Io ero dinanzi
la cinta del viale Monforte, e dicevo, tra me e me, che era proprio un peccato
che scomparisse una muraglia storica. Se fossi ricco, mi andavo ripetendo, la
comprerei e la regalerei a un museo che avesse per compito di conservare i
monumenti che rappresentano una pagina della vita pubblica.
Con queste idee, mi trovai alla
postierla del convento, col cordone del campanello in mano, determinato a
lamentarmi col padre Isaia, un sacerdote cappuccino che avevo intervistato più
di una volta.
Il frate portinaio non è più
quello. Egli è stato cambiato subito dopo le giornate di maggio, perché il
povero Daniele è ancora ammalato di paura. Mentre si facevano le fucilate, il
poveraccio era nella stanza contigua all’entrata a scodellare la minestra ai
poveri, come tutti gli altri giorni.
Quello d’oggi non è così alto, ma
non è meno gentile dell’altro. Tutte le volte che mi vede sorride, e va
difilato ad annunciarmi a qualche padre.
- Ho bisogno di parlare col padre
Isaia.
- Vado di sopra a vedere, ma
credo che sia in coro.
Il padre discese con un giornale
religioso in mano che si era occupato di un mio articolo: era l’Unità
Cattolica.
- Perché non me li mandate mai
questi vostri articoli? mi disse egli, tendendomi le due mani, col trasporto
d’un’amicizia sentita.
Lo fotografo con due colpi di
lapis, mentre diamo una capatina in coro.
È tutt’assieme una figura
simpatica e vigorosa. La sua faccia, larga e massiccia, è spruzzata dalla
lucentezza degli occhioni, che traducono la bonarietà e la salute. Sull’altura
della callotta che pare appesa alla nuca, è accoccolato un ciuffetto di capelli
abbaruffati, il quale documenta che è ancora in lui la fierezza del cittadino.
Le sue orecchie alte, coi padiglioni larghi e ammantati di rosso come i lobi,
rivelano l’uomo che si tuffa con piacere nell’acqua lustrale. La sua barba
fluente è una ditta fratesca. È una distesa di peli morbidi filettata di
qualche capello che ingrigia ai margini delle due punte.
Usciti dal coro girammo per il
porticato e infilammo la scala che conduce alla sua cella.
- È vero, padre, che avete
venduto il terreno sul quale è la muraglia con la breccia tappata?
- È vero che abbiamo venduto del
terreno per fabbricare un altro convento fuori di Porta Magenta, alla Maddalena
Grande. Ma quasi tutta la facciata lungo il viale è rimasta nostra. La breccia
rimane tale e quale. Una chiazza bianca coperta del lastrone di metallo per gli
avvisi sacri.
La breccia era rasente il
pilastro destro della cancellata.
Giungendo al piano superiore,
incontrammo tre frati, i quali si prostrano ai piedi del padre Isaia con un
abbandono supplichevole, curvando la testa fin quasi a terra e non alzandosi
che dopo avergli baciato la mano con effusione.
Capii ch’egli era il padre
vicario. La cella di ogni padre ha un motto stampato su una striscia di cartone
inchiodata all’uscio.
Quello del padre vicario è
questo: Si omni anno unum vitium extirparemus, cis viri perfecti efficiemur:
se ogni anno estirperemo un vizio, diventeremo, quaggiù, uomini perfetti.
La cella numero 3 del padre Isaia
- come quella di tutti gli altri inquilini del convento - non ha spazio che per
una persona. Si entra uno dietro l’altro. La finestra che dà sull’ortaglia è in
faccia all’uscio. A sinistra, è un lettuccio di acero con un semplice
pagliericcio poco soffice, nascosto sotto una coperta di lana colorata. Ai
piedi del letto, è un inginocchiatoio, con lo schienale sormontato da un’asse
lucida e giallognola come il resto che serve da leggio o da tavolo di lavoro. A
destra è un piccolo scaffale, pieno di libri religiosi, agganciato alla parete.
Intanto che il padre Isaia
sfogliava il libro che gli avevano portato, io pensavo alle due baionettate che
aveva ricevuto senza punto accorgersene. Non era uno smemorato, non aveva
perduto la conoscenza né prima né dopo l’avvenimento; era rimasto calmo anche
quando era stato adagiato nel letto dell’Ospedale Maggiore, e tuttavia non
sapeva spiegarsi come le baionette gli fossero entrate nelle carni e lo
avessero inondato di sangue.
- Proprio, padre vicario, non
avete sentito né dolore, né il freddo dell’acciaio che penetrava nel corpo?
- Non ho sentito nulla, proprio
nulla. Mi sono sentito spossato solo vicino alla breccia. Là, dinanzi al muro
squarciato, incominciai a respirare affannosamente. Pareva che avessi sullo
stomaco una specie di oppressione. Non appena mi trovai sotto l’atrio del
palazzo prefettizio, domandai da bere, perché mi sentivo la gola che bruciava,
e una sedia perché non potevo stare più in piedi. Dovevo essere pallido come un
morto perché parecchi mi domandavano se mi sentivo male. Io rispondevo che mi
pareva d’essere invaso da un languore che mi faceva desiderare un giaciglio. Mi
si condusse all’Ospedale ove mi si domandò che cosa avevo. Risposi che potevo
essere un po’ agitato e li pregavo con insistenza perché mi salassassero subito
o mi mettessero le sanguisughe. Nella sala dell’ambulanza medica mi si rifece
la domanda di prima.
- Che cosa si sente?
- Nulla. Sono un po’ fiacco, un
po’ spossato. Pare che mi manchi il fiato.
- Non è ferito?
- Nossignore.
- Eppure dove c’è sangue c’è
ferita. Non vede che perde sangue?
- Avevo i sandali inaffiati di
sangue.
- Provi a levarsi la tonaca.
- Non ero più che un’immensa
macchia rossa. Il panno della sottoveste, movendosi, si era inzuppato e mi
aveva insudiciato tutta la pelle. Mi si voleva mandare all’ambulanza
chirurgica, ma per la gentilezza del carissimo dottor Conti mi adagiarono
nell’infermeria ove si constatò che ero stato bucato da due colpi di baionetta.
Uno mi era stato dato a sinistra, in direzione del polmone, e un altro lungo la
stessa parte dell’inguine. Mi medicarono e vi rimasi più di dieci giorni.
- Che cosa avevate fatto per
trattarvi a colpi di baionetta?
Il cappuccino rimase pensoso.
Pareva che non avesse voglia di rimestare il passato. L’esitazione non durò che
pochi secondi.
Egli si convinse che non poteva
tacere..
La storia è storia, e nessuno ha diritto di sopprimerla.
- Io parlo pro veritate. Quando
entrarono i soldati mi trovavo nella stanzettina vicino alla postierla
d’entrata a lavare la ferita alla gamba di un pitocco, che non aveva potuto
finire di mangiare la minestra. Gliela fasciai in fretta e in furia per
impedire l’emorragia e poi uscii con la bottiglia dell’aceto in mano.
L’invasione militare dopo le cannonate non mi poteva sorprendere. Deposi la
bottiglia sul murello dei vani tra le colonne del portico, voltai a destra e
tentai di raggiungere la testa dei soldati - che andavano in su,.
all’impazzata, coi fucili e le baionette in canna puntati verso il petto dei
poveri diavoli ch’essi credevano rivoltosi - per assicurare l’ufficiale che li
comandava che in convento non c’era anima viva, tranne i frati e i poveri
venuti a mangiare la minestra. I soldati era eccitati. Schiamazzavano e
dicevano parole ingiuriose.
- Per esempio?
- Non posso ripeterle.
- Ripetetele, padre, in nome
della storia!
Non ci fu verso di fargliele
ripetere.
- Per istornare qualche terribile
eccidio, pensai di parlare al primo ufficiale che mi fosse capitato, vedendo
che i soldati correvano con gli occhi smarriti, terrorizzati.
- Ritornai verso la stanzuccia,
dove avevo lasciato il ferito, e mi imbattei appunto in un ufficiale che stava
in coda ai soldati, e mostrandogli la caldaia della minestra lo pregai che non
facesse alcun male a quei poverelli che erano venuti per sfamarsi. Se mi
ricordo bene, era un tenente. Mi guardò in faccia come per scovare il ribelle e
poi, con un «frataccio cane!» mi agguantò per il collo della tonaca e mi piantò
la canna del suo revolver al ventre. Forse sarà stata la mia impressione. Mi pareva
che il suo dito cercasse il grilletto. Col coraggio della gente che difende la
propria esistenza, gli contorsi la mano e lo costrinsi a mettere la canna nel
vuoto. Egli si mise a scuotermi senza mai abbandonare il colletto della veste e
con dei continui tentativi di rimettermi l’arma nella posizione di potermi
uccidere. Si trattava della mia vita e io gliela contesi con tutte le mie
forze.
- Permettetemi, padre, di
stringervi la mano.
Io avevo bisogno di una pausa per
sottrarmi alle sensazioni dolorose.
- Il tenente insisteva ed io non
abbandonavo mai la canna.
- Mi bruttava di villanie e io
gli rispondevo che si sbagliava e che non ero un «frataccio cane». Per il collo
della tonaca egli mi trascinava sempre verso l’uscita. Io pensavo in quel
momento che egli volesse condurmi nel cortile e farmi fucilare dai soldati.
- Signor ufficiale, gli dissi,
non mi faccia questa figura. Se vuole uccidermi mi uccida qui subito, senza
condurmi di fuori. Sarebbe uno strazio inutile. Se devo morire, è meglio che
muoia nella casa dei miei fratelli.
- Io pregavo, e l’ufficiale,
invece di darmi retta, mi scoteva e mi trascinava a colpi per il cortile. Mi
credevo perduto.
- Il suo pensiero doveva essere quello di farmi
ammazzare dai soldati. Senza mai abbandonare la canna del revolver, cercavo di
proteggere il mio col suo corpo. E lui, l’ufficiale, impiegava tutti i suoi
sforzi per mettermi alla mercè dei fucili.
- Giunti al fianco della breccia,
egli fu lì lì per finirmi.
- Io gli dissi che infine non ero
che un povero frate stato colto a medicare un ferito.
- Creda, signor tenente, che nel
convento non ci furono mai nè insorti, nè armi da fuoco.
- Passò nella sua mente un
dubbio? Non ve lo saprei dire. La verità è che le sue parole mi rivelarono ch’egli
mi stava proprio mandando all’altro mondo.
- Con disprezzo, come quando si
abbandona un nemico indegno perfino dell’ultimo supplizio, mi disse:
- Per questa volta ti perdono!
- Con una fiatata che riassumeva il sacrificio che
compiva, mi buttò per il buco della breccia, chiamando i soldati. Stramazzai
bocconi, colle mani che mi salvarono la faccia. Alzandomi vidi che il mio piede
era insanguinato. Non mi allarmai, perché supponevo il sangue uscito dalla
scorticatura che mi feci cadendo.
- Fuori della breccia è stato uno
spavento. Ogni soldato aveva una sudiceria da buttarmi in faccia: e quello che
mi fece più pena, fu di veder un maggiore, credo, d’artiglieria, alto, magro,
ruvido, che portava appesa all’occhiello una lente (caramella), il
quale, incontrandomi sul piazzale Monforte, alla preghiera di rimandarmi libero
perché ero innocente, con burbero cipiglio mi minacciò con la mano in aria un
manrovescio, e... Il mio contegno di frate che non aveva paura di morire non
aveva presa su di loro.
- Figlio si di p…!.
- Consegnatelo - disse ad alta
voce il superiore ai soldati al di là della breccia - agli alpini.
- Venni preso brutalmente per le
braccia da due soldati, che mi incalzavano con le parole più svergognate del
postribolo. Il terzo, il caporale, mi diceva:
- Avanti, frataccio! - e mi
teneva la punta della baionetta alle reni.
- Mi pareva di perdere il cingolo
e tentai con le mani di tirarmelo in alto, avendo già perduti i grani della
corona fratesca.
- Sta fermo - mi disse uno dei
soldati - o ti brucio le cervella!
- Da viale Monforte alla via
Vivaio, mi copersero di tutto ciò che potete immaginare di sconcio e di osceno.
- Sull’angolo della via Vivaio
erano altri soldati e un capitano. Mi duole di non sapere il nome del
superiore. Fu il primo gentiluomo che incontrai dopo la mia sciagura.
- Badi, signor capitano, che è un
rivoltoso.
- Non importa, non occupatevene.
È nelle mie mani. Alpini, conducetelo alla prefettura.
- Anche gli alpini mi trattarono
con tutti i riguardi. Invece di trascinarmi per le braccia, mi lasciarono
libero e ingiunsero ai soldati di prima di lasciarmi stare, perché ero sotto la
loro responsabilità.
- Il prefetto Winspeare, non
appena mi vide entrare, mi venne incontro dicendo:
- Come, mi arrestate anche i
frati?
- I soldati del viale Monforte
gli dissero che ero un rivoltoso stato colto col fucile in mano.
- Dov’è questo fucile? domandò il
prefetto.
- Non sappiamo, perché questo
individuo ci venne consegnato dal tenente.
- Mentre io stavo dando la
spiegazione al signor prefetto della nostra innocenza e che dal convento non
poteva essere partito alcun colpo di fuoco per la semplice ragione che non vi
erano né armi né armati, eccomi ancora davanti quell’ufficiale d’artiglieria,
col medesimo atto del manrovescio, gridando che aveva veduto partire il
colpo dal Convento lui stesso!...
- Non ci sono stati altri frati,
padre vicario, all’Ospedale?
- C’è stato frate Alessandrino,
il vecchietto che le ho fatto vedere dabbasso.
La nocca di qualcuno ci
interruppe.
- Ave - rispose padre Isaia.
Entrò un frate laico a portargli
un piego suggellato.
Mi voltai dalla parte della finestra a schizzare il
frate laico Alessandrino, col quale avevo parlato più di una volta.
È un ometto di settanta e più anni,
mingherlino, ha la faccia lentamente consumata dai digiuni, con gli occhi
celesti nelle occhiaie vizze, con una punta di barba grigiastra al mento e dei
peli dello stesso colore disseminati per il labbro superiore. È ammalato da un
pezzo, passa il tempo tra un’orazione e l’altra, pregando il signore di
volergli bene.
Il giornalista lo spaventa più
del diavolo. Mi vedeva e scappava. Un giorno che mi aveva sorpreso col lapis e
il note book in mano, corse ad inginocchiarsi all’altare in coro e
ritornò una ventina di minuti dopo a pregarmi di non fargli del male, di
lasciarlo stare, perché lui aveva bisogno, per la sua salute, di una grande
quiete, e a scongiurarmi in nome del Signore Iddio, di non metterlo sul
giornale, perché lui, dopo tutto, non sapeva nulla, non aveva fatto nulla e non
voleva dir nulla. Era un uomo che aveva paura, che si spaventava per delle
inezie e che godeva la pace del coro, quando era vuoto. I soldati lo facevano
rabbrividire solo a pensarci. Non appena li seppe nel convento, scomparve
dietro il coro, passò in chiesa e passò sul pulpito, rimanendovi appiattito
sotto la croce, senza quasi respirare, per timore di farsi sentire. Se lo
avessero lasciato sarebbe rimasto là a costo di morire in ginocchio. Invece i
soldati e un ufficiale lo hanno scoperto e trascinato giù per la tonaca. Il
terrore era così immenso in lui che tremava tutto e dal Convento alla
Prefettura venne portato a braccia da due giovani frati. Il prefetto, quando vi
giunse cogli altri, lo mandò subito all’ospedale.
Padre Isaia aveva finito di
leggere e io di scrivere.
- Lo hanno trattato bene, padre,
all’ospedale?
- Con tutti i riguardi.. Le
monache della sala di San Lazzaro erano di una gentilezza materna; le
infermiere e gli infermieri nonostante il grande lavoro, mi usavano speciali
riguardi e non so trovar parole di gratitudine e di ringraziamento per i bravi
signori medici e chirurghi che con tanta pazienza e delicatezza mi assistettero
nei dieci giorni che vi dimorai. Sissignore, c’era ordine di non lasciarci parlare
con alcuno senza speciale permesso.
- Dunque sono rimasti tutto il
tempo senza una visita?
- Sono venute a trovarci parecchie persone, come il
Prevosto di Sant’Alessandro, di S. Stefano, Monsignor Montegagra, il Cardinale,
Monsignor Nasoni e Magistretti, il Conte Greppi, il nobile Corti, D. Battista,
le contesse Sormani e Sola, il marchese Cornaggia eccetera eccetera eccetera
che or tutti non ricordo... il deputato Piola, per esempio.
- Non è mai stato interrogato?
- Sissignore, sono stato
interrogato da un capitano, il quale fu gentilissimo. Fu lui anzi a dirmi che
almeno una baionettata dovevo averla presa in convento...
- C’era anche il tenente che lo
aveva trascinato e buttato attraverso il buco della breccia?
- C’era, e mi sembrava alquanto
mortificato...
Si bussò un’altra volta
all’uscio.
-
Ave.
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