Il processo dei ventiquattro è
stato chiamato dei giornalisti per fare del lusso2.
In verità, i giornalisti
rappresentavano la minoranza. Tanto è vero che ciascuno di loro leggeva l’atto d’accusa
facendo tanto d’occhi.
- Come, che c’entro io con
costoro?
Si conobbero, o almeno si videro,
alle tre del mattino del 15 giugno 1898, nella stanza ove si «caricano e si
scaricano» gli arrestati che vanno e vengono dal Cellulare. Fuori e dentro c’era
ressa di carabinieri silenziosi, tetri, colle mani piene di ferri. Il loro capo
era un capitano con l’occhialino nel cavo dell’orbita, con una cera accigliata,
con due baffi marziali, che passava da una parte all’altra, col frustino in
mano, facendo risuonare gli speroni degli alti stivali alla scudiera, mentre
assisteva all’ammanettamento.
Romussi pareva un po’ più
ingrigiato. Era ilare, salutava gli amici e presentava i polsi al suo
ammanettatore con la faccia illuminata dal sorriso. I carabinieri giovani che
adempivano a questo servizio erano più spietati dei vecchi. Continuavano a dare
dei giri anche quando si diceva loro che i polsi facevano sangue.
Don Davide era conosciuto da
tutti, ma lui, personalmente, non conosceva che l’avvocato Romussi, Valera e
Zavattari. Non si capiva se era seccato in mezzo a tanti ignoti che lo
guardavano come una bestia rara. Il capitano lo squadrò dal capo ai piedi, gli
girò intorno col fare di un domatore di belve, e si voltò dall’altra, parte
percotendo leggermente lo stivalone. Si capiva che l’aveva su coi preti o che
ci aveva gusto a vederne uno nelle peste.
Don Davide pareva imbronciato.
Rispondeva al buon giorno di qualche amico con la voce grossa di chi è in
collera con se stesso.
La sua veste talare ambrosiana e
il suo paltò di panno nero sentivano il bisogno di parecchie spazzolate.
Indossava la veste, cinta dalla fascia di seta nera, dal giorno in cui dieci
tra carabinieri e soldati di linea entrarono nella casa paterna di Filighera ad
arrestarlo. Il suo paltò polveroso era stato buttato nell’angolo della cella
dal momento che vi era entrato.
L’avvocato Bortolo Federici, noto
a molti come repubblicano, attirava l’attenzione di parecchi per il suo
cappello Oberdan nero, sopra un «completo» caffè scuro. Zavattari era
abbattuto, dimagrato, colle guance infossate e biancastre e con le mani che
tremavano come se avesse avuto la febbre. A uno degli arrestati, che aveva dato
il buon giorno, rispose che era ammalato, gravemente ammalato e che, se non lo
si lasciava andare presto, sarebbe morto in prigione. Fu una nota che diffuse
un po’ di tristezza in coloro che gli erano vicini. I carrettoni che li
portavano al Castello erano nicchie che obbligavano gli ammanettati a stare con
le labbra ai fori della respirazione.
Smontarono nel cortile ducale
pallidi come cadaveri. Il primo a discendere fu del Vecchio, un omettino che
nessuno, prima dell’accusa, aveva sospettato che fosse un leone capace di
arringare la folla sulle barricate. Girava gli occhi come trasecolato. Non
sapeva trovare una parola e non seppe trovarla neanche al processo.
Accompagnati da molti carabinieri, si fecero passare in mezzo a due file di
soldati a salire per le scale anguste, al primo e al secondo piano,
disperdendoli per gli stanzoni anticamente occupati dalla Corte degli Sforza.
Lungo la ringhiera del primo piano, avevano messo Chiesi, Seneci, Cermenati,
Federici, Valera, Lallici, Ghiglioni, Romussi. Al secondo piano, Lazzari,
Valsecchi, Zavattari, qualche altro socialista, parecchi anarchici e il direttore
dell’Osservatore Cattolico, il quale occupava la stanza N. 10, colla
finestra sul tetto che gli lasciava entrare l’aria, il vento e la pioggia. Il
primo temporale della seconda notte lo obbligò a salvarsi dall’acqua
torrenziale che lo aveva sorpreso in letto in mutande.
I buchi al centro degli usci dei
ventiquattro processandi permettevano di andare cogli occhi negli stanzoni in
faccia, gremiti di arrestati. Davano a volte l’impressione di un immenso
lazzaretto pieno di colerosi, e a volte di lunghi corridoi affollati di insorti
che agitavano entusiasticamente i cappelli, i fazzoletti e le
mani.
All’uscio di ciascuno dei
ventiquattro, era una sentinella. Al minimo rumore che la seccava, metteva la
bocca al buco e diceva:
- Eh, fate silenzio o vi mando dentro
una pallottola!
Più di uno degli arrestati, per
proteggersi dalla «pallottola» ,, è stato obbligato a
far chiamare il capoposto. Don Davide, che non ha mai avuto paura di farla a
pugni con coloro che lo hanno insultato e come uomo e come prete, nella sua
stanza si sentiva a disagio. Temeva sempre che un Misdea qualunque o una
sentinella che esagerasse nella consegna lo allungasse cadavere. Una sera,
mentre passeggiava fumando un virginia, una sentinella, che doveva essere
anticlericale, continuava a perseguitarlo dalla spia dicendogli di non
fare fracasso, di buttare via il sigaro che era proibito fumare e di andare a
letto se non voleva che ve lo mandasse lui.
Il sacerdote, che non aveva
angolo che non fosse visibile alla bocca di fuoco, venne preso da una specie di
panico che lo obbligò a chiamare ad alta voce il capoposto, il quale, per
fortuna, era un chierico.
I ventiquattro, dopo dieci ore di
processo, ritornavano in camera sfiniti o stracchi morti, mangiavano un boccone
e si buttavano sul pagliericcio con la speranza d’addormentarsi subito e
dimenticare ciò che avevano sentito nella giornata. Le venti o trenta
sentinelle, alla distanza di pochi passi l’una dall’altra, alle otto precise
incominciavano a gridare con delle voci sgangherate: Sentinella all’ertaaa! -
All’erta stooo! Sentinella all’ertaaa! - All’erta stooo! - Sentinella
all’ertaaa! - All’erta stooo! - Sentinella all’ertaaaaaaaa! - all’erta
stoooooooo! - Sentinella all’ertaaaaaaa! - All’erta stooooooooooooooooo!
Una voce seguiva l’altra con
degli o e degli a larghi che spesso morivano nell’aria come
un’agonia e talvolta si rompevano con un fracasso che metteva sottosopra il
cervello dei detenuti che non potevano dormire. E dopo dieci o quindici minuti
di riposo, ricominciavano a gettare le voci per lo spazio più sgangherate di
prima.
Gli accusati si alzavano al suono
della campana con le occhiaie della gente che patisce d’insonnia. Il direttore
del Secolo, che non può dormire che al buio e in luogo tranquillo,
tormentato dalle grida degli incappottati, si voltava e si rivoltava anche
quando aveva preso un po’ di solfonal o di trional.
Il Chiesi, che non sa leggere in
letto perché gli si chiudono subito gli occhi, in Castello aveva dei momenti di
disperazione perché non gli si concedeva il riposo notturno. Ulisse Cermenati,
che sa stare ritto sulle gambe, andava al processo dinoccolato e pieno di
sonno, e Federici raccontava agli amici che accendeva, spegneva e riaccendeva
il lume con dei tentativi di passare la notte leggendo.
Si credeva che il processo fosse
ancora più sommario di quello che è stato. E ognuno che aveva qualcosa da dire
si era alzato nell’ultima notte prima dell’alba, col permesso del capoguardia,
a buttar giù qualche nota. Alcuni dei ventiquattro avrebbero voluto che si fosse
andati al Tribunale col proposito dell’on. A. Costa, quando era tra gli
arrestati al Cellulare. Lasciarsi trascinare dinanzi il Tribunale di guerra
senza dire una parola.
Ma quest’idea non ha potuto
prevalere, un po’ perché non si conoscevano tutti, un po’ perché nessuno poteva
comunicare coll’altro e un po’ perché gli accusati appartenevano a diversi
partiti in lotta fra di loro. Valera, andata a male la proposta del silenzio,
credeva che sarebbe stato utile, per suo conto, di servirsi del sistema di O’ Donovan
Rossa, cioè di guadagnar tempo e provare, con la lettura dei documenti
sparsi per i libri e per i giornali, che l’Italia era gravida di socialismo.
Ma il tampone presidenziale gli è
stato messo in bocca tante volte che dovette sedere come un uomo letteralmente
imbavagliato.
Il sistema di O’ Donovan Rossa,
il quale, tra parentesi, non era ancora il capo dei dinamitardi, era di valersi
del Tribunale per far conoscere al popolo la condizione del suo paese e
protrarre il giorno della sentenza con la lettura della storia irlandese
attraverso gli ottantatrè Acts o leggi eccezionali, che avevano
coercizzata la nazione per punirla di domandare con insistenza la libertà che
avevano gli Inglesi.
Dopo tre giorni il giudice tappò
la bocca al feniano, ma il suo sistema divenne un’arma poderosa nella Camera
dei Comuni, ove i parnellisti costringevano i deputati coercizionisti ad
assistere a delle sedute parlamentari che duravano perfino quarantadue ore e
impedivano ai ministri, per delle settimane e dei mesi, di far votare i
bills che dovevano imbavagliare gli Irlandesi.
Don Davide, che era sempre stato tenuto separato
dagli altri e che anche al Cellulare si mandava al passeggio da solo, si era
preparata un’autodifesa di circa venti o venticinque fogli da protocollo, per
provare, con grande semplicità, la sua innocenza. Cominciava dal dire di
ignorare il perché era stato arrestato, carcerato e condotto al Tribunale, e
tirava via affermando che, né direttamente, né indirettamente, aveva mai preso
parte ai tumulti.
«Non solo, diceva egli in terza
persona, né indirettamente, né direttamente non ha preso parte a tumulti, ma
sempre in vita sua usò dello scritto e della parola per l’ordine nella
religione, maestra di rispetto, fonte di civiltà e di proprietà. Lo stesso avvocato
fiscale che lo incolpa di fini speciali, confessa di non sapere il
perché lo si perseguita. Fini speciali? Dunque, non connivenze con altri
partiti, ma un’azione solitaria. Quale? Repubblicana, no; socialista, no;
dunque? Distruzione dell’Italia attuale e ricostituzione del poter temporale
del papa; questo, suppone l’accusatore. Ora, questo è assurdo, perché don
Davide Albertario in proposito ha per programma di attenersi a quello che gli
altri poteri, l’ecclesiastico e il laicale, concertino tra di loro.
«Domando dunque, concludeva don
Davide, che mi si lasci libero al mio lavoro benefico, al mio altare, alla mia
famiglia. Sono cittadino e sacerdote e scrittore che ha fatto il suo dovere.
Non rapitemi la libertà. L’onore, né voi né nessuno me lo rapiranno giammai.
Rimandatemi al mio luogo di lavoro».
Romussi, che, come tutti sanno, è
un lavoratore instancabile, si era alzato alle due antimeridiane a gettar giù
cartelle sopra cartelle, dolendosi, di tanto in tanto, di non avere avuto con sè
la collezione del Secolo per poter documentare la sua vita di
giornalista.
Ciononostante, scrisse un mucchio
di cartelle che sono state distrutte o perdute.
Al Castello vi doveva essere un
raccoglitore di manoscritti. Perché di tanto in tanto si sentiva qualcuno dei
ventiquattro lamentarsi di avere smarrito dei foglietti pieni delle idee che
intendeva svolgere al Tribunale militare. Don Davide fu il più sventurato di
tutti. Perché, oltre all’avere sciupata la fatica per l’autodifesa, trovò che
una mano ignota gli aveva involato dalla valigia un manoscritto ch’egli aveva
preparato nelle lugubri giornate al Cellulare e che intendeva pubblicare subito
dopo la sentenza. Egli ha potuto far avere a me una di queste cartelle, scritta
con una calligrafia quasi femminile e piena di parole feroci contro quelli che
chiama i suoi delatori.
La cosa più noiosa durante gli
otto giorni di processo erano le manette. A tutti noi si mettevano i ferri
quando si usciva dalla stanza per andare al tribunale nel cortile della Rocchetta,
quando dal tribunale si era accompagnati nella stanza a far colazione, quando
ci si riconduceva sul banco degli accusati e quando ci si riconsegnava al
secondino per essere chiusi in prigione fino all’indomani alla stessa ora.
Lungo il passaggio tra un cortile e l’altro, v’era sempre folla. In quello
ducale, era una siepe di ufficiali che amavano vedere da vicino queste persone
pubbliche che avevano scritto delittuosamente nel giornale socialista,
repubblicano, radicale, liberale, cattolico. In quello della Rocchetta, era la
moltitudine, composta di curiosi, di amici, di preti, di soldati, che sgomitava
per mettersi in prima fila a vedere, salutare, commuoversi, piangere. Si
vedevano persone che si tergevano le lagrime col dorso della mano, persone che
agitavano il cappello per dir loro: coraggio! e persone che levavano in alto le
mani giunte per tradurre la loro desolazione.
La prima volta che
riattraversavano il cortile della Rocchetta per salire a colazione, vi fu un
fotografo che sentiva indubbiamente la prepotenza della funzione del
giornalismo moderno di riprodurre la vita sociale illustrata. Si staccò da un
capannello e si presentò colla sua macchina sullo stomaco dinanzi i primi due
dei ventiquattro, i quali erano il direttore del Secolo e il direttore
dell’Osservatore Cattolico colle mani legate assieme. Romussi si mise un
braccio attraverso il naso e don Davide si tirò il cappello sugli occhi
voltandosi di fianco - entrambi per tradurre la loro indignazione e per
impedirgli di esercitare la sua professione. Anche adesso che correggo le bozze
mi duole di questo loro scatto antigiornalistico. Perché ci hanno soppresso uno
dei documenti più preziosi delle giornate di Bava Beccaris. Se fossi direttore
di giornale vorrei che tutti i miei corrispondenti avessero l’audacia del
fotografo giornalista. Allora sarei sicuro che il mio quotidiano sarebbe il
primo quotidiano d’Italia.
Tra la folla degli avvocati
accorsi a dare l’ultimo addio ai condannati, si distingueva il Majno che
camminava con l’ombrello in una mano e il cappello nell’altra, salutando
dappertutto: «Addio, Chiesi, ciao, Federici, coraggio, Romussi, sta allegro,
Valera, arrivederci presto, don Davide, ecc.».
Nei suoi addii era lo strazio di
un avvocato e di un amico reso impotente dalla legge marziale.
Questa traversata fu un attimo
solenne, indimenticabile che fece piangere più di uno dei diciannove che
ritornarono in camera carichi di mesi e di anni.
La Kuliscioff non ha mai
partecipato a questi strazi e a queste consolazioni, perché la sua residenza
rimase sempre al Cellulare. Ne veniva e vi ritornava in brougham, vestita
di nero come un funerale.
Il suo contegno è stato di donna
equilibrata. Nelle poche parole che le si permise di dire, non si occupò che
delle sue idee marxiste. Il resto sembrava per lei estraneo. Di tanto in tanto
si assentava per fumare una sigaretta.
D’altronde, non era la prima
volta che essa passava delle giornate in prigione. Era già stata nelle carceri
parigine e poi per più di due anni nelle prigioni d’Italia.
Poche ore dopo la sentenza, gli
anarchici vennero mandati a Finalborgo, e i giornalisti partirono il giorno
seguente, cioè alle 11 della sera del ventitrè.
Alla Stazione Centrale, c’era una
folla enorme ch’era riuscita a sapere l’ora della partenza. Ma i carabinieri
fecero entrare i condannati dalla parte opposta - evitando di passare sulla
prima piattaforma, piena di amici che volevano salutarci.
Tra gli intimi di Romussi, vi era
il professore Pietro Panzeri, direttore dell’Istituto dei rachitici, che
piangeva come un ragazzo.
Il vagone cellulare era nuovo e
pennelleggiato di fresco. Perdeva un odore di vernice che faceva turare il
naso.
Don Albertario, grosso come era,
non riuscì a mettere il piede sul predellino che aiutato. Nello sforzo gli
cadde il cappello da prete: istintivamente tentò di raccoglierlo, ma si avvide
tosto di essere ammanettato ed alzò gli occhi al cielo.
Nessuno disse una parola. Pareva
che la vita fosse finita sul montatoio. Ciascuno, ravvolto nel proprio dolore
come in un mantello, sentiva gli strazii delle famiglie che singhiozzavano
sotto la tettoia.
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