele. Non sono ancora
vicino al ristorante dell’Orologio, che la gente si mette a scappare in tutte
le direzioni e i negozi semichiusi si chiudono precipitosamente, come se un
esercito di pitocchi stesse per irrompere a dare il sacco alle botteghe. Il fuggi
fuggi fa andare gli uni addosso agli altri e il panico corre per il corso a
mettere tutti sossopra. Si chiudono le porte, si chiudono le finestre e si
lasciano i pedoni senza un rifugio per salvarsi dai pericoli della strada.
Qualche signora che non sa allungare il passo o decidersi a raccogliere le
vesti ed imitare le altre, si spaventa, scolorisce e pronuncia parole che
racchiudono la sua desolazione di essersi lasciata sorprendere dalla sciagura
cittadina.
Si senton le ruote dei carri
pesanti che sussultano lungo l’acciottolato e le zampe dei cavalli enormi che
sdrucciolano di tanto in tanto sulle pietre dei ruotabili. Sono due cannoni di
grosso calibro accompagnati dai carri con gli attrezzi e con la munizione.
Vanno via al trotto e lasciano supporre che siano avviati verso il teatro della
insurrezione. All’annuncio che vengono i cannoni, San Pietro all’Orto - ove
erano gli uffici dell’Italia del Popolo - perde la testa. Donne e uomini
gridano, piangono e si inseguono come invasi dal terrore. Una delle cuoche
della casa tollerata si dispera, percuotendo coi pugni la porta che non vuole
aprirsi, neppure dopo aver premuto e ripremuto il bottocino del campanello
elettrico. La lattaia, a qualche passo di distanza, sviene sul gradino della
bottega che stava per chiudere. A mano a mano che i cannoni e le mitragliere si
avanzano, la gente infuriata svolta in S. Pietro all’Orto e completa il quadro
di una popolazione tribolata dalla guerra civile. Si sentono gli
sbatacchiamenti delle ultime porte, delle ultime imposte, delle ultime botteghe
aperte. Non si vedono che gambe in fuga.
Il corso è quasi deserto. Passano
tre lancieri, l’uno dietro l’altro, a pancia a terra e scompaiono per la via
Monforte. Gli artiglieri a cavallo frustano le bestie; e le bestie infuriate
divorano la via, e i cannonieri, appoggiati agli affusti, hanno assunto un
atteggiamento più bellicoso.
Svoltano a destra sul naviglio.
Io torno indietro e imbocco, come i lancieri, la via Monforte, scavata nel
mezzo per i lavori di tubazione, fin quasi al ponte di San Damiano. Oltre il
ponte la via Monforte non ha che due o tre bottegucce del polentaio, del
giornalaio, di un merciaiuolo di cianfrusaglie, eccetera. Il resto è popolato
di residenze signorili. A destra, quasi in faccia alla via Conservatorio, è il
superbo Palazzo della Prefettura, col suo balcone immenso, sorretto dalle
colonne a scanalature.
Arrivo proprio in tempo a vedere
un reggimento o parte di un reggimento di fanteria che va verso il dazio
spacchettando le cartucce nella giberna. Sembrano soldati che vengano da
lontano. Sono impolverati fino ai capelli e taluni piegano sotto il peso dello
zaino e del fucile. A due passi dalla Prefettura c’è il via vai della giornata
di perturbazione cittadina. Via Monforte non subisce la paura degli abitanti
delle altre vie. Vicino al rappresentante del governo la gente si sente più
sicura. I balconi sono pigiati di signori e di signore che applaudono
entusiasticamente ai soldati che passano. Da una parte e dall’altra, si vedono
i fazzoletti candidi che agitano l’aria e le manine che si aprono come se
lasciassero cadere dei fiori. I soldati tirano innanzi senza guardare in alto.
Solo gli ufficiali danno segno di compiacimento.
Si parla di studenti venuti da Pavia a ingrossare
il numero dei rivoltosi, nascosti nelle cascine di Acquabella e accampati nelle
vicinanze. Se ne discorre e si allibisce, affrettando il passo. Alcuni squilli
di tromba mi fanno ritornare presso il ponte di San Damiano. Mi pare di essere
bloccato al centro delle operazioni militari. Continuano gli squilli. È un
generale con degli altri ufficiali a cavallo, seguito dai trombettieri e
parecchi lancieri. Alcuni mi dicono che sia il generale Bava Beccaris in
persona. Ma i più lo credono Ponza di San Martino. Può darsi che sia invece né
l’uno né l’altro. Il generale e gli ufficiali entrano in via Monforte colle
spade sguainate e ciascuno di loro grida dappertutto: «Chiudete le finestre o
faccio tirare!». I cavalli caracollano, s’impennano, nitriscono e tentano di
prendere la mano ai cavalieri.
La gente, colle mani calde del
battimani fragoroso che aveva salutato la truppa, scompare chiudendo le
imposte. I passanti vengono respinti verso il ponte. Gli imbocchi delle vie
trasversali si chiudono con mucchi di soldati. Si prepara qualche cosa di
grosso. L’entrata al ponte ha una siepe di monturati che impedisce il
passaggio. Si allineano i soldati anche davanti il portone della prefettura. Al
limitare c’è ressa. Vedo gruppi di persone che si sciolgono e si rifanno o si
perdono dietro le colonne.
Qui al cordone di San Damiano c’è
voluto del fiato per indurre i soldati a lasciar passare i fattorini con manate
di telegrammi.
Sono le undici e mezzo.
Incominciano le fucilate di Porta Monforte. Si sentono colpi a intervalli. Dal
mio posto vedo una nube di polvere bianca verso il dazio e dei cavalli che
sbucano e ritornano nella nuvolaglia qualche volta illuminata dalle esplosioni.
Dei signori che stanno in via del
Conservatorio vogliono assolutamente passare. Le famiglie, sapendoli per le
strade, devono essere inquiete.
- Signor ufficiale, ci faccia
passare o accompagnare. Ecco il nostro biglietto di visita.
- Mi duole, ma ho ordini severi:
non si passa.
Il fuoco fuori di Porta Monforte
diventa accelerato. Pam, pam, pam!
Pam, pam, pam, pam!
La commozione diventa generale.
Tuona il cannone.
Indietro! Indietro!
Con le cannonate che imperversano
per l’aria, ho tempo di fare delle considerazioni giornalistiche!
È un mio debole di sostenere i
diritti della penna pubblica, dovunque si tenta metterli in dubbio o
sopprimerli. Le autorità militari vedono nel reporter un intruso o un nemico.
Lo respingono dappertutto come un rognoso.
Questi signori non hanno ancora
capito ch’egli è lo strumento più utile dei popoli che non hanno vergogna di
far sapere al mondo come si svolga la vita nazionale.
Il reporter è il raccoglitore
degli avvenimenti che si compiono sotto i suoi occhi. È impersonale.
Voi fate bene, e il fatto,
ch’egli serve caldo al pubblico, vi copre di elogi e vi circonda di
ammirazione.
Voi fate male, e la gente col
documento che egli ha diffuso, vi critica, vi biasima e magari vi stramaledice,
come perturbatori della quiete pubblica o come autori di sventure cittadine.
Carlo Houard Russel, il reporter
della guerra in Crimea, ha fatto piangere il Regno Unito, con le rivelazioni
ch’egli metteva assieme sulle alture di Alma, di Balaclava e davanti a
Sebastopoli, vivendo in mezzo ai soldati, chiacchierando cogli ufficiali,
conversando coi superiori che sapevano di strategia, e passando delle ore coi
medici e col personale addetto alle ambulanze.
Senza di lui, migliaia di soldati
di più si conterebbero tra le vittime del colera, della fame e delle bocche da
fuoco. Senza di lui, lord Ragan sarebbe passato alla storia assai più che come
il mutilato di Waterloo, come l’eroe degli eserciti alleati che hanno
combattuto per la conquista di Sabastopoli - il grande arsenale russo del mar
Nero. Invece le lettere di Russel lo hanno fatto nicchiare tra i generali
confusionarii, che perdono la testa come Bazaine, pur essendo circondati da un
materiale di guerra che basterebbe a condurli alla vittoria.
È un supplizio crudele quello di
stare qui, al margine del teatro di guerra, con le orecchie rintronate da un
fuoco incessante di fucileria, a straziarvi col pensiero che a pochi passi dai
vostri piedi si combatte disperatamente, senza poter rompere il cordone
militare! Farei in due la mia tessera giornalistica! Ma dunque, o colleghi,
avete o non avete conquistato il diritto professionale di passare dovunque?
Corro, corro lungo il naviglio
verso porta Vittoria, con l’idea di voltare in via Stella e riuscire a
percorrere fin sotto i casini daziarii di Porta Monforte. Non incontro che una
ragazza e una bimba che chiamano tutti i nomi del vicinato senza commuovere
alcuno.
- Luigia, Giovanna, Marta,
aprite, fate presto, per amor di Dio!
L’egoismo li ha resi tutti sordi.
Loro sono in casa, rannicchiati come tanti conigli, e chi è fuori, crepi!
Col battaglio del portone metto a
rumore il casone.
- Aprite, in nome della legge!
Si apre, e io continuo il mio
itinerario. Avvicinandomi all’estremità del naviglio, le fucilate si fanno
sentire una dopo l’altra, come se i soldati fossero dietro qualche riparo a far
fuoco contro i passanti rimasti per la strada.
Sull’angolo di via Francesco
Sforza, è un gruppo di gente, addossato alla bottega della farmacia chiusa, che
non sa più da che parte avviarsi.
Sul ponte Vittoria le palle
passano fischiando e, al dorso, dove incomincia il corso Vittoria, è la
cavalleria che scorrazza inseguendo chiunque col revolver alla mano e il grido:
indietro, indietro!
Una vecchia del gruppo continua a
farsi il segno della croce.
Giunge, trafelata, vicino alla
farmacia, una lavandaia, che abita in via della Cerva, cioè giù dal ponte, a
destra del Verziere. Vuole assolutamente rincasare.
Ha dei figli e le preme di sapere
dove siano i suoi figli.
- Fanno fuoco, badate, Teresa,
ritornate indietro!
Ella, la grandigliona non ha
paura. Protetta dal grembiule, che si è tirato sulla testa, prende la rincorsa
e scompare, seguita dai pam! pam! che vengono dalla via Stella.
- Gesumaria! gridano le donne
dall’altra parte.
Dal naviglio di San Damiano,
arrivano al mio posto due donne esterrefatte che abitano nel corso Lodi, fuori
di Porta Romana. Sono inquiete per le loro famiglie, e anche loro, come la
lavandaia, vogliono passare attraverso i pericoli, a costo di perdere la vita.
Cerco di far entrare nella loro testa che è meglio rivedere la famiglia un po’
più tardi che lasciarsi ammazzare. Spreco il fiato. Raccolgono le vesti e
passano di corsa il ponte.
- Pam, pam, pam!
Passate incolumi, le persone
addossate alla farmacia si convincono che i soldati tirano in aria.
- Andiamo, andiamo, che fanno per
spaventarci!
E il gruppo si scioglie e sbuca sul ponte, come una
filata di fannulloni, che vanno per il sole a scaldarsi. Una scarica di fucili
li scompiglia. Scappano in tutte le direzione. È un fuggi fuggi, un si salvi
chi può. Una ragazza precipita a terra dallo spavento e completa la scena del
terrore. Un operaio, che la vede in pericolo, ritorna indietro, gettandosi
sulle mani per evitare le pallottole. Raccoglie la fanciulla sul fianco e se la
trascina giù dal ponte, rasentando la muraglia.
Io mi rifugio nell’osteria
di fianco. Vi si entra discendendo due gradini. Ha l’aria d’una taverna dei
vecchi romanzieri. È tetra, si sente il soffitto sulla testa, e ha i tavoli
popolati di facce che paiono ditte di gente istupidite votando i bicchieri.
Sono invece persone che si sono salvate scappando «per lasciare passare la
tempesta». Nessuno ha voglia di parlare. Ogni fucilata si ripercuote sul loro
sistema nervoso come una bastonata. Entra l’avvocato Crosti della Lombardia,
Ha l’aria di un uomo che ha buttato via più di una notte. I tumulti non gli
hanno dato tregua. Ci salutiamo con un semplice ciao. Ci mettiamo sul
tavolo sotto un finestrone a inferriata che guarda in via Stella. Assistiamo
per alcuni minuti al va e vieni di corsa degli uomini e delle donne in cerca di
rifugio. Le fucilate continuano alla spicciolata, rimbombano spesso sulle
pareti come schiaffi.
Incalzato dalla mia idea di voler
assistere al combattimento tra la truppa e gli insorti, rifaccio il naviglio e
non svolto che in via della Passione. L’arteria è deserta. Le imposte sono
chiuse ermeticamente. Non trovo che un pitocco sdraiato sulla pietra di una
cavità sulla facciata di un edificio. Giungo dinanzi alla chiesa della
Passione. Un caporale e due soldati sono distesi lungo l’imboccatura di
via Vincenzo Bellini. Al di là è il bastione sotto il quale è lo stabilimento
Ricordi. Mi si ingiunge di andarmene. Per il cielo è una gazzarra di spari.
Filo per la via Conservatorio verso via Stella. È caduta una palla dalla parte
opposta al mio marciapiede. Non c’è un portone aperto. Non ho paura, ma non
sono tranquillo.
A metà via, entra da via Stella
un signore bassotto, abbottonato nello stifelius, con la faccia spaventata, che
mi interrompe il cammino con un imperativo brutale.
- Indietro! Indietro! ..
- Chi siete?
- Ve lo faccio sapere subito chi
sono. Soldati, fuoco!
Discutere coi signori che vi
possono scaricare mezzo chilogrammo di polvere nello stomaco, è da insensati.
Non mi faccio ripetere la ingiunzione, e mogio mogio riprendo la via fatta. Mi
pare di non avere più sangue nelle vene. A ogni passo mi aspetto di precipitare
fulminato dai proiettili.
Sono perduto. Mi trovo in mezzo
ad una rete di sentinelle. Da tutte le parti si grida: Indietro! Indietro! Due
cavalleggeri irrompono dalla via Monforte, con le lance piegate e m’inseguono
spronando i cavalli.
- Via! via! Indietro! Indietro!
I proiettili saltellano
freneticamente per le tegole dei tetti. Riesco in via ..della Passione più
morto che vivo. Il cencioso continua a dormire.
Rieccomi di nuovo sul ponte di San Damiano. Al palazzo
della prefettura c’è un andirivieni che traduce il tumulto intorno allo stato
maggiore in margine al campo di battaglia. Il fuoco continua. Ci sono persone
che si staccano e vengono alla nostra volta. Tra loro sono il signor Elia
Fumagalli, un ricco industriale, almeno così mi si dice, e l’ingegnere Macchi,
un proprietario di case al Foro Bonaparte e un uomo assolutamente d’ordine.
Tutti questi signori sono stati trattenuti nel
casino daziario, ov’è il comandante, per più d’un’ora. Il loro racconto è
sommario, ma rivela una pagina dei tumulti che stanno scrivendo le bocche del
cannoni e dei fucili.
Il signor Fumagalli dice che
passava dalla via Guicciardini - la prima a destra del corso Concordia, fuori
Porta Monforte in una vettura aperta, col procuratore Enrico Pirolli. Essi
vennero fatti discendere tra le undici e le undici e un quarto, e condotti al
dazio, ove trovarono l’ingegnere Macchi, arrestato un po’ prima di loro.
Mentre erano nel casino daziario,
il comandante era tutto in faccende a dare le disposizioni dell’attacco
imminente. L’ingegnere Macchi, il quale non sembra mica uno scervellato, fece
coraggiosamente delle osservazioni; come per convincere l’ufficiale superiore
che i rivoltosi, se c’erano, dovevano essere altrove. Lui, personalmente, non
ne aveva veduto uno. Le osservazioni dell’ingegnere erano fatte tra un
complimento e una scusa perché il momento scottava e perché il comandante, che
aveva la sua cavalleria che batteva la campagna, poteva essere in grado di
saperne più di un borghese.
Fu così che parecchi di questi
signori assistettero alle fucilate fatte contro le persiane di alcune finestre
del palazzo a sinistra, quasi di faccia al casino daziario, che lambisce il
bastione di Porta Venezia. L’ingegnere Macchi aveva fatto di tutto per
assicurare i signori ufficiali che le loro informazioni non potevano essere
esatte, perché in quel casone signorile abitavano buonissime famiglie, ch’egli
conosceva personalmente. E, dicendolo, dava la sua parola d’onore, che non
erano famiglie che si occupassero di dimostrazioni. Aggiungeva anche che dietro
le persiane agitate, contro le quali si voleva far fuoco, era l’abitazione di
un ottimo padre di famiglia, che sedeva tutti i giorni nel seggiolone di
giudice di tribunale. Ma il tenente incaricato di ordinare il fuoco non volle
sentire ragioni. Era nella testa delle autorità daziarie, della sicurezza
pubblica e militare, che dalle finestre del giudice di tribunale erano usciti
dei colpi di revolver e di fucile.
Non potendo reggere allo strazio
di vedere la truppa che tirava contro le finestre degli amici, l’ingegnere
Macchi prese per un braccio il signor Fumagalli, e tutti e due rientrarono nel
casino daziario ad aspettare che il comandante si persuadesse della loro
innocenza. Intanto che erano chiusi nell’anticamera dell’ufficio, gli squilli
di tromba e le cannonate li facevano impallidire.
I due cannoni che vomitavano la
mitraglia micidiale erano appostati colla bocca verso corso Concordia. Il
secondo, a pochi passi dal marciapiede sinistro del piazzale Monforte, tirava
sul convento dei Cappuccini. Dopo i due squilli, udirono quattro cannonate: la
prima fece sussultare i vetri del casino dove erano, e l’ultima diede a tutto
l’edificio uno scotimento, che fece traballare il suolo sotto i loro piedi.
Intanto che i proiettili
imperversavano per l’aria, nel casino daziario si diceva che gli studenti di
Pavia avevano fatto le fucilate con la truppa schierata lungo i cancelli di
Porta Venezia. Si parlava di un fuoco disperato. Inseguiti, si sarebbero nascosti
nel convento e nella chiesa dei frati, da dove vennero sloggiati dalla
mitraglia. Poi si sarebbero dispersi per le cascine di Acquabella, lasciando a
torno gli avamposti in bicicletta.
Cessato il fuoco, l’incaricato
militare annunciò a tutti che erano liberi di andarsene «perché di loro non
aveva dubbio alcuno». Saputo che erano persone per bene, il comandante li fece
scortare fin dove cessava il pericolo. Lieti di poter correre a casa a
tranquillizzare le famiglie, i signori vollero manifestare la loro gratitudine
ai soldati con un beveraggio. L’ingegnere Macchi fu il primo ad iniziare il
movimento con un biglietto da cinque o da dieci. Gli altri lo imitarono con dei
biglietti da una o da due lire. Il soldato che aveva ricevuto il denaro,
senza protestare, diede l’esempio che i soldati non si lasciano pagare, per
nessun servigio.
Non appena al primo cordone, li
denunciò in massa all’ufficiale di picchetto, come tanti corruttori. Ci volle
del bello e del buono per farlo placare e fargli capire che loro, non potendo
offrire alla scorta né bibite né bevande, avevano voluto contribuire con
qualche cosa, perché se le comprassero.
Spiegato l’equivoco, il tenente
li lasciò passare.
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