Luigi
Cerina, con la sua deposizione alla buona, c’introduce nell’intimità del
dramma. «Le turbolenze dei primi due giorni mi avevano insegnato un po’ di
prudenza. Dopo la sollevazione di Porta Ticinese, consigliai i frati a
sospendere la distribuzione della minestra. Dicevo loro che la ragazzaglia
avrebbe potuto mischiarsi coi mendicanti e far nascere qualche cosa di grosso
nel convento. I frati, buoni, isolati dagli avvenimenti, pensavano più allo
stomaco dei loro ospiti che alla perturbazione cittadina. Essi si credevano
lontani mille miglia dalle operazioni militari. Così non furono del mio parere,
e bisogna convenire che non avevano tutti i torti. Chiudere il cancello ai
mangiaminestra era facile, ma dove avrebbero trovato da mangiare tutti questi
poveri cristi la cui esistenza era basata sulla tazzina calda che dava loro il
convento? Sospendendo la distribuzione, avevano poi paura di venire biasimati e
di contribuire, senza volerlo, a dare il combustibile alle barricate. I
cenciosi, la cui maggioranza era composta di giovani, avrebbero potuto fare del
baccano e abbandonarsi cogli altri al malfare. Questo solo pensiero dava loro i
brividi. A ogni modo mi dissero: Voi, Cerina, che li conoscete tutti, resterete
al convento. E, dicendomelo, mi affidavano le chiavi del cancello d’entrata,
coll’ingiunzione di non far entrare che forestieri e pitocchi. I forestieri
sono i frati che passano da Milano e sostano al convento una notte o due prima
di riprendere il viaggio.
«Vi ho detto dei tre morti nel
cortile. La confusione di quel momento non era poco e posso avere straveduto. Ma,
se i miei occhi non mi hanno tradito, potete dire che le prime duecento o
trecento fucilate hanno fatto, nell’interno tre vittime. Il terzo mendicante
venne raggiunto non so dove da una palla, mentre finiva di vuotare la ciotola
sotto il piccolo portico della chiesuola. Egli mangiava seduto sulle calcagna.
Rovesciato, supino, si agitava, come se avesse avuto le convulsioni. Può darsi
che non fosse che ferito. Era vecchio, bassotto, sciancato. Alloggiava presso
qualcuno in via Stella. Non l’ho più veduto in nessuna parte.
«I pitocchi, presi dal panico, si
erano pigiati nell’andito e calcati uno sull’altro lungo l’entrata del
convento. Tutti assieme facevano compassione. I proiettili cadevano da ogni
parte e noi non avevamo per coprirci che le nostre mani e per proteggerci che
le nostre preghiere. Le donne coi bimbi piangevano e nascondevano la testa
delle loro creature con le braccia. Gli uomini cercavano di ficcare la faccia
tra le spalle degli altri.
«Con lo spavento, la lotta per la
conservazione della propria esistenza era diventata generale ed accanita.
Ciascuno di noi cercava di mettersi più al sicuro che poteva, spingendosi
innanzi, magari brutalmente, facendosi largo coi pugni chiusi, risospingendo i
più audaci che prendevano gli uomini e le donne per le spalle per aprirsi la
via verso la postierla.
«La scarica, che ci fece
sussultare sul suolo, finì per incalzarci tutti a cercare un rifugio al di là
dell’assito. Si gridava come disperati.
- Oh, Signore! Oh, Madonna!
salvateci! salvateci!
- Ci ammazzano! salvate i poveri
diavoli che non hanno fatto niente di male!
«E un’altra scarica, che mi parve
una cannonata, ci fece perdere la bussola. Infuriati dal parossismo, non ci
furono più riguardi nè per un sesso nè per l’altro. Si spingeva e si calcava
come si poteva. La postierla subiva le ondate impetuose senza cedere. Allora
diventammo tutti pazzi.
- Aprite! Aprite!
- Oh, Dio, si muore!
«E in un momento supremo, come se
tutte le forze riunite si fossero rovesciate verso un punto, le lastre di ferro
dei catenacci che ci precludevano la via del rifugio si staccarono quasi
fossero state di pasta frolla, e l’uscio della postierla andò al suolo con un
fracasso che fece scappare gli ultimi frati in coro.
«L’invasione fu un attimo
indescrivibile. Si fuggiva come quando si è inseguiti dall’acqua straripata dal
fiume. A gambe levate, senza pensare ai caduti, senza voltarci indietro,
infilando la scala che sale o discende, svoltando a destra o a sinistra,
tappandoci in una latrina, in una cella rimasta aperta, nascondendoci nel
solaio, nella paglia della stalla, o buttandoci attraverso le fascine della
legnaia nel cortile del fabbricato rustico. Tutto era buono per salvarci. Un
buco, una tana, un sottoscala, un armadio o il porcile.
«Il rimbombo delle cannonate
entrava nel monastero come una sciagura cittadina, che rincupiva per il
porticato e si schiantava sull’alto della muraglia in fondo, come un
immenso piatto di rame che andava in frantumi.
«Ero riuscito ad accovacciarmi
sull’ultimo scalino della cantina, ove trovai due frati laici che tremavano
come foglie. Dopo di me discesero due altri mendicanti. Nessuno di noi fiatava.
Il cannone pareva che avesse cessato. Non si sentivano più che fucilate che
rumoreggiavano in varie direzioni. Un minuto dopo udivamo i soldati che
sacramentavano per i portici, dicendo parole che la mia bocca educata non può
ripetere. Confesso che il minuto ci parve un secolo. Avevamo paura che i fucili
ci ammazzassero giù al buio come tanti conigli. Eravamo così appiattati l’uno
addosso all’altro, quando una voce dall’alto della scala ci gelò il sangue
nelle vene.
- Arrendetevi! Arrendetevi!
«Con la voce si faceva sentire
una spada sguainata che percoteva il muro.
- Arrendetevi!
«Era un capitano che discendeva,
accompagnato da parecchi soldati che avevano il fucile con la baionetta
inastata.
- Arrendetevi!
«Mi feci coraggio e risposi:
- Cosa vuole che «rendiamo» ,,
signor capitano? Semm tutt poveritt.
«Il capitano mi prese per un braccio
e mi trascinò su per la scala, buttandomi in mezzo agli altri già stati
radunati sotto il portico in mezzo a un nugolo di soldati.
«Intanto soldati e superiori
frugavano il convento dal soffitto alla base. Snidavano quelli che erano
riusciti a trovare un nascondiglio e cercavano le armi. Noi eravamo stati
palpeggiati fino ai capelli, e per fortuna nessuno di noi aveva in saccoccia un
coltello.
«A intervalli di minuti, alcuni
soldati venivano con qualche frate o qualche pidocchioso che avevano scovato in
una parte recondita dell’edificio.
«Una volta che fummo tutti sotto
il portico, ci si ordinò di andare in Chiesa. I frati laici erano dietro i
padri. Noi eravamo in coda a tutti.
«Colui che aveva dato il comando
era un ufficiale più che energico. La sua voce faceva accapponare la pelle e le
sue parole passavano nelle orecchie come potenti schiaffi.
«Entrando in chiesa, sentii uno
sparo di fucile. Mi pare che venisse dalla stanza attigua al coro. Lo hanno
udito anche quelli vicino a me. Ma, come ho detto, nessuno di noi aveva la
testa a segno. Eravamo terrorizzati e potevamo benissimo scambiare una fucilata
per una cannonata.
«Entrammo in coro come gente che
va al patibolo. Chi piangeva dirottamente, chi singhiozzava in un modo da
rompere il cuore, chi raccomandava l’anima a Dio e chi mormorava preci con le
mani giunte o coi polsi incrociati e le mani piatte sul petto. Le donne
tenevano fra le braccia i bimbi come una preghiera.
«I soldati erano sfilati dinanzi
a questo esercito di piangenti col fucile a baionetta in canna puntato verso il
loro petto. Ciascuno di noi aveva paura che un grido, un gesto facesse
prorompere tutte quelle bocche di fuoco in una volta sola. Io sono un povero
infelice senza colori sulla tavolozza. Ma forse anche coloro che l’hanno più
ricca della mia riusciranno difficilmente a tradurre in poche parole lo stato
dell’animo nostro in quei minuti di trepidazione angosciosa.
«Pare che nella mente
dell’ufficiale fosse l’idea di farci fucilare in massa. Ci credeva rivoltosi,
finti mendicanti, falsi frati tutti truccati per la rivoluzione. Parecchi della
comitiva erano sulle ginocchia e pregavano con la sollecitudine della gente che
non ha tempo da perdere o si sente la morte alla schiena. Alle madri si
riempivano gli occhi. C’era una donna che aveva due piccini attaccati alle
vesti, che piangevano, e un altro al seno che strillava. E c’era pure un padre
che aveva tre figli. Era un uomo che si era ammalato ed era caduto nell’ultima
miseria.
«L’ansia era stata protratta fino
allo svenimento. Alcuni dinanzi le baionette cominciarono a sentirsi male.
- Fermi! Fermi!
«Fu il nostro salvatore. Era un
tenente... sul grado posso anche sbagliarmi. Era un tenente di fanteria che
entrava col revolver in mano.
- Capitano! Che cosa fa! non vede
che sono tutti poveri?
«La voce del tenente rianimò
tutti, e tutti si misero a dire m coro:
- Grazia, grazia, scior
tenente, che alcuni chiamavan maggiore! Dio lo benedica! Dio gliene renda merito! Che Dio el ghe daga del
ben!
«E, se avessimo potuto, ci
saremmo prostrati ai suoi piedi e gli avremmo baciate le scarpe.
«Senza di lui saremmo tutti
morti. Cinque minuti più tardi e il coro sarebbe stato uno stanzone di
cadaveri. Nelle mie preghiere non dimenticherò mai il mio salvatore.
«Circondati dai soldati uscimmo
tutti e ci avviammo alla prefettura di via Monforte, pallidi e invecchiati di
dieci anni».
«Scusi, mi son dimenticato di
dirle che a mezzogiorno in punto ho aperto il cancello del cortile del convento
a tre negozianti che mi scongiuravano.
- Oh signor, ch’el ne salva
che fan i sciupettad!
«Apersi loro e vennero arrestati
con tutti gli altri. L’arresto è stato per loro un fastidio. Ma senza di me a
quest’ora sarebbero al cimitero di Musocco» ..
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