DELL’ «ITALIA DEL
POPOLO»
NARRATO DA UN TESTIMONE
A me pare
una scena che inchiuda Bava Beccaris. Una di quelle scene che sì svolgono con una
rapidità straordinaria, e lasciano dovunque tracce di un momento che passa alla
storia. Rifacendola per il tuo libro, il mio pensiero si commuove e si
contrista come dinanzi una sventura. Gli è come rivivere l’ora tragica, in cui
la stampa si lasciava strangolare senza neppure il grido della resistenza
legale. Ma non perdiamoci in considerazioni. Tu non ne vuoi. Voialtri del
giornalismo moderno non volete che il fatto nudo e crudo. Io crepo a digerire i
fatti nella prosa arida. Ma sia fatta la volontà di quelli che sentono
l’avvenire del quotidiano diverso dal mio.
La giornata era il 7 maggio 1898
- una giornata piena di sole. I fatti di Ponte Seveso e di via Napo Torriani
avevano fatto scrivere al direttore dell’Italia del Popolo l’ormai
famoso trafiletto intitolato: «Ne erano assetati». Lo salto senza commenti,
perché tu non hai bisogno di essere sequestrato. Tu non godi i privilegi del Corriere
della Sera, neppure in tempi ordinari. Il Corriere della Sera, il
quale nei giorni di Bava Beccaris è stato fratricida, ha potuto, senza molestia
di sorta, darlo e ridarlo, tale e quale, ai suoi lettori, in tre edizioni
consecutive. Il proposito del giornale di via Soncino Merati non può essere
sfuggito ad alcuno. Lo pubblicava e ripubblicava con l’intenzione assassina
d’infuriare la mano militare contro i redattori del giornale di S. Pietro
all’Orto. Questa è storia.
Potevano essere le quattro e
mezzo. Mi sentivo spossato dalla fame e dal lavoro e la testa confusa dagli
avvenimenti. In redazione c’era stato l’andirivieni della commozione cittadina.
Sembrava una sala d’aspetto. La gente era andata e venuta sbalordita,
concitata, terrorizzata. Gli sconosciuti entravano, raccontavano con la parola
spaventata dal loro spavento o esaltata dalla loro esaltazione e scomparivano,
senza magari lasciarsi mai più vedere. Erano i reporters spontanei delle
giornate tumultuose.
I locali dell’Italia del
Popolo li conosci. Si entrava dal portone della casa di via S. Pietro
all’Orto, si saliva al primo piano, si passava dallo stanzone amministrativo,
si voltava a sinistra, si entrava nella sala di redazione, e si vedeva il
direttore spingendo l’uscio in fondo alla parete di fronte.
Il reportage spontaneo era
cessato. Nella direzione si trovavano Chiesi e Federici - in redazione Ulisse
Cermenati e l’avvocato Valentini, il quale, come sai, scriveva, in quei giorni,
degli articoli finanziarii. Il Seneci era dabbasso in tipografia che lasciava
andare a casa gli operai, raccomandando loro di ritornare per l’edizione di
notte. Di fuori, dinanzi il locale di distribuzione, la folla degli strilloni
aspettava con impazienza l’ultima edizione della giornata. Ne avevano vendute
delle bracciate nella mattina e nel pomeriggio, e s’impromettevano di
spacciarne assai più nella sera. Il pubblico era ansioso di sapere che cosa
avveniva, ma la cronaca di qualunque giornale non gli portava che fatti slegati
e non gli diceva come avevano avuto principio, se erano inanellati e perché
continuavano.
La via di S. Pietro all’Orto
venne occupata militarmente. Non pensavamo neanche che si trattasse di noi. Io
poi, che avevo dovuto essere da una parte e dall’altra e mi ero convinto che
Milano stava per diventare una rete di cordoni militari, tirai via a
chiacchierare sui tumulti spaventosi senza badare a ciò che avveniva nella
strada. I fatti ci assorbivano. Come si erano compiuti? Chi li aveva provocati?
C’era stato scambio di fucilate? Chi sarà stato il primo a far fuoco?
Annegavamo nelle supposizioni senza venire in chiaro di nulla. Il tavolo del
cronista rigurgitava di note sanguinose, ma nessuna ci dava la chiave della
giornata. La nostra conversazione venne interrotta da una moltitudine di piedi
che sentivamo venire alla nostra volta. Erano il viceispettore Prina, il
delegato Gislon e parecchi agenti in borghese che invadevano gli uffici dell’Italia
del Popolo.
Le prime parole che ci dissero
furono che il giornale era sequestrato. Una notizia che ci lasciò tranquilli.
Non era la prima volta che ci si capitava addosso coi sequestri. Ma il Prina
non ci permise di tirare il fiato liberamente, senza aggiungere che era dolente
di comunicarci «la cessazione del giornale fino a nuovo ordine». Il direttore
rimase senza sorpresa. Passammo in stamperia. Assistevano alla scomposizione
del giornale Chiesi, Federici, Cermenati e Seneci. Prima di risalire negli
uffici il Prina diede ordine di non permettere l’uscita ad alcuno.
In redazione ci disse:
- Ci rincresce, ma siamo
incaricati di fare una perquisizione. - Nessuno di noi rispose. Tanto e tanto
il nostro consenso o la nostra protesta non avrebbe contato per nulla. Si
misero a perquisire. Guardavano nei cassetti del direttore e dei redattori,
leggevano o scorrevano affrettatamente i manoscritti, raccoglievano le cartelle
scritte o incominciate per i tavoli e frugavano e adocchiavano dappertutto.
Intanto che avveniva questa operazione, Federici si era affacciato alla
finestra, proprio nel momento in cui De Andreis riusciva, nella sua qualità di
deputato, a passare il cordone militare. Si protese e gli disse:
- Hanno sequestrato il giornale e
stanno facendo una perquisizione. Vieni di sopra.
Due minuti dopo era anche lui in
redazione. Terminata la perquisizione, il Federici chiese, come di legge, che
si facesse il verbale delle cose sequestrate. Uno dei funzionarii rispose:
- Lo faremo in questura, dove
abbiamo l’incarico di accompagnarli. Loro signori sono invitati dal questore
per delle comunicazioni.
Carmenati: Allora vuol
dire che siamo tutti in arresto.
Gislon: Non abbiamo
quest’ordine, non credo ci sia probabilità d’arresto.
De Andreis: Come deputato
protesto per la perquisizione e per la violazione di domicilio, senza mandato
dell’autorità giudiziaria.
Suggellati i pacchi dei
manoscritti sequestrati, il Prina invitò Chiesi, Federici, Cermenati,
l’avvocato Valentini e Seneci ad andare con loro a S. Fedele.
Seneci, in pantofole, domandò il
permesso di mettersi le scarpe.
- Faccia.
De Andreis: Vengo anch’io.
Prina: Scusi, onorevole,
ma io non ho ordini che riguardino lei.
De Andreis: Io voglio
andare dove vanno i miei amici.
Prina: Se crede,
s’accomodi.
Cermenati: Se non siamo in
arresto, noi non vogliamo essere accompagnati dagli agenti di P.S.
Il delegato Gislon li fece
allontanare.
In via Soncino Merati, dinanzi
l’entrata del Corriere della Sera, incontrammo Colautti. Il Chiesi,
incrociando i polsi, gli fece segno che eravamo in arresto.
- Ci siamo!
Colautti rispose, con un gesto,
che non poteva essere.
In S. Paolo, Seneci entrò dal
tabaccaio a bere una bibita. Era stato in tipografia e nel locale di
distribuzione tutto il giorno, e aveva sete. I funzionari non lo aspettarono
neanche. Ci raggiunse correndo. Questo fatto ci lasciò credere che non eravamo
in arresto. Che si tratti solo di dirci che la stampa subirà la censura
preventiva da qualche impiegato di questura?
In questura ci si lasciò in
un’anticamera.
- Aspettino; saranno ricevuti dal
questore non appena sarà libero.
Aspettammo una buona mezz’ora,
facendo mille supposizioni. Annoiati di essere trattenuti tanto tempo,
incominciammo a mormorare. Ma dunque? Ci prendono per dei domestici, questi
signori di questura! Facciano presto, ci dicano se siamo in arresto, se siamo
liberi, e che cosa vogliono da noi. Entrò un impiegato ad invitarci di andare
con lui.
- Tutti, meno l’onorevole De
Andreis.
De Andreis non voleva saperne di aria libera. Si
mise a protestare con parole vibrate e a dichiarare ch’egli sarebbe andato dove
andavano i suoi amici. E tutti noi, compreso l’on. De Andreis, passammo in
un’altra stanza, dove ci si trattenne un’altra buona mezz’ora.
Aspettavamo e parlavamo
sottovoce. Perché in questa seconda anticamera eravamo tenuti d’occhio da un
agente in borghese, seduto in mezzo a noi come un muto. Conversando, si
almanaccava sul tempo che ci avrebbero fatto perdere. Federici manifestava la
sua opinione che anche De Andreis sarebbe stato trattenuto.
Qualche altro pregava
quest’ultimo a prendere l’uscio intanto che era libero.
- Libero ci potrai essere più
utile che non chiuso in carcere con noi.
Fu testardo e rimase.
Alle sei e mezzo circa entrò un
vecchio impiegato a dirci queste parole:
- Sono spiacente di comunicar
loro che, essendo stato proclamato in questo momento lo stato d’assedio, loro
signori sono tutti in arresto.
Ci fu un’irruzione di guardie in
borghese le quali, senza tanti complimenti, ci presero per la manica.
Protestammo e dicemmo che non era il modo di trattare persone che non volevano
fuggire, e i delegati ordinarono agli agenti di lasciarci andare. Discendemmo
ed entrammo nell’ufficio del delegato Eula, il quale, per essere sinceri, ci
trattò con la massima gentilezza. Ci sequestrò carte e matite che avevamo nelle
tasche. ci lasciò denari, orologi e anelli e ci fece firmare il verbale,
porgendo ad ognuno la penna.
- Già che ci deve mandare in
guardina, ci potrà mandare anche da mangiare.
- Senza dubbio.
E il delegato promise che ci
avrebbe fatto portare qualcosa dall’Orologio.
- Devono avere un po’ di
pazienza, perché in questo momento ho molte cose da fare.
Ci si chiuse nel camerotto riservato
alle donne, il quale, secondo l’espressione dell’Eula, era «il meno peggio».
Avevamo fame ma non aspettammo molto. Tre quarti d’ora dopo si spalancava
l’uscio ed entravano roast-beef, un fiasco di vino, del formaggio, della
frutta e delle sigarette.
Mangiando si chiacchierava e si
rideva.
De Andreis era di opinione che
avrebbero montata qualche macchina per tenerci in prigione.
Federici fumava disperatamente
una sigaretta dopo l’altra per cambiare l’odore dell’ambiente.
Chiesi si contentò di dire che
avrebbe pagato il conto.
Un po’ più tardi Seneci ci faceva
sapere che non aveva mai dormito così bene.
- Vi raccomando di ravvolgervi la
testa nel fazzoletto, se non volete che certe bestioline vi vadano nelle
orecchie.
Cermenati si allungò sul tavolato
con una frase tragica:
- Così giovane e già tanto
galeotto!
Qualche minuto dopo, ricordandosi
d’essere stato dilettante drammatico, si drizzò in piedi e si mise a declamare
un po’ d’Amleto:
Potesse, oh! questa troppo salda
carne
Che mi veste, scomporsi, andar
diffusa,
Sfarsi come rugiada!
Il carceriere, lungo il
corridoio, ci impose il silenzio.
- Signori, faccian silenzio!
Ci addormentammo.
Tra le dodici e mezzo e la una
venimmo svegliati dal fracasso che si fece a schiudere l’uscio. Entrarono, tra
la sorpresa generale, l’avvocato Carlo Romussi e il professore Emilio Girardi,
accompagnati dalla guardia carceraria che portava la lanterna fumosa.
Romussi: Ho ottenuto il
permesso di venirvi a trovare coll’amico Girardi. E giacché ci siamo, vogliamo
tenervi compagnia fino a domattina.
Girardi andò sul tavolato con un:
dio cane!
Seneci fece loro la
raccomandazione del fazzoletto. Romussi ci raccontò che gli agenti erano andati
al Secolo a perquisire la redazione, a far scomporre il giornale e ad
arrestare tutti i redattori che vi si trovavano. Non vi hanno trovato che il
direttore ed un redattore. Negli uffici vi erano parecchie persone, come
l’Antongini e il Missori. Ma nessuno di loro venne arrestato. L’episodio
storico dell’arresto del direttore del Secolo fu quello della sedia.
Romussi era al suo tavolo che
scriveva non so più che cosa sulle ultime notizie. Il delegato, col codazzo dei
questurini in borghese, gli annunciò la perquisizione e credo anche la
sospensione del giornale. Romussi disse qualche parola sulla libertà di stampa
e lasciò che l’uomo di questura andasse a mettere sottosopra il suo cassetto e
a rovistare le carte del tavolo unito a quello di lavoro. Per la maledetta
abitudine di Romussi di accumulare i manoscritti, gli sequestrarono un numero
infinito di carte e di lettere, non poche delle quali dovevano essere di
Cavallotti. Suggellati i pacchi e fatto il verbale di sequestro, Romussi e
Girardi vennero invitati in questura. Romussi, prima d’andarsene, voleva
scrivere due righe non so se alla moglie o ai colleghi. Prima di sedere buttò
via la penna con la quale aveva scritto il delegato, diede un calcio alla
sedia, sulla quale era stato seduto e ordinò al portiere di portarla via subito
e di bruciarla.
- Portamene un’altra e dammi
un’altra penna.
Alla mattina ci svegliammo con le
ossa rotte. Avevamo sulla faccia il colore di una notte trambasciata. Ci
eravamo coricati sul tavolazzo, vestiti come eravamo entrati, e lungo la notte
il sonno ci era stato interrotto centinaia di volte. Dal fracasso degli usci
che si aprivano e si chiudevano, dal trambusto, nel cortile, dei soldati che
pareva arrivassero ogni quarto d’ora, dai piedi che tumultuavano sotto il
portico e dalle voci che giungevano a noi come di gente ammutinata.
Verso le dieci antimeridiane
il delegato Eula ci annunciò che era giunto l’ordine della traduzione al
cellulare. Venimmo chiamati a due a due, e a due a due venimmo legati, polso a
polso, con una catenella, da un maresciallo dei carabinieri alto e
spalluto. Eravamo così appaiati: Valentini e Chiesi, Seneci e Federici,
Cermenati e Romussi, De Andreis e Girardi. Uscimmo ed entrammo in una
folla di circa ottanta arrestati.
Il balcone del palazzo di questura era gremito di
altri monturati con alcuni borghesi. Non posso dire se vi era Bava Beccaris,
perché non lo avevo mai visto neppure sulla fotografia. C’era certamente il
questore. Un uomo magrettino c’ha ha l’aria di essere gobbo. I grandi gallonati
parlavano tra loro e gli uni ci additavano agli altri col dito puntato verso
noi.
Prima che il convoglio si
mettesse in moto, il delegato Birondi disse a tutti:
- Non salutino alcuno e non parlino, perché ho
ordini severissimi.
Eravamo tutti a piedi, circondati dai carabinieri e
dai soldati di cavalleria col revolver in pugno. Qua e là c’erano parecchi
questurini.
C’incamminammo verso le undici. L’itinerario fu
questo: piazza S. Fedele, piazza della Scala, Santa Margherita, via Mercanti,
via Dante, foro Bonaparte, S. Gerolamo, S. Vittore, via Filangieri.
Gustavo Chiesi abita in foro Bonaparte 93. I suoi
vecchi genitori erano alla finestra che si asciugavano le lagrime col
fazzoletto. Nessun altro incidente.
Sai come si è ricevuti al Cellulare.
De Andreis, il quale si sentiva
male per il lungo digiuno, domandò subito da mangiare. Gli altri lo imitarono.
Impolverati, sudati, passati traverso un’ora piena di pericoli, avevamo una
sete da cani trafelati. L’Astengo, il direttore, ci fece portare dell’acqua con
del fernet dal bettoliniere.
Ci si separò in tante celle e ci
si riunì in un cellone a mangiare. Mangiammo del salame, della pasta al sugo,
dell’arrosto e del formaggio e bevemmo del vino comune. Eravamo serviti da due
scopini e sorvegliati da due guardie carcerarie. Terminato il pasto, venimmo
visitati dal cappellano, accompagnato dal direttore. Subito dopo Federici,
Cermenati, Seneci, Valentini e De Andreis vennero cellularizzati in infermeria.
Romussi e Chiesi vennero chiusi in celle separate al secondo raggio.
Il secondo giorno vedemmo
arrivare in infermeria i deputati Turati e Bissolati.
Il resto ti è troppo noto perché
io sciupi dell’inchiostro.
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