Il convento, destinato a
signoreggiare gli avvenimenti della quarta giornata, non è «quasi nascosto tra
gli alti fabbricati» ,, come vorrebbe uno
sciocco redattore della Lega Lombarda, che riempie le colonne della
«Milano durante i tumulti» di inesattezze delittuose e di sentimenti
anti-cristiani. È un edificio che in piazza Monforte nessuno può evitare di
vedere. Ha il fianco destro completamente libero, che margina il principio di
corso Concordia e la fronte che corre lungo il viale, che porta il nome del
centro ov’è accampata la truppa.
La parte della cinta del cortile,
dimezzata dal cancello di ferro, è sul rialzo dei pedoni, sotto il quale è il
binario del tram. Il viale è largo e a due binari, e il convento ha di faccia
il casone della farmacia, che incomincia il viale interrotto dal piazzale, sul
rialzo dei pedoni, dalla parte opposta.
L’interno del cortile può essere
descritto da un ragazzo. Dinanzi il cancello è la chiesuola del Sacro Cuore con
il suo pronao rustico, sotto cui seggono tutti i giorni i poveri che mangiano
la minestra distribuita dai frati. A destra è la muraglia addosso alla quale i
pitocchi si appoggiano o si distendono a mezzodì, col cucchiaio di legno nella
mano sul ventre che borbotta. Nell’angolo è l’entrata al convento propriamente
detto. Tra il limitare e la postierla è un andito piuttosto buio con lo
sportello a sinistra, dal quale sbuca la testa simpatica del frate Melitone che
scodella la minestra e aggiunge, per i più affamati, fette di polenta e tozzi
di pane. All’altro fianco del cortile è un portone che non si apre che quando
la frateria riceve i carri carichi di legna o di fieno o di paglia o di farina
o di pasta. Dall’angolo di questo portone della muraglia parallela all’altra
sono due abitazioni: quella del coronaio e quella del signor Roveda, un
vecchietto di 70 e più anni, che passa la vecchiaia giocondata dalla presenza
della moglie e di cinque figli. È una famiglia della quale tutti vi parlano
bene.
Il coronaio è un uomo alto e
brutto. Ha il naso grosso e gualcito degli ubriaconi. Al momento dell’invasione
militare, egli era in casa con le convulsioni. Le palle percotevano
fragorosamente le sue gelosie e il suo uscio d’entrata. Di sopra, sua sorella,
gravemente ammalata, piangeva dirottamente dalla paura. Calci del fucile gli
fecero aprire.
- In ginocchio! - gli gridò
l’ufficiale piantandogli in faccia la bocca della rivoltella.
E il povero coronaio, con la
pelle lividastra, si lasciò andare sulle ginocchia colle mani giunte.
- Dove sono i rivoltosi?
- Non lo so, signor tenente.
E il tenente lo fece arrestare.
Il capo dei mendicanti è il
Cerina, un tipo che io ho dovuto studiare più di una volta nella mia Milano
sconosciuta e Milano moderna. È un ex-librivendolo disgustato della vita
ladra che lo obbliga, a 70 anni e impotente, a dormire sotto un cielo indiavolato,
o sui gradini delle chiese, o in fondo agli angiporti, o con le spalle al
pilastro d’un’arcata qualunque, nelle notti ch’egli chiama polari. Pare un
Aronne. La sua barba, folta e fluente, gli tiene caldo lo stomaco, e la sua
capigliatura, che ingrigia adagio adagio, documenta la sua discesa nell’inferno
sociale. Il suo sogno è di rialzarsi con una bracciata di libri vecchi o
arcivecchi. Mi diceva l’altro giorno che, se non gli avessero arrestato il suo
amico Carlo Romussi, direttore del Secolo, a quest’ora la sua fortuna
sarebbe fatta. Prima dell’arresto gli aveva promesso una carriolata di classici
della biblioteca Sonzogno.
La sua predilezione per i frati
del convento del viale Monforte è spiegabilissima. In mezzo alla pitoccaglia,
egli è ancora qualche cosa. A mezzogiorno il buon Cerina diventa una specie di
caporale di un pelottone di pezzenti. Separa gli spiantati dalle spiantate,
mette in fila gli uni e le altre e lascia prendere a ciascuno di loro una
scodella di minestra fumante. «Non faccio per dire ma è minestra di brodo che
sente della pestata di lardo. A me piace e piace anche ai miei colleghi» ..
Il portinaio è frate Daniele. Un
uomo alto e ossuto, con gli occhiacci della gente che porta nel petto il male
crudele che manda sollecitamente all’altro mondo. È stato parecchi anni al
Chilì, ove prese una febbriciattola che lo tormenta ancora. Il suo italiano ha
molto del bergamasco. È di una intelligenza più che comune. Non posso mettere
in dubbio la sua vocazione religiosa, perché indossa la tonaca da una filata
d’anni. Ma non sono sicuro ch’egli sia capace di capire quello che legge, se
pure legge. Coi poverelli è di una bontà femminile. Fino a caldaia vuota non
nega mai una scodellata di minestra a chi gli riporge la ciotola per saziarsi.
I mangiatori di minestra
appartengono ai due sessi. Le donne sono malvestite, stracciate, piene di
pezze, coi piedi negli zoccoli che piegano sui sassi. La loro faccia riassume
un secolo di patimenti. Talune entrano dinoccolate, coi bimbi sulle braccia,
che paiono sacchetti di carne morta, o coi piccini a mano, che strascinano
dietro come il bastone gli sfaccendati. I bimbi, abituati ai pasti irregolari e
a tutte le sofferenze degli adulti, hanno perso il vezzo di piangere. Sono
piccini, stracchi, stremati, spolpati, anemici, biancastri, che fanno andar via
la voglia di vederli. Sono sporchi, puzzolenti con la mucidaglia assecchita
sotto i nasucci pavonazzi, con gli occhi incatramati di secrezioni, con le
manine vischiose, coi pannolini a sbrendoli, che penzolano pieni di cacherie.
Le madri non sono vecchie.
Sembrano donne state sorprese sullo stradone dalla bufera, che ha loro portato
via la fioritura dalle guance. Non hanno più nulla. Sono volti scarni, mammelle
vuote, fianchi sfiancati. Il loro occhio smarrito traduce la fame.
Gli straccioni sono vecchi e
giovani. C’è chi ha il piede nella fossa e chi lo ha appena alla soglia della
vita. Indossano abiti frustati da tre o quattro generazioni. Giacchettoni
scuciti, chiazzati di untume, coi baveri impegolati dal sudiciume delle
zazzere. Cappelli stinti, sforacchiati, con la tesa staccata giù per la nuca o
per l’orecchio. Calzoni consumati, che perdono il sedere, che mostrano le
ginocchia, che lasciano vedere i malleoli impaltati. Qualcuno sembra un
viandante che abbia sospeso il cammino per ristorarsi lo stomaco. Porta appeso
alla schiena il parapioggia di cotone mezzo marcio, colle bacchette che
scappano fuori da tutte le parti, e qualche altro scalcagnato tiene sotto il
braccio il fagotto dei propri cenci.
A scarpe stanno tutti male. Sono
sfondate, slabbrate, piene di buchi e di cicatrici. I loro padroni vanno via
lemme lemme, come se avessero i piedi piagati o le dita suggellate di calli
scellerati.
Passata la postierla vi trovate
sotto i portici che inquadrano il primo giardino. La floricoltura non deve
essere spasso dei frati scalzi, perché non si vedono che alberelle morenti o
tisiche, o campanule rosse come nei prati. Lungo il portico, a sinistra, è
l’entrata dei cappuccini nella chiesa. Al di là è un altro «giardino»,
incorniciato da portici identici a quelli del primo. È un po’ più rifiorito
dell’altro ed è riservato ai soli «padri» e agli «studenti». Sotto i portici
sono la «scuola di eloquenza» e il «refettorio». Gli studenti non superano la
dozzina. Non so che cosa imparino, perché, interrogandoli, mi salutarono e non
mi risposero. Avranno forse qualche regola speciale, che non permette loro di
parlare coi civili!... Appena ritornati dalla prigionia, vi sembravano tanti
smemorati che avessero dimenticato tutto in una notte, o individui cresciuti in
un isolotto disabitato e senza comunicazioni col mondo. Le pareti dei portici
del primo e del secondo giardino, sono illustrate da oleografie che
rappresentano tutte le tradizioni dei... padri... che li precedettero. Sono
orribili frati del 500! con la palma in mano, con la bocca aperta, con le
braccia slargate, dinanzi le apparizioni di dio e della madonna o di qualche
altro demonio santificato. Alcuni volano, altri sono coi piedi nell’aria e con
le mani che stanno per aggrapparsi alla nuvolaglia celeste. Sono tutti frati
inebriati, estasiati, imparadisati. Le biografie sotto le illustrazioni, fanno
scompisciare dalle risa anche le persone che vogliono essere serie ad ogni
costo..
Il caporale maggiore, che
dall’alto del carretto ha scambiato i cenciosi per una banda di ribelli, ha
pure sentito un colpo di fucile, che gli parve uscito dalla folla del cortile.
Fu forse questa esplosione che lo fece saltare in terra terrorizzato.
Il testimonio che non vuole
essere riconosciuto, mi raccontò l’assalto al convento senza fremere e senza
una parola di biasimo o di lode per alcuno.
- Dopo le comunicazioni del caporale maggiore, la
truppa circondò il convento e incominciò un fuoco di colpi secchi e insistenti.
Gli inquilini delle case, che udivano lo strepito delle palle, credevano che i
soldati stessero contendendo il terreno ai rivoltosi, comandati, come dicevano
alcuni, dal Pirolini repubblicano. Siccome non compariva nessuno, aumentarono
le scariche. Dietro le griglie della mia casa, non vedevo che fumo e non
sentivo che un pam! pam! che infuriava e una gragnuola di proiettili che
penetrava negli edifici, frantumava i vetri, faceva cadere tegole o portava via
tocchi di grondaie. Le palle si rovesciavano sul convento a centinaia per
volta, con un accanimento che gelava il sangue. Tutti poi, dalle case vicine,
credevano a una resistenza inaudita e pensavano alla strage. Alle fucilate si
aggiunse il cannone.
Buum! Buuummm!
- Lo spavento delle famiglie fa venir su la pelle
d’oca anche adesso. Non abituate a trovarsi così vicine ai combattimenti di
uomini contro uomini, le donne gridavano, si stringevano al petto i figli e si
nascondevano, dove l’entrata dei proiettili era meno probabile.
- Buumm! Buuuummmm!
- Le cannonate si prolungavano
nell’aria e diffondevano il terrore. Furono per me, e credo per tutti, momenti
crudeli. Mi aspettavo una scarica di cannone nel salotto, ove mi trovavo, di
minuto in minuto. Deploravo di non aver mandato la moglie e i figli altrove. Ma
poi dicevo che non ne avevo colpa.
La muraglia venne sfondata in due
minuti. Il cannone aveva fatto una larga breccia, nella prima muraglia vicino
al pilastro del cancello, dalla quale potevano passare tre uomini assieme. I
soldati entrarono nel cortile a baionetta in canna al grido di: vittoria!
vittoria!
Non vi trovarono che gli ultimi
poveri che fuggivano, dopo aver aiutato a spalancare la postierla, e tre
cadaveri. Il primo, mi disse il Cerina, che era presente, venne ucciso mentre
metteva in bocca l’ultima cucchiaiata di pasta. Era addossato al muro vicino al
pisciatoio e cadde in terra morto con la tazzina in mano. Il secondo credevano
che fosse diventato matto. Prese la rincorsa, fece quattro o cinque passi verso
il centro del cortile e precipitò supino come un sacco di stracci. Egli era
morto come l’altro. Il terzo irrigidiva sotto il portico della chiesa,
stiracchiandosi con dei moti convulsi.
Un altro mendicante era stato
colpito durante le prime fucilate a pochi passi dal cancello, evidentemente in
cammino per entrare a mangiare la minestra.
I tre del cortile erano
vecchiotti. La loro esistenza era forse inutile! Dio li abbia in gloria!
- Il cancello era aperto o
chiuso?
- Chiuso. La chiave era nella mia
tasca. Dal principio dei tumulti, i frati avevano creduto che le precauzioni
non fossero mai troppe.
- Cerina - mi dissero - voi
conoscete quasi tutta la «nostra famiglia» che viene a mangiare a mezzogiorno.
Non aprite che ai nostri amici.
- Avreste aperto anche ai
soldati, suppongo, se ve lo avessero ordinato.
- Subito. Non avrebbero avuto da
dirmi che questo: «Aprite.!» perché il cancello venisse loro spalancato.
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