Maggio 1898
So quanto deve avere sofferto in
una stanza con degli altri di un’altra condizione. Ma non ho potuto aiutarla.
Dalla sua entrata sono avvenute cose incredibili. Il personale di custodia è terrorizzato.
Noi scrivanelli non abbiamo più modo di entrare nei raggi dei politici.
L’Astengo se n’è andato. Era un direttore umano. Il suo delitto è di avere
permesso ai più grossi detenuti politici di pranzare insieme. Siccome non ci
sono locali sufficienti e siccome anche nella cella i prigionieri sono appaiati
per mancanza di spazio, così non si capisce il rigore della direzione
carceraria di Roma. Provvisoriamente ha preso il suo posto l’ispettore De Luca.
È uomo di cuore. Se ce lo lasciano non abbiamo perduto nulla. Ha fatto
migliorare il vitto e non punisce che quelli che vogliono proprio essere
puniti.
È la prima volta che mi capita di
vedere una testa direttiva che riconosce i diritti dei carcerati. Di solito i
direttori dei nostri giudiziari sono un po’ come i direttori delle caserme dei
forzati in Siberia, descritti dal Dostoïewsky
- un autore che non mi lascia mai uscire dalla tristezza. Individui che hanno
sempre bisogno di passare sul regolamento per schiacciare qualcuno o levare
qualche cosa a qualcun altro.
Ho ricevuto la sua noticina. Si
fidi pure. È un uomo che per me andrebbe nel fuoco. La guardia che sorveglia la
sua cella non è cattiva, ma dice tutto quello che avviene nel suo raggio. È
dunque pericolosa. Non ci sono stanze a pagamento a pagarle un occhio. È
inutile strepitare. Procuri di adattarsi. Sono momenti eccezionali. Il suo
pranzo è andato per due giorni in qualche altra cella. Si consoli che lo avrà
mangiato un povero diavolo. La confusione è inevitabile. C’è una media di settecento
soccorsi al giorno. Si raccomandi alla madonna perché non le capiti qualcosa di
peggio. Va bene, va bene. Dia sempre retta ai miei suggerimenti. Io la so più
lunga di lei e non lo dico per vantarmi. Lo dico perché la mia esperienza è più
lunga della sua. Ascolti attentamente. Un buon prigioniero deve essere sempre
pronto a subire la perquisizione. Ravvolga i miei fogliolini nella carta
incerata che le mando e appenda il sacchetto dove la camicia è più nascosta. In
queste giornate di sorprese è una precauzione necessaria.
Sugli arrestati di maggio non
posso giovarle molto, perché una volta registrati noi non abbiamo più alcuna
comunicazione con loro.
Il giorno sette, cioè sabato,
eravamo qui che aspettavamo, di minuto in minuto, gli arrestati della giornata.
Ma non abbiamo registrato che quattro imputati di delitti comuni, completamente
estranei ai tumulti. Non ricordo bene la data dei primi rivoltosi capitati al
Cellulare. So che i primi sono entrati alle sei ore mattina, la seconda o terza
giornata che fosse dei tumulti di Milano. Erano gli arrestati di Porta
Ticinese. Sono giunti in uno stato da far pietà ai sassi. Erano stati
trattenuti, nella caserma di S. Eustorgio, più di quarant’ore colle manette ai
polsi. È un po’ troppo. Non siamo mica in Russia. La mia speranza era il
dubbio. Non volevo credere che ci fosse gente con tanto di pelo sullo stomaco.
Ho interrogato coloro che li avevano accompagnati al Cellulare. Il fatto è
vero. Le autorità militari, senza locali adatti, avevano dovuto assicurarsi dei
barricatisti con le manette. Poca gente di buono e fra loro parecchi già noti
ai nostri registri.
Il grosso convoglio degli
arrestati è stato quello di domenica. Parlo sempre delle quattro giornate. Era
accompagnato dal delegato Birondi. Egli entrò nella nostra stanza smorto che
faceva paura. Ci si diceva che aveva sofferto orribilmente a passare per le vie
con tanti arrestati e cogli ordini severi che avevano soldati e agenti di P. S.
Un molla! molla! di qualche matto al largo poteva far nascere chi sa che
tragedia. Tra gli arrestati c’erano il deputato De Andreis, il direttore dell’ltalia
del Popolo, l’avvocato Federici, Valentini, ex direttore della Sera, Ulisse
Cermenati dell’ltalia del Popolo e il professore Gilardi del Secolo.
Lunedì ho registrato gli
onorevoli Turati e Bissolati e la dottora Anna Kuliscioff. Il Turati, non
appena libero dalle manette, ci disse che non era nuovo ai nostri registri. Era
stato qui, non so quando, a scontare una sentenza per un reato di stampa.
L’avvocato Leonida Bissolati,
direttore dell’Avanti!, parla con la grazia di una signora altamente
educata. È tutt’assieme una faccia intelligente ammantata di un’ombra
spirituale. So che ha tradotto Carlo Marx con un suo amico cremonese. Ma non ho
mai potuto leggerlo. Non c’è ancora nella nostra biblioteca. Se avrà occasione
di vederlo me lo saluti tanto e gli dica della mia simpatia per lui.
La dottora venne registrata dopo.
Io non l’ho veduta. Ma mi s’è detto che essa è venuta qui in vestaglia. È stata
arrestata alle cinque del mattino in casa sua e non le si è dato tempo neppure
di acconciarsi alla meglio. La sua guardiana mi ha raccontato che la prima cosa
che fece in cella fu di accendere una sigaretta. Ho saputo che è una fumatrice
instancabile.
È avvenuto quello che doveva avvenire.
Coi continui arresti non sappiamo più dove mettere gli arrestati. Ieri eravamo
1048. Il numero eccessivo ha obbligato il direttore a ficcarne, parecchi, tre
per cella, coi pagliericci in terra. Fortuna che non fa troppo caldo. L’ultimo
pesce grosso che registrai fu don Davide Albertario. È alto, dalle forme
erculee. Venne da San Fedele con una comitiva di venti individui della peggior
specie. Quasi tutti recidivi. Per impedire agli screanzati di dirgli qualche
insolenza, il direttore lo manda al passeggio solo. Mangia bene e riceve il
pranzo e la colazione da una trattoria esterna. Fuma anche lui come un turco.
Dopo alcuni giorni gli concessero, come ai deputati e ai giornalisti, carta,
penna e calamaio. Scrive tutto il giorno ed è sempre in nota per della carta.
Deve essere un grafomane.
Domenica si sarà accorto che
diceva messa un’altra voce. Il cappellano Enrico Villa è stato sospeso e non
può più mettere piede nel carcere.. Al suo posto officiava un frate. Lei sa che
io sono religioso e può darsi che pecchi d’indulgenza. Ma credo che sia
impossibile trovare un cappellano come don Enrico. Era un sacerdote che
adempiva al suo ministero con entusiasmo. Lo si vedeva andare e venire come il
moto perpetuo. Appena uno era in cella, andava a trovarlo, a consolarlo, a
incoraggiarlo. Non lasciava mai alcuno senza libri e diceva a tutti parole che
aiutavano a tirare innanzi la vitaccia del cellularizzato.
Il nuovo direttore è tra noi come
un flagello. Non dissimula. È una sovrapotenza assoluta, arricchita dalla
funzione di punire. È in lui come una spaventevole rettitudine. Respira il
dolore degli altri come una donna virtuosa la spiritualità dell’incenso.
La sua vanteria è di essere il
direttore che ha fatto mangiare, come si esprime lui, più cella di rigore ai
detenuti di tutti i direttori d’Italia. Le guardie che vogliono entrare nelle
sue grazie devono dargli ogni mattina prova del loro zelo. Non si sono mai
visti tanti puniti a pane ed acqua come in questi giorni. Se qualcuno si
lamenta dicendo che la sua infrazione non è di quelle punibili col regolamento,
il direttore gli risponde, in modo piuttosto brusco, che il regolamento interno
del carcere lo fa lui, perché ne è il giudice e il responsabile.
Il mio compagno all’ufficio di
matricola è stato castigato stamane con dieci giorni di camicia di forza. La
sua mancanza era grave. Aveva dato uno schiaffo a un collega che lo aveva
accusato di poltroneria in questi giorni che non abbiamo avuto tempo neanche di
dormire! Era qui con me da diciannove mesi. Lavorava come un negro ed era
forse, tra noi, il più intelligente. Dopo un semestre di tirocinio gratis il
suo «stipendio», per un lavoro di diciotto ore sulle ventiquattro, era di
dodici lire il mese. Aspetti a dire che non c’era male. Perché il governo,
sulle dodici lire guadagnate dal detenuto, se ne prende sette e venti. Non ho
mai capito perché il governo si trattiene sui guadagni dei carcerati il
sessanta per cento. Per me è una truffa. E lo dirò sempre, anche se si tenterà
di convincermi del contrario, come si è già fatto, mettendomi nella camicia di
forza. Rubare al detenuto è il più delittuoso dei delitti. Non le pare?
La camicia di forza è di tela
grossolana come quella delle brande dei soldati e va giù fin quasi alle
ginocchia. Gli occhielli per stringervi il condannato al supplizio corrono per
il dorso da una estremità all’altra. Le maniche non hanno uscita per le mani.
Il supplizio maggiore è intorno al collo. È una tela rigida che lo sega. Se le
guardie incaricate di chiudervi l’individuo non sono umane, la camicia di forza
diventa una vera tortura. Io credevo di non arrivare alla fine. Vi respiravo
con una fatica rantolosa e lo stringimento mi dava una molestia che mi faceva
impazzire. Dopo qualche ora passata con le braccia legate sulla schiena, come Gesù
Cristo, diventai furioso. Gridavo, mi rotolavo per il suolo della cella buia e
sotterranea con degli sforzi per liberarmi dal camiciotto che mi dava un
tormento spasmodico, ma nessuno veniva a calmarmi o a vedermi. Non fu che il
sonno che mi diede un po’ di requie. Molti dei condannati al camiciotto che
sopprime ogni movimento, implorano la commutazione del castigo. Preferiscono un
periodo più lungo di camerella con pane e acqua alla tela che pigia le carni su
se stesse con intendimenti assassini. Ma è difficile che si riesca ad ammansare
i direttori. La clemenza non è il loro forte. Ho conosciuto un detenuto,
imbestialito dagli spasimi atroci, che portò via coi denti un pezzo del
tavolato sul quale doveva dormire.
La maggioranza tace. Essa soffre
il supplizio senza mandare un lamento. Ci sono individui che si farebbero
attanagliare piuttosto che domandare perdono al loro carnefice, come ci sono
nature che possono resistere a tutte le pene dell’inferno.
Il regolamento è meno scellerato
dei loro interpreti. Esso dà dei riposi anche alla camicia di forza e ingiunge
che dopo quarantotto ore consecutive rimanga inoperosa per ventiquattro.
Le infrazioni di poco conto, come
le infrazioni al silenzio, sono punite secondo il sistema del direttore.
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