La mia cella è una fornace. Ho il
sole sulla muraglia esterna dal sorgere al tramonto del sole. Subisco una
trasudazione che mi snerva. Preferisco però l’isolamento alla compagnia della stanza
intermedia. Coi miei compagni sarei divenuto uno scemoide. A poco a poco il
loro linguaggio antintellettuale e trivialmente sbracato sarebbe divenuto il
mio. In otto giorni mi ero già abituato a passeggiare sull’ammattonato fracido
dei loro sputacchiamenti.
Gli habitués del carcere
manifestano ogni giorno, alle finestre, i loro rancori contro i cosiddetti
rivoluzionari. La polizia ne ha fatte delle retate e l’autorità carceraria ha
dovuto affollarli nelle celle. Ci accusano di essere gli autori delle loro
disgrazie. Dicono che i giudici, in conseguenza dei tumulti, sono diventati
eccessivamente severi. Coloro che in tempi ordinarii se la sarebbero cavata con
delle settimane o dei mesi, ritornano al Cellulare con degli anni di lavori
forzati e di sorveglianza.
- La sorveglianza - disse uno di
loro - conduce al domino (domicilio coatto).
Il capoguardia è uno sbilucione
con tanto di pancia. In questo momento è impossibile dire se egli sia un
burbero con del cuore o se sia in lui l’anima dell’aguzzino. Perché il
personale di custodia è come invaso dalla paura di riuscire mite. Parla a
monosillabi, ha una voce che sente del carceriere e preferisce dire di no ai
detenuti che gli domandano qualche cosa. Ieri, dopo tanta insistenza, ho
ottenuto il permesso di tagliarmi le unghie vellutate e lunghe. Ma ho
dovuto tagliarmele alla presenza di questo omaccione che rintuzza ogni
desiderio col regolamento. Il suo ufficio è un bugigattolo in faccia
all’ufficio di matricola. È in esso che ho avuto il primo colloquio. Il capo
metteva la sua faccia tra la mia e quella del mio amico. Ci teneva addosso gli
occhi semichiusi e ci interrompeva tutte le volte che tentavamo di parlare
degli avvenimenti e di scambiarci notizie che sapevano tutti.
Gli ho ridomandato una cella a
pagamento per avere il chiaro alla sera, la materassa sulla branda e un
tavolino con la scranna.
- Ce ne sarebbero così delle
persone che vorrebbero questi comodi! Abbiamo faticato a trasformare una cella
a pagamento per don Davide Albertario, venuto qui il 24. Con un prete non
potevamo fare diversamente. Con le guardie occupatissime siamo anzi obbligati a
mandarlo al passeggio solo per impedire che qualche mascalzone lo insulti. Si
sa, il Cellulare non è un collegio.
È suonata la campana che annuncia
la distribuzione del pane. I prigionieri la chiamano la «voce di Dio». È un
minuto di raccoglimento. Le finestre diventano quelle di un edificio
disabitato. Non si sente più un’anima. I
detenuti sono all’uscio ad aspettare che si apra l’usciuolo con la parola che
li invade di piacere: «Pane»! Il distributore che è uno scopino la ripete a
ogni pagnotta che passa per il buco. Lo ricevo anch’io, ma lo passo, colombando,
al delinquente vicino alla mia cella che ha sempre fame. È un ragazzo di
diciassette anni, scolorato come un onanista, e già recidivo. L’ultimo furto lo
ha consumato nello studio del capomastro suo padrone. Egli si aspetta il
dibattimento di giorno in giorno.
La vita carceraria è fatta per
imbestiare le persone più buone e più altamente educate. Dall’oggi all’indomani
si passa dal finimento da tavola alla scodella di terraglia del cane
dell’accattone orbo. Non c’è più biancheria, non ci sono più posate, non ci
sono più cristalli, non ci sono più tondi, più tondini, più fruttiere, più
portampolle, più insalatiere, più portastecchi. Non c’è più che il maiale con
un pezzaccio di legno scavato malamente in fondo.
Come, o signori, ma io sono un
inquisito, sono una persona che deve essere creduta innocente fino all’ultima
parola della Cassazione, e voi mi punite mettendomi in mano uno scopino
disfatto e laido perché mi scopi la cella, e voi mi obbligate, con le mie mani
abituate ai guanti, a portare fuori e dentro la mia tana il vasone da notte
come un latrinaio qualunque! No, accidenti, no, mi ribello! capite, mi ribello!
Voi non siete autorizzati a punirmi. Voi dovete rispettare in me il cittadino
anche se fossi uno squartadonne.
Ho perduto. Mi è toccato proprio
scopare e mettere fuori le porcherie con le mie mani. La guardia al mio no! di
stamane se n’è andata chiudendomi l’uscio sui piedi. Ella mi avrebbe fatto
marcire nella puzza e nel sudiciume. Potevo ringraziare Dio - diceva - che non
mi aveva fatto rapporto. I superiori mi avrebbero convinto che avevo torto, con
dei giorni di pane e acqua.
Sia fatta la volontà degli altri.
Ma se divento io direttore generale delle carceri! ....
Noiosi! gente noiosa! Sono
entrati per la seconda volta i battitori e mi hanno stordito. Battono i ferri
delle finestre con un gusto e con dei finali che spaccano la testa. Tirlic-tirlac,
tirlic-tirlac, tirlac, tirlac! Tirlic, tirlac, tirlic-tirlac, tirlac, tirlac,
tirlac, tirlac tirlac, lac, lac, lac, lac, lac!
Di che cosa avete paura? Come è
possibile che io possa segare o schiantare i bastoni di ferro se mi avete fatto
svestire e se vi siete assicurati che non è a mia disposizione neppure un
chiodo? Se le vostre guardie non sono corrotte, voi potete smettere di sciupare
il tempo e il personale per rintronarmi le orecchie!
Mi è rimasto in mano il manico
del chiccherotto e la terraglia è andata in frantumi. È come se avessi rotto
una caraffa di cristallo finissimo. C’è tutto il Cellulare sottosopra.
Il secondino di servizio guardò i
cocci con aria di sospetto, fece un’annotazione e richiuse l’uscio. Rividi lo
stesso agente con un sottocapo, il quale entrò a dare un’occhiatina ai
frantumi.
- Come avete fatto a romperla?
- Cadde. Me ne faccia dare
un’altra a mie spese.
- Uhm!
Stamattina sono stato chiamato ad
«udienza». Tra le sette e le otto il direttore viene al centro della carcere; va
in una stanza che partecipa della rotonda lambita dagli esagoni e dà «udienza» ..
Coloro che si sono fatti
iscrivere e coloro che sono stati iscritti a loro insaputa, escono dalla cella
al suono della campana che chiama a «udienza», discendono e si fermano sulla
punta del raggio, dove aspettano che Minosse vada in sedia.
È una mezz’ora che l’ho veduto.
Il direttore era seduto a un
tavolo di cucina, con la faccia sullo sfogliazzo e le braccia sul tavolo come
pesi in riposo. Con una mano faceva dei segni rossi in margine al nome e con
l’altra andava alla ricerca della pagina.
- Come avete fatto a romperla?
- Mi restò il manico in mano.
Mi entrò negli occhi come per
precipitarsi negli abissi della mia coscienza e risalirne con la bugia in mano.
- Andate! mi disse.
Ho saputo dopo che ero stato condannato a pagarla.
Non sono i venti o i trenta centesimi che mi fanno sprecare l’inchiostro.
Ma io domando se è giustizia di
farmi pagare un chiccherotto che mi si è dato slabbrato e pieno di crepe e che aveva
servito a chi sa quanti detenuti. Vi pare, o signor direttore, è giusto che un
poveraccio sconti col digiuno un avvenimento che può avvenire a voi, alle
vostre figlie, alla vostra signora, alla vostra serva, a tutti coloro che
bevono?
Mi tocca proprio dare
dell’animale all’avvocato Guglielmo Gambarotta. È qui nel mio raggio, sullo
stesso piano, ha la cella piena di volumi, mi ha lasciato supporre che mi
avrebbe fatto fare un’indigestione di libri e poi mi tiene qui a penare e ad
aspettarli ad ogni piede che passa! Che la guardia non abbia voluto prenderli?
Ma e la «colomba», non ha ancora imparato a «colombare»?
Non ho ancora finito di scrivere
l’interrogazione che sono stato chiamato alla spia da una voce sconosciuta.
- L’avvocato Gambarotta è uscito.
Lo saluta.
- Chi siete?
Nessuna risposta. La sua uscita
mi lasciò fantasticare. Che si sia incominciata la scarcerazione degli
innocenti?
Il passeggio è monotono. È come
un’altra cella scoperchiata. Il gruppo dei passeggi è di venti raggi che fanno
capo a una rotonda di mattoni, circondata di pietre, sull’alto della quale è la
guardia seduta che sorveglia i detenuti. In direzione opposta i raggi si
slargano fino a far posto a una filata di otto uomini, l’uno a gomito
dell’altro. Il cancello dalla parte più larga del passeggio ha un lastrone di
ferro che impedisce di vedere il viso di chi passa. I muri divisori sono alti
quattro metri, così che i passeggiatori di un passeggio non possono vedere, né
capire quello che dicono, i passeggiatori di un altro.
In venti raggi passeggiano dagli
ottanta ai cento individui. Una volta che i raggi sono popolati, la guardia
discende la scaletta che conduce alla sua altura con una manata di fidibus, li
accende e li distribuisce, di raggio in raggio, ai fumatori.
- Fuoco!
Chiusi tra queste pareti vi
accorgete subito che il detenuto che possegga un pezzo di matita lascia traccia
della sua passeggiata, quantunque sia proibitissimo insudiciare o scrivere sui
muri. In questi segni grafici io non vedo né il grafomane, né il delinquente.
Vedo semplicemente l’individuo che dice sul muro quello che non può dire su un
pezzetto di carta. Supponete che un condannato di ieri possa credere che i suoi
amici, oggi o domani, passeranno per lo stesso passeggio. Non esiterà un minuto
a scrivere: «Amici, salute. Condannato a 14 anni e otto mesi. Uscirò il 1913.
Coraggio! Salutatemi la Nina. Addio».
Si è detto che la muraglia è il
libro della canaglia, perché vi si leggono ideacce che non possono nascere nel
cervello dei galantuomini. È dubbio. Io vorrei vedere costoro per qualche anno
nello stesso ambiente. A nessuno di noi, liberi, viene in mente di
scarabocchiare sui muri i «morte al boia!» State in prigione e vi
vedrete un giorno o l’altro trascinati a manifestare il vostro odio contro la
spia che vi avrà denunciato, o al giudice per salvarsi, o alla guardia per
ingraziarsela, o al direttore per ottenere qualche favore. Le stesse guardie
carcerarie, le quali sovente sono vittime dello spionaggio, partecipano di
questo sentimento che erompe e trova il suo sfogo sulle muraglie delle
casematte, degli ergastoli, dei bagni di tutto il mondo. In Francia i
delatori sono perseguitati sulle muraglie come in Italia.
- «Mort aux vaches!»
Ci è toccata la prima ora di passeggio. Si esce volentieri
alla mattina, specialmente quando si ha avuto una notte fosforescente come
quella passata. Non sarebbe mancata che l’imprudenza di un solfanello per
metterci in mezzo alle fiamme. I miei compagni sono quelli di ieri.
Passeggiavano col piacere delle
persone che godono mezzo mondo a sentirsi in mezzo all’aria fresca. Il detenuto
che ha i capelli ritti come setole piantate nella testa, spingeva innanzi la
faccia per sentirsela alitare sugli occhi. Andavamo in su e in giù fumacchiando
e sparlando della direzione.
Un compagno ci raccontava che in
un libro, che gli aveva prestato il cappellano, era detto che al bagno di
Tolone i forzati avevano due arie di un’ora ciascuna. Qui invece ci si
lesina anche quella poca ora regolamentare.
Col sistema della direzione che
ci conta l’ora dal primo tocco della campana d’uscita al primo tocco della
campana d’entrata, il prigioniero del Cellulare non sta mai a passeggio più di
cinquanta minuti. Non c’è errore e ve lo dimostro. Siamo in un raggio di cento
persone. Ci sono due o tre guardie di servizio. Le celle non si possono
spalancare che tirando indietro il catenaccio. Mettete quattro o sei mani ad
aprirle tutte, e poi ditemi se gli ultimi non devono uscire otto o dieci minuti
dopo. La rientrata ha gli stessi inconvenienti. Perché i primi a uscire sono
anche i primi a rientrare. Il regolamento non è oscuro. Dice chiaro e tondo che
ci si deve, nei giorni feriali, «almeno un’ora» e maggior tempo «alla
domenica». Invece alla domenica ci si rubano degli altri minuti. Nei giorni
domenicali non si sta mai a passeggio più di tre quarti d’ora. La ragione è che
si aumentano i servizi con lo stesso personale di sorveglianza. È facile capire
perché non si protesta. Prima di tutto non è possibile trovarsi d’accordo in un
carcere che ha tanti detenuti che vanno e vengono in un giorno. Poi si farebbe
del male alle guardie che stanno più male di noi che abbiamo svaligiato o
assassinato qualcuno. Hanno un servizio di diciassette o diciotto ore sulle
ventiquattro e pagano, con le trattenute sullo stipendio ridevole, i pisolini
notturni, e le mancanze che fuori di questo luogo farebbero storcere le budella
dalle risa.
La barba lunga mi ha sempre fatto
schifo. Al largo me la faccio radere una volta al giorno. In questo periodo di
Bava Beccaris ho dovuto lasciarmela crescere quattordici giorni. I peli mi
pungevano come tante pagliuzze.
Adesso sono sbarbato e non mi
pento. Ma vi so dire che ho passato un brutto momento. È entrato nella mia
cella un uomo che mi pareva avesse gli occhi lucidi del bevitore. Il suo alito
puzzava di grappa e le maniche della sua giacca sucida erano lastricate del
pattume del mestiere. A ogni movimento sputava in terra la saliva negra della
cicca che egli rivolgeva come un boccone sotto i denti. Mi ha messo al collo
uno straccio sporco come un cencio di cucina. Gli aveva servito per sbarbare un
raggio intiero. A ogni rasoiata sudavo come sotto un’operazione chirurgica.
Avevo sempre paura di vedermi cadere ..una sleppa di carne
insanguinata. Sbatteva sul pavimento, che avevo reso lucido con le mie braccia,
le ditate della spuma coi peli che si era accumulata sul suo rasoio. Il suo
modo era spiccio. Dalla eminenza dello zigomo passava per la guancia come una
strisciata di rasoio.
Lascia peli dappertutto,
specialmente dove il rasoio non può scorrere liberamente, come nella pozzetta
del mento.
Mi brucia la pelle della faccia
come se fosse stata scorticata e ho ancora per il naso l’odore putrilaginoso
del suo sapone orribile.
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