È una scena piangevole che potete
vedere ogni mercoledì e ogni domenica, tra le dieci e la una, sulla piazzetta
Filangeri, dinanzi l’edificio della sventura sociale. Ma in un giorno o
nell’altro non troverete mai la folla delle giornate di Bava Beccaris, quando
ciascun cittadino aveva paura di non essere più cittadino e ogni donna poteva
essere disgiunta dall’uomo da un ordine imperativo o da una mano brutale.
La mia pagina è una fotografia
senza ritocchi di una di queste domeniche.
L’orologio di un campanile
suonava le otto e il sole bruciava le cervella. Sul piazzale si vedevano alcune
carriole cariche di frutta acerbe o sfatte, di dolci perseguitati dalle mosche
e di cose mangerecce coperte di polvere. Il portone traduceva un corpo di
guardia improvvisato in una città insorta, Un portone coll’andirivieni della
gente che fa paura. C’erano soldati in piedi, soldati che riposavano sulla
paglia sternita nei fianchi, soldati che entravano e uscivano, soldati che si
asciugavano la fronte e si aggiustavano la giberna sul ventre. Si vedevano
andare e venire secondini, guardie di finanza, delegati, questurini,
carabinieri, ufficiali, autorità carcerarie, autorità militari - tutte persone
che ricordavano il momento, persone dalla faccia feroce, persone che passavano
come ventate di collera, persone pronte a venire alle mani col primo che avesse
detto una corbelleria.
L’ufficiale di guardia pareva,
col pensiero, a spasso. Con la ciarpa azzurra a tracolla, seduto sulla sedia
addossata al pilastro con una gamba sopra l’altra, si ninnolava buttando in
alto il fumo diafano della sigaretta.
Le donne giungevano sole e a
gruppi con i fagotti, i canestri e le corbe piene di roba e si appoggiavano al
muro della carcere o andavano ad occupare i sedili di granito della piazzetta o
si aggruppavano alle altre aggruppate nel largo in faccia al bastione. Tra le
popolane dal faccione prosperoso e dalle maniche rimboccate sull’avambraccio
bronzato, c’erano vecchie che si reggevano a mala pena in piedi, teste che
riassumevano la primavera nella chiarezza mattinale e figure dalla faccia
bianca o scolorata che uscivano dalla moltitudine con le loro vesti e i loro
cappelli neri come tante ditte di un ufficio mortuario.
Imperava il dolore. Ah, se si
potesse uscire dal dolore come si esce dalle porte cittadine! Il dolore
distruggeva la ripugnanza delle vestite bene per le vestite male e assorellava
le donne colpite da una sventura comune. Tutte queste mamme, tutte queste
spose, tutte queste amanti, tutte queste sorelle vedute assieme storcevano il
cuore e facevano venir sulle labbra una parola tragica, una bestemmia brunita
dal rancore, una maledizione che si rompeva nella testa col suono della lastra
di metallo che la martellata manda in frantumi. Riproducevano l’afflizione,
l’ambascia, il dietroscena domestico, il naufragio femminile, la devozione
sublime delle donne affezionate agli uomini chiusi laggiù, oltre il portone, al
di là dei cancelli, negli sgabuzzini del lugubre edificio imbevuto delle
lagrime dell’esercito della sventura, che ha patito più del Cristo in croce.
Nei loro occhi non era l’ardimento. Nei loro occhi era la stupefazione, lo
sbalordimento, l’umiliazione. Povere donne! Erano donne abbattute, costernate,
vinte dal supremo cordoglio che non le lasciava disfogare la piena del loro
martirio.
I carrettoni chiusi
scompigliavano e buttavano manate di nero sulla tela lugubre che s’allargava a
ogni minuto. I traballamenti delle ruote andavano sul cuore della moltitudine
come fitte che si sprofondavano nelle ferite palpitanti e sollevavano in tutti
il vespaio delle supposizioni. A ogni sussulto si correva involontariamente col
pensiero nelle cellette del veicolo che accarezzavano l’arrestato come la
guaina accarezza la lama, a palpeggiare gli incassati come se si avesse avuto
paura che si fossero rotta la testa o stessero in lotta coll’ultimo alito di
vita. Chi saranno? E l’interrogazione faceva rabbrividire. Forse saranno dei
ladruncoli o dei rivoluzionari o degli innocenti usciti dalle braccia della
famiglia, rimasta in casa a piangere la loro sciagura! E i veicoli della
tortura scomparivano e lasciavano le donne più avvilite di prima.
Questa campana! Si aspettava la
campana del soccorso, la campana che doveva far dimenticare ai cellularizzati
la smisurata intelligenza malvagia degli uomini, degli uomini che hanno per
idealità il male, la campana che consolava lo stomaco di chi mangia poco e
male. Fate presto, in nome del Signore. Spalancate il cancello, prendetevi la
corba delle vivande divenute fredde lungo la strada, divenute immangiabili
aspettando qui sul selciato due ore, tutto un secolo. Siate buoni, siate
caritatevoli con le povere donne trambasciate!
Il convoglio degli arrestati che
veniva verso il Cellulare a piedi suscitava in ogni seno un orrore indicibile.
Non poche donne erano state obbligate a chiudere gli occhi come quando si
riceve un’ondata di luce in pieno viso. Era una banda che falciava gli ideali
di redenzione più modesti. Sfilavano appaiati ai polsi come individui usciti da
un porcaio o da un sotterraneo, con le ragnatele sulle spalle, con l’umidore
nella gonfiezza sotto gli occhi, con i capelli irrigiditi in una zuffa
spaventosa. Erano laidi, stracciati, dilaniati dai patimenti. Circondati da
questurini, da carabinieri e dai soldati, il loro volto assumeva il colore
acceso degli aggressori di strada che stramazzano i viandanti a coltellate.
Alcuni, con gli abiti che non avevano perduta tutta l’eleganza e con la faccia cadaverica
fino alla fronte, davano l’idea degli insorti colti sulle barricate colle mani
odoranti la polvere.
Altri, a piedi nudi, coi gomiti
all’aria come le ginocchia, traducevano la loro vita grama di poveracci che
basivano sul marciapiede e stendevano la mano ai passanti,
Le donne si lasciavano
commuovere. Alcune singhiozzavano e dicevano che era meglio morire che vedersi
trattati come birbaccioni che avevano fatto del male. Altre si mordevano le
labbra e si scricchiolavano le dita per reprimere la sensazione che dava loro
stille di sudore e faceva loro pulsare le tempie dal disgusto e dalla furia.
Non mancavano più che cinque
minuti. La calca piegava verso l’entrata.
La prima fila, spinta dai nuovi venuti
che si cercavano un posto al centro tra le proteste generali, andava più di una
volta sul cordone militare che non si rompeva.
La ragazzaglia aveva dimenticato
la tensione dell’angoscia generale e si era abbandonata al chiasso, e le donne,
le più attempate, che si straccavano a stare in piedi, mormoravano con la voce
piagnolosa.
Proprio, non si aveva pietà per
le donne dei poveri prigionieri. Con tanta gente che soffre e con tanti
soccorsi, la direzione non s’era commossa. Continuava a ricevere alla stessa
ora, nelle stesse ore, come se nulla fosse avvenuto di straordinario.
Inzuccherate il veleno, o signori! Ci farete penare meno, ci farete! Non ci
voleva un gran giudizio per capire che bisognava far porta un po’ prima.
Pazienza! pazienza! pazienza! Sì, pazienza se si avesse avuto il buon senso di
mettere alla porta un cristiano che non strapazzasse tutti come tanti
servitori! Ma no! Ci avevano lasciato quell’anticristo di vecchio sciancato che
aveva l’anima nera con le povere donne.
Tutte le volte che si doveva
passare sotto un volpone di quella fatta ingrossava il cuore davvero. Era un
secondino ripugnante, col collo che si gonfiava come quello del serpente quando
va in collera, con la faccia ridotta a una grossa cipolla ammaccata. Bastava
spremerla per vederla colare di marcia. Dio non poteva dare del bene a questi
mostri verdi come la bile. Respingeva la gente dilatando la gola e dicendo
parole che facevano andare il sangue in acqua. Pazienza. Si era nelle sue mani
e non c’era che dire.
Anche quegli altri del soccorso
erano buone lane. Non sapevano dove stava di casa la buona maniera. Bastava non
aprir bene il canestro o avere dimenticato di fare la lista come volevano loro
per vederli dar fuori come vipere.
- L’ultima volta m’hanno mandata
a casa la figlia tutta piangente. Era uscita dalla coda per isbaglio. Si sa,
una povera tosa non può sapere i regolamenti. L’hanno mandata in fila con un
codazzo di rimproveri come se fosse stata la loro figliuola! Forconi! Non hanno
creanza, non hanno. Ci vorrebbe... Lo so io cosa ci vorrebbe. Acqua in bocca,
che i tempi sono tristi.
- A me mi è toccato il peggio. Mi
hanno lasciato il mio Alberto per ultimo perché non aveva la lista scritta.
Noi, povera gente, non si ha tempo di scrivere. Loro hanno un bel dire. Vorrei
vederli al nostro posto. La ragione volete che ve la dica io? Hanno la bocca
larga come quella dei coccodrilli e i denti in gola. Quella è la ragione. Ma i
miei denari li mangio io. Sissignori, li mangio io. C’è già troppo da
fare colle disgrazie che ci manda il Signore, per avere da pensare a queste
sanguisughe che ci beverebbero tutto il sangue in una volta!
- Se ci fossero delle persone con due dita di testa
ci lascierebbero entrare senza farci fare anticamera e senza buttar all’aria i
cesti come se fosse roba rubata. Tirano fuori tutto, mettono le mani in tutto,
cacciano il risotto nel salame, la torta nello stufato, le ciliege
nell’insalata e l’arrosto nella minestra. Ci vuole dello stomaco a mangiare il
soccorso.
- Non ditelo a me, per amor del
cielo, che ho veduto quello che voialtri forse non avete veduto. Ho veduto al
di là del terzo cancello come si trattano i cesti. Non ne avete idea.
Non ci sarebbe che la morte che potrebbe farmi dimenticare il disgusto
che ho provato in quella mattina che ho assistito al tanto scempio. Credetelo,
in certi luoghi si ha più considerazione per i torsoli che si gettano ai
maiali. Vuotavano i canestri come se fossero stati sacchi di patate.
Rovesciavano sul tavolo tazzine, piatti, scodelle, tegami, stoviglie, senza
badare se il condimento dell’insalata andava sul minestrone o se la marmellata
si versava sull’arrosto. Erano sgarbati che facevano venire la rabbia. Ma
quando si ha bisogno di loro, bisogna tacere. È una grande punizione questa che
Dio ci ha mandata. Con lo stesso coltellaccio facevano tutto. Assaggiavano,
tagliavano, mettevano sottosopra. Con lo stesso coltello infarinato e
impiastricciato di intingoli affettavano la pera, rivoltavano la minestra e il
risotto, dimezzavano il pane, facevano in due i limoni, sparavano i polli,
dividevano lo stracotto, mettendosi in bocca ora una fetta di coratella, ora
una striscia di anitra, tra le risate che facevano male. Riducevano le torte e
i pasticci, fatti in casa chissà con quanti sacrifici, in una condizione compassionevole.
Siate poveri diavoli e vedrete come è dura la vita. Voi state a casa a darvi
del male per mettere assieme un pranzetto come si deve, per il povero diavolo
che avete in prigione, correte come una disperata o prendete l’omnibus per
farglielo mangiare caldo, e poi vedete che tutto va alla malora, che tutto
diventa freddo, che tutto si mescola, le cose giulebbate con la carne arrostita
nel brodo succoso e la cipollata col fegato nel piatto delle fragole o dei
lamponi grossi come le more. Portate le uova fresche per tirar su lo stomaco a
chi ne ha tanto bisogno e poi venite a sapere che gli sono arrivate in cella
sfracellate, coi tuorli dispersi per le vivande. È una grande punizione questa
che Dio ci ha mandata! Ah sì, non credevo che si potesse penare tanto a questo
mondo! Si fa di tutto per risparmiare i soldi per un cartoccio di tabacco e al
colloquio vi si dice che non avete cuore di lasciare il vostro uomo senza una
pipata per passare il tempo che non passa mai!
- I sigari o il tabacco, pazienza.
Se non si fuma, non si crepa. A me è andato perduto il cesto, una volta dopo
l’altra, per due o tre giorni. Se non ci fosse stata una buona guardia, mio
marito sarebbe morto consunto di fame. Con una pagnotta di regalo ha potuto
tirar innanzi e scrivermi per domandarmi se ero morta, se l’avevo dimenticato.
È stato un vero crepacuore. Gli avevo mandato un pranzo da far risuscitare i
morti, un cesto pieno di grazia di Dio, e lui, povero diavolo, era rimasto in
cella a straziare il mio nome onorato con delle ingiurie che non meritavo.
Avete ragione voi, Antonia. È una grande punizione questa che Dio ci ha
mandato!
Finalmente! I primi rintocchi
rovesciarono la folla verso il banco delle guardie. La gente sgomitava, si
sbuttonava, si riversava tenendo in alto i canestri, protendendo le borse e i
fagotti, pregando di accettare la corba e supplicando gli agenti a essere
buoni, che erano lì da un pezzo con la roba gelata.
Le guardie non avevano tempo da
ascoltare storie. Prima della una dovevano verificare circa mille soccorsi.
Prendevano quelli che capitavano loro alle mani, senza guardare e senza
commuoversi. Chi non rispondeva sollecitamente alle domande, veniva lasciato
col pranzo in mano. Ogni donna era obbligata a dire, in fretta e in furia, nome
e cognome del detenuto, il numero della cella, se il padre e la madre erano
morti o vivi.
- Cella 89, Giuseppe Agesilao,
del fu Pietro e della vivente Teresa Baragni.
- Avete fatta la lista?
E il braccio di chi non poteva
farla vedere, veniva scansato e buttato dall’altra parte.
Alla una pomeridiana, le donne
giunte tardi o rimaste tra quelle che non avevano potuto consegnare i fagotti,
piangevano dirottamente.
La campana aveva chiusa la
consegna e la campana non aveva budella.
Era un grande dolore rifare la
strada con il mangiare, dopo aver fatto tanta fatica e avere speso tutto quello
che c’era in casa per consolare i poveri cristi in prigione.
- Aveva ragione Antonia di dire
che era una grande punizione questa che Dio ci aveva mandato!
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