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Paolo Valera
I Cannoni di bava Beccaris

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  • PARTE SECONDA
    • IL SOCCORSO
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IL SOCCORSO

 

 

 

È una scena piangevole che potete vedere ogni mercoledì e ogni domenica, tra le dieci e la una, sulla piazzetta Filangeri, dinanzi l’edificio della sventura sociale. Ma in un giorno o nell’altro non troverete mai la folla delle giornate di Bava Beccaris, quando ciascun cittadino aveva paura di non essere più cittadino e ogni donna poteva essere disgiunta dall’uomo da un ordine imperativo o da una mano brutale.

La mia pagina è una fotografia senza ritocchi di una di queste domeniche.

L’orologio di un campanile suonava le otto e il sole bruciava le cervella. Sul piazzale si vedevano alcune carriole cariche di frutta acerbe o sfatte, di dolci perseguitati dalle mosche e di cose mangerecce coperte di polvere. Il portone traduceva un corpo di guardia improvvisato in una città insorta, Un portone coll’andirivieni della gente che fa paura. C’erano soldati in piedi, soldati che riposavano sulla paglia sternita nei fianchi, soldati che entravano e uscivano, soldati che si asciugavano la fronte e si aggiustavano la giberna sul ventre. Si vedevano andare e venire secondini, guardie di finanza, delegati, questurini, carabinieri, ufficiali, autorità carcerarie, autorità militari - tutte persone che ricordavano il momento, persone dalla faccia feroce, persone che passavano come ventate di collera, persone pronte a venire alle mani col primo che avesse detto una corbelleria.

L’ufficiale di guardia pareva, col pensiero, a spasso. Con la ciarpa azzurra a tracolla, seduto sulla sedia addossata al pilastro con una gamba sopra l’altra, si ninnolava buttando in alto il fumo diafano della sigaretta.

Le donne giungevano sole e a gruppi con i fagotti, i canestri e le corbe piene di roba e si appoggiavano al muro della carcere o andavano ad occupare i sedili di granito della piazzetta o si aggruppavano alle altre aggruppate nel largo in faccia al bastione. Tra le popolane dal faccione prosperoso e dalle maniche rimboccate sull’avambraccio bronzato, c’erano vecchie che si reggevano a mala pena in piedi, teste che riassumevano la primavera nella chiarezza mattinale e figure dalla faccia bianca o scolorata che uscivano dalla moltitudine con le loro vesti e i loro cappelli neri come tante ditte di un ufficio mortuario.

Imperava il dolore. Ah, se si potesse uscire dal dolore come si esce dalle porte cittadine! Il dolore distruggeva la ripugnanza delle vestite bene per le vestite male e assorellava le donne colpite da una sventura comune. Tutte queste mamme, tutte queste spose, tutte queste amanti, tutte queste sorelle vedute assieme storcevano il cuore e facevano venir sulle labbra una parola tragica, una bestemmia brunita dal rancore, una maledizione che si rompeva nella testa col suono della lastra di metallo che la martellata manda in frantumi. Riproducevano l’afflizione, l’ambascia, il dietroscena domestico, il naufragio femminile, la devozione sublime delle donne affezionate agli uomini chiusi laggiù, oltre il portone, al di dei cancelli, negli sgabuzzini del lugubre edificio imbevuto delle lagrime dell’esercito della sventura, che ha patito più del Cristo in croce. Nei loro occhi non era l’ardimento. Nei loro occhi era la stupefazione, lo sbalordimento, l’umiliazione. Povere donne! Erano donne abbattute, costernate, vinte dal supremo cordoglio che non le lasciava disfogare la piena del loro martirio.

I carrettoni chiusi scompigliavano e buttavano manate di nero sulla tela lugubre che s’allargava a ogni minuto. I traballamenti delle ruote andavano sul cuore della moltitudine come fitte che si sprofondavano nelle ferite palpitanti e sollevavano in tutti il vespaio delle supposizioni. A ogni sussulto si correva involontariamente col pensiero nelle cellette del veicolo che accarezzavano l’arrestato come la guaina accarezza la lama, a palpeggiare gli incassati come se si avesse avuto paura che si fossero rotta la testa o stessero in lotta coll’ultimo alito di vita. Chi saranno? E l’interrogazione faceva rabbrividire. Forse saranno dei ladruncoli o dei rivoluzionari o degli innocenti usciti dalle braccia della famiglia, rimasta in casa a piangere la loro sciagura! E i veicoli della tortura scomparivano e lasciavano le donne più avvilite di prima.

Questa campana! Si aspettava la campana del soccorso, la campana che doveva far dimenticare ai cellularizzati la smisurata intelligenza malvagia degli uomini, degli uomini che hanno per idealità il male, la campana che consolava lo stomaco di chi mangia poco e male. Fate presto, in nome del Signore. Spalancate il cancello, prendetevi la corba delle vivande divenute fredde lungo la strada, divenute immangiabili aspettando qui sul selciato due ore, tutto un secolo. Siate buoni, siate caritatevoli con le povere donne trambasciate!

Il convoglio degli arrestati che veniva verso il Cellulare a piedi suscitava in ogni seno un orrore indicibile. Non poche donne erano state obbligate a chiudere gli occhi come quando si riceve un’ondata di luce in pieno viso. Era una banda che falciava gli ideali di redenzione più modesti. Sfilavano appaiati ai polsi come individui usciti da un porcaio o da un sotterraneo, con le ragnatele sulle spalle, con l’umidore nella gonfiezza sotto gli occhi, con i capelli irrigiditi in una zuffa spaventosa. Erano laidi, stracciati, dilaniati dai patimenti. Circondati da questurini, da carabinieri e dai soldati, il loro volto assumeva il colore acceso degli aggressori di strada che stramazzano i viandanti a coltellate. Alcuni, con gli abiti che non avevano perduta tutta l’eleganza e con la faccia cadaverica fino alla fronte, davano l’idea degli insorti colti sulle barricate colle mani odoranti la polvere.

Altri, a piedi nudi, coi gomiti all’aria come le ginocchia, traducevano la loro vita grama di poveracci che basivano sul marciapiede e stendevano la mano ai passanti,

Le donne si lasciavano commuovere. Alcune singhiozzavano e dicevano che era meglio morire che vedersi trattati come birbaccioni che avevano fatto del male. Altre si mordevano le labbra e si scricchiolavano le dita per reprimere la sensazione che dava loro stille di sudore e faceva loro pulsare le tempie dal disgusto e dalla furia.

Non mancavano più che cinque minuti. La calca piegava verso l’entrata.

La prima fila, spinta dai nuovi venuti che si cercavano un posto al centro tra le proteste generali, andava più di una volta sul cordone militare che non si rompeva.

La ragazzaglia aveva dimenticato la tensione dell’angoscia generale e si era abbandonata al chiasso, e le donne, le più attempate, che si straccavano a stare in piedi, mormoravano con la voce piagnolosa.

Proprio, non si aveva pietà per le donne dei poveri prigionieri. Con tanta gente che soffre e con tanti soccorsi, la direzione non s’era commossa. Continuava a ricevere alla stessa ora, nelle stesse ore, come se nulla fosse avvenuto di straordinario. Inzuccherate il veleno, o signori! Ci farete penare meno, ci farete! Non ci voleva un gran giudizio per capire che bisognava far porta un po’ prima. Pazienza! pazienza! pazienza! Sì, pazienza se si avesse avuto il buon senso di mettere alla porta un cristiano che non strapazzasse tutti come tanti servitori! Ma no! Ci avevano lasciato quell’anticristo di vecchio sciancato che aveva l’anima nera con le povere donne.

Tutte le volte che si doveva passare sotto un volpone di quella fatta ingrossava il cuore davvero. Era un secondino ripugnante, col collo che si gonfiava come quello del serpente quando va in collera, con la faccia ridotta a una grossa cipolla ammaccata. Bastava spremerla per vederla colare di marcia. Dio non poteva dare del bene a questi mostri verdi come la bile. Respingeva la gente dilatando la gola e dicendo parole che facevano andare il sangue in acqua. Pazienza. Si era nelle sue mani e non c’era che dire.

Anche quegli altri del soccorso erano buone lane. Non sapevano dove stava di casa la buona maniera. Bastava non aprir bene il canestro o avere dimenticato di fare la lista come volevano loro per vederli dar fuori come vipere.

- L’ultima volta m’hanno mandata a casa la figlia tutta piangente. Era uscita dalla coda per isbaglio. Si sa, una povera tosa non può sapere i regolamenti. L’hanno mandata in fila con un codazzo di rimproveri come se fosse stata la loro figliuola! Forconi! Non hanno creanza, non hanno. Ci vorrebbe... Lo so io cosa ci vorrebbe. Acqua in bocca, che i tempi sono tristi.

- A me mi è toccato il peggio. Mi hanno lasciato il mio Alberto per ultimo perché non aveva la lista scritta. Noi, povera gente, non si ha tempo di scrivere. Loro hanno un bel dire. Vorrei vederli al nostro posto. La ragione volete che ve la dica io? Hanno la bocca larga come quella dei coccodrilli e i denti in gola. Quella è la ragione. Ma i miei denari li mangio io. Sissignori, li mangio io. C’è già troppo da fare colle disgrazie che ci manda il Signore, per avere da pensare a queste sanguisughe che ci beverebbero tutto il sangue in una volta!

- Se ci fossero delle persone con due dita di testa ci lascierebbero entrare senza farci fare anticamera e senza buttar all’aria i cesti come se fosse roba rubata. Tirano fuori tutto, mettono le mani in tutto, cacciano il risotto nel salame, la torta nello stufato, le ciliege nell’insalata e l’arrosto nella minestra. Ci vuole dello stomaco a mangiare il soccorso.

- Non ditelo a me, per amor del cielo, che ho veduto quello che voialtri forse non avete veduto. Ho veduto al di del terzo cancello come si trattano i cesti. Non ne avete idea. Non ci sarebbe che la morte che potrebbe farmi dimenticare il disgusto che ho provato in quella mattina che ho assistito al tanto scempio. Credetelo, in certi luoghi si ha più considerazione per i torsoli che si gettano ai maiali. Vuotavano i canestri come se fossero stati sacchi di patate. Rovesciavano sul tavolo tazzine, piatti, scodelle, tegami, stoviglie, senza badare se il condimento dell’insalata andava sul minestrone o se la marmellata si versava sull’arrosto. Erano sgarbati che facevano venire la rabbia. Ma quando si ha bisogno di loro, bisogna tacere. È una grande punizione questa che Dio ci ha mandata. Con lo stesso coltellaccio facevano tutto. Assaggiavano, tagliavano, mettevano sottosopra. Con lo stesso coltello infarinato e impiastricciato di intingoli affettavano la pera, rivoltavano la minestra e il risotto, dimezzavano il pane, facevano in due i limoni, sparavano i polli, dividevano lo stracotto, mettendosi in bocca ora una fetta di coratella, ora una striscia di anitra, tra le risate che facevano male. Riducevano le torte e i pasticci, fatti in casa chissà con quanti sacrifici, in una condizione compassionevole. Siate poveri diavoli e vedrete come è dura la vita. Voi state a casa a darvi del male per mettere assieme un pranzetto come si deve, per il povero diavolo che avete in prigione, correte come una disperata o prendete l’omnibus per farglielo mangiare caldo, e poi vedete che tutto va alla malora, che tutto diventa freddo, che tutto si mescola, le cose giulebbate con la carne arrostita nel brodo succoso e la cipollata col fegato nel piatto delle fragole o dei lamponi grossi come le more. Portate le uova fresche per tirar su lo stomaco a chi ne ha tanto bisogno e poi venite a sapere che gli sono arrivate in cella sfracellate, coi tuorli dispersi per le vivande. È una grande punizione questa che Dio ci ha mandata! Ah sì, non credevo che si potesse penare tanto a questo mondo! Si fa di tutto per risparmiare i soldi per un cartoccio di tabacco e al colloquio vi si dice che non avete cuore di lasciare il vostro uomo senza una pipata per passare il tempo che non passa mai!

- I sigari o il tabacco, pazienza. Se non si fuma, non si crepa. A me è andato perduto il cesto, una volta dopo l’altra, per due o tre giorni. Se non ci fosse stata una buona guardia, mio marito sarebbe morto consunto di fame. Con una pagnotta di regalo ha potuto tirar innanzi e scrivermi per domandarmi se ero morta, se l’avevo dimenticato. È stato un vero crepacuore. Gli avevo mandato un pranzo da far risuscitare i morti, un cesto pieno di grazia di Dio, e lui, povero diavolo, era rimasto in cella a straziare il mio nome onorato con delle ingiurie che non meritavo. Avete ragione voi, Antonia. È una grande punizione questa che Dio ci ha mandato!

Finalmente! I primi rintocchi rovesciarono la folla verso il banco delle guardie. La gente sgomitava, si sbuttonava, si riversava tenendo in alto i canestri, protendendo le borse e i fagotti, pregando di accettare la corba e supplicando gli agenti a essere buoni, che erano da un pezzo con la roba gelata.

Le guardie non avevano tempo da ascoltare storie. Prima della una dovevano verificare circa mille soccorsi. Prendevano quelli che capitavano loro alle mani, senza guardare e senza commuoversi. Chi non rispondeva sollecitamente alle domande, veniva lasciato col pranzo in mano. Ogni donna era obbligata a dire, in fretta e in furia, nome e cognome del detenuto, il numero della cella, se il padre e la madre erano morti o vivi.

- Cella 89, Giuseppe Agesilao, del fu Pietro e della vivente Teresa Baragni.

- Avete fatta la lista?

E il braccio di chi non poteva farla vedere, veniva scansato e buttato dall’altra parte.

Alla una pomeridiana, le donne giunte tardi o rimaste tra quelle che non avevano potuto consegnare i fagotti, piangevano dirottamente.

La campana aveva chiusa la consegna e la campana non aveva budella.

Era un grande dolore rifare la strada con il mangiare, dopo aver fatto tanta fatica e avere speso tutto quello che c’era in casa per consolare i poveri cristi in prigione.

- Aveva ragione Antonia di dire che era una grande punizione questa che Dio ci aveva mandato!


 




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