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Paolo Valera
I Cannoni di bava Beccaris

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  • PARTE SECONDA
    • LA PAGINA INTIMA DEL PROCESSO AI GIORNALISTI
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LA PAGINA INTIMA DEL PROCESSO AI GIORNALISTI

 

 

 

Il processo dei ventiquattro è stato chiamato dei giornalisti per fare del lusso2.

In verità, i giornalisti rappresentavano la minoranza. Tanto è vero che ciascuno di loro leggeva l’atto d’accusa facendo tanto d’occhi.

- Come, che c’entro io con costoro?

Si conobbero, o almeno si videro, alle tre del mattino del 15 giugno 1898, nella stanza ove si «caricano e si scaricano» gli arrestati che vanno e vengono dal Cellulare. Fuori e dentro c’era ressa di carabinieri silenziosi, tetri, colle mani piene di ferri. Il loro capo era un capitano con l’occhialino nel cavo dell’orbita, con una cera accigliata, con due baffi marziali, che passava da una parte all’altra, col frustino in mano, facendo risuonare gli speroni degli alti stivali alla scudiera, mentre assisteva all’ammanettamento.

Romussi pareva un po’ più ingrigiato. Era ilare, salutava gli amici e presentava i polsi al suo ammanettatore con la faccia illuminata dal sorriso. I carabinieri giovani che adempivano a questo servizio erano più spietati dei vecchi. Continuavano a dare dei giri anche quando si diceva loro che i polsi facevano sangue.

Don Davide era conosciuto da tutti, ma lui, personalmente, non conosceva che l’avvocato Romussi, Valera e Zavattari. Non si capiva se era seccato in mezzo a tanti ignoti che lo guardavano come una bestia rara. Il capitano lo squadrò dal capo ai piedi, gli girò intorno col fare di un domatore di belve, e si voltò dall’altra, parte percotendo leggermente lo stivalone. Si capiva che l’aveva su coi preti o che ci aveva gusto a vederne uno nelle peste.

Don Davide pareva imbronciato. Rispondeva al buon giorno di qualche amico con la voce grossa di chi è in collera con se stesso.

La sua veste talare ambrosiana e il suo paltò di panno nero sentivano il bisogno di parecchie spazzolate. Indossava la veste, cinta dalla fascia di seta nera, dal giorno in cui dieci tra carabinieri e soldati di linea entrarono nella casa paterna di Filighera ad arrestarlo. Il suo paltò polveroso era stato buttato nell’angolo della cella dal momento che vi era entrato.

L’avvocato Bortolo Federici, noto a molti come repubblicano, attirava l’attenzione di parecchi per il suo cappello Oberdan nero, sopra un «completo» caffè scuro. Zavattari era abbattuto, dimagrato, colle guance infossate e biancastre e con le mani che tremavano come se avesse avuto la febbre. A uno degli arrestati, che aveva dato il buon giorno, rispose che era ammalato, gravemente ammalato e che, se non lo si lasciava andare presto, sarebbe morto in prigione. Fu una nota che diffuse un po’ di tristezza in coloro che gli erano vicini. I carrettoni che li portavano al Castello erano nicchie che obbligavano gli ammanettati a stare con le labbra ai fori della respirazione.

Smontarono nel cortile ducale pallidi come cadaveri. Il primo a discendere fu del Vecchio, un omettino che nessuno, prima dell’accusa, aveva sospettato che fosse un leone capace di arringare la folla sulle barricate. Girava gli occhi come trasecolato. Non sapeva trovare una parola e non seppe trovarla neanche al processo. Accompagnati da molti carabinieri, si fecero passare in mezzo a due file di soldati a salire per le scale anguste, al primo e al secondo piano, disperdendoli per gli stanzoni anticamente occupati dalla Corte degli Sforza. Lungo la ringhiera del primo piano, avevano messo Chiesi, Seneci, Cermenati, Federici, Valera, Lallici, Ghiglioni, Romussi. Al secondo piano, Lazzari, Valsecchi, Zavattari, qualche altro socialista, parecchi anarchici e il direttore dell’Osservatore Cattolico, il quale occupava la stanza N. 10, colla finestra sul tetto che gli lasciava entrare l’aria, il vento e la pioggia. Il primo temporale della seconda notte lo obbligò a salvarsi dall’acqua torrenziale che lo aveva sorpreso in letto in mutande.

I buchi al centro degli usci dei ventiquattro processandi permettevano di andare cogli occhi negli stanzoni in faccia, gremiti di arrestati. Davano a volte l’impressione di un immenso lazzaretto pieno di colerosi, e a volte di lunghi corridoi affollati di insorti che agitavano entusiasticamente i cappelli, i fazzoletti e le

mani.

All’uscio di ciascuno dei ventiquattro, era una sentinella. Al minimo rumore che la seccava, metteva la bocca al buco e diceva:

- Eh, fate silenzio o vi mando dentro una pallottola!

Più di uno degli arrestati, per proteggersi dalla «pallottola» ,, è stato obbligato a far chiamare il capoposto. Don Davide, che non ha mai avuto paura di farla a pugni con coloro che lo hanno insultato e come uomo e come prete, nella sua stanza si sentiva a disagio. Temeva sempre che un Misdea qualunque o una sentinella che esagerasse nella consegna lo allungasse cadavere. Una sera, mentre passeggiava fumando un virginia, una sentinella, che doveva essere anticlericale, continuava a perseguitarlo dalla spia dicendogli di non fare fracasso, di buttare via il sigaro che era proibito fumare e di andare a letto se non voleva che ve lo mandasse lui.

Il sacerdote, che non aveva angolo che non fosse visibile alla bocca di fuoco, venne preso da una specie di panico che lo obbligò a chiamare ad alta voce il capoposto, il quale, per fortuna, era un chierico.

I ventiquattro, dopo dieci ore di processo, ritornavano in camera sfiniti o stracchi morti, mangiavano un boccone e si buttavano sul pagliericcio con la speranza d’addormentarsi subito e dimenticare ciò che avevano sentito nella giornata. Le venti o trenta sentinelle, alla distanza di pochi passi l’una dall’altra, alle otto precise incominciavano a gridare con delle voci sgangherate: Sentinella all’ertaaa! - All’erta stooo! Sentinella all’ertaaa! - All’erta stooo! - Sentinella all’ertaaa! - All’erta stooo! - Sentinella all’ertaaaaaaaa! - all’erta stoooooooo! - Sentinella all’ertaaaaaaa! - All’erta stooooooooooooooooo!

Una voce seguiva l’altra con degli o e degli a larghi che spesso morivano nell’aria come un’agonia e talvolta si rompevano con un fracasso che metteva sottosopra il cervello dei detenuti che non potevano dormire. E dopo dieci o quindici minuti di riposo, ricominciavano a gettare le voci per lo spazio più sgangherate di prima.

Gli accusati si alzavano al suono della campana con le occhiaie della gente che patisce d’insonnia. Il direttore del Secolo, che non può dormire che al buio e in luogo tranquillo, tormentato dalle grida degli incappottati, si voltava e si rivoltava anche quando aveva preso un po’ di solfonal o di trional.

Il Chiesi, che non sa leggere in letto perché gli si chiudono subito gli occhi, in Castello aveva dei momenti di disperazione perché non gli si concedeva il riposo notturno. Ulisse Cermenati, che sa stare ritto sulle gambe, andava al processo dinoccolato e pieno di sonno, e Federici raccontava agli amici che accendeva, spegneva e riaccendeva il lume con dei tentativi di passare la notte leggendo.

Si credeva che il processo fosse ancora più sommario di quello che è stato. E ognuno che aveva qualcosa da dire si era alzato nell’ultima notte prima dell’alba, col permesso del capoguardia, a buttar giù qualche nota. Alcuni dei ventiquattro avrebbero voluto che si fosse andati al Tribunale col proposito dell’on. A. Costa, quando era tra gli arrestati al Cellulare. Lasciarsi trascinare dinanzi il Tribunale di guerra senza dire una parola.

Ma quest’idea non ha potuto prevalere, un po’ perché non si conoscevano tutti, un po’ perché nessuno poteva comunicare coll’altro e un po’ perché gli accusati appartenevano a diversi partiti in lotta fra di loro. Valera, andata a male la proposta del silenzio, credeva che sarebbe stato utile, per suo conto, di servirsi del sistema di O’ Donovan Rossa, cioè di guadagnar tempo e provare, con la lettura dei documenti sparsi per i libri e per i giornali, che l’Italia era gravida di socialismo.

Ma il tampone presidenziale gli è stato messo in bocca tante volte che dovette sedere come un uomo letteralmente imbavagliato.

Il sistema di O’ Donovan Rossa, il quale, tra parentesi, non era ancora il capo dei dinamitardi, era di valersi del Tribunale per far conoscere al popolo la condizione del suo paese e protrarre il giorno della sentenza con la lettura della storia irlandese attraverso gli ottantatrè Acts o leggi eccezionali, che avevano coercizzata la nazione per punirla di domandare con insistenza la libertà che avevano gli Inglesi.

Dopo tre giorni il giudice tappò la bocca al feniano, ma il suo sistema divenne un’arma poderosa nella Camera dei Comuni, ove i parnellisti costringevano i deputati coercizionisti ad assistere a delle sedute parlamentari che duravano perfino quarantadue ore e impedivano ai ministri, per delle settimane e dei mesi, di far votare i bills che dovevano imbavagliare gli Irlandesi.

Don Davide, che era sempre stato tenuto separato dagli altri e che anche al Cellulare si mandava al passeggio da solo, si era preparata un’autodifesa di circa venti o venticinque fogli da protocollo, per provare, con grande semplicità, la sua innocenza. Cominciava dal dire di ignorare il perché era stato arrestato, carcerato e condotto al Tribunale, e tirava via affermando che, né direttamente, né indirettamente, aveva mai preso parte ai tumulti.

«Non solo, diceva egli in terza persona, né indirettamente, né direttamente non ha preso parte a tumulti, ma sempre in vita sua usò dello scritto e della parola per l’ordine nella religione, maestra di rispetto, fonte di civiltà e di proprietà. Lo stesso avvocato fiscale che lo incolpa di fini speciali, confessa di non sapere il perché lo si perseguita. Fini speciali? Dunque, non connivenze con altri partiti, ma un’azione solitaria. Quale? Repubblicana, no; socialista, no; dunque? Distruzione dell’Italia attuale e ricostituzione del poter temporale del papa; questo, suppone l’accusatore. Ora, questo è assurdo, perché don Davide Albertario in proposito ha per programma di attenersi a quello che gli altri poteri, l’ecclesiastico e il laicale, concertino tra di loro.

«Domando dunque, concludeva don Davide, che mi si lasci libero al mio lavoro benefico, al mio altare, alla mia famiglia. Sono cittadino e sacerdote e scrittore che ha fatto il suo dovere. Non rapitemi la libertà. L’onore, né voi né nessuno me lo rapiranno giammai. Rimandatemi al mio luogo di lavoro».

Romussi, che, come tutti sanno, è un lavoratore instancabile, si era alzato alle due antimeridiane a gettar giù cartelle sopra cartelle, dolendosi, di tanto in tanto, di non avere avuto con la collezione del Secolo per poter documentare la sua vita di giornalista.

Ciononostante, scrisse un mucchio di cartelle che sono state distrutte o perdute.

Al Castello vi doveva essere un raccoglitore di manoscritti. Perché di tanto in tanto si sentiva qualcuno dei ventiquattro lamentarsi di avere smarrito dei foglietti pieni delle idee che intendeva svolgere al Tribunale militare. Don Davide fu il più sventurato di tutti. Perché, oltre all’avere sciupata la fatica per l’autodifesa, trovò che una mano ignota gli aveva involato dalla valigia un manoscritto ch’egli aveva preparato nelle lugubri giornate al Cellulare e che intendeva pubblicare subito dopo la sentenza. Egli ha potuto far avere a me una di queste cartelle, scritta con una calligrafia quasi femminile e piena di parole feroci contro quelli che chiama i suoi delatori.

La cosa più noiosa durante gli otto giorni di processo erano le manette. A tutti noi si mettevano i ferri quando si usciva dalla stanza per andare al tribunale nel cortile della Rocchetta, quando dal tribunale si era accompagnati nella stanza a far colazione, quando ci si riconduceva sul banco degli accusati e quando ci si riconsegnava al secondino per essere chiusi in prigione fino all’indomani alla stessa ora. Lungo il passaggio tra un cortile e l’altro, v’era sempre folla. In quello ducale, era una siepe di ufficiali che amavano vedere da vicino queste persone pubbliche che avevano scritto delittuosamente nel giornale socialista, repubblicano, radicale, liberale, cattolico. In quello della Rocchetta, era la moltitudine, composta di curiosi, di amici, di preti, di soldati, che sgomitava per mettersi in prima fila a vedere, salutare, commuoversi, piangere. Si vedevano persone che si tergevano le lagrime col dorso della mano, persone che agitavano il cappello per dir loro: coraggio! e persone che levavano in alto le mani giunte per tradurre la loro desolazione.

La prima volta che riattraversavano il cortile della Rocchetta per salire a colazione, vi fu un fotografo che sentiva indubbiamente la prepotenza della funzione del giornalismo moderno di riprodurre la vita sociale illustrata. Si staccò da un capannello e si presentò colla sua macchina sullo stomaco dinanzi i primi due dei ventiquattro, i quali erano il direttore del Secolo e il direttore dell’Osservatore Cattolico colle mani legate assieme. Romussi si mise un braccio attraverso il naso e don Davide si tirò il cappello sugli occhi voltandosi di fianco - entrambi per tradurre la loro indignazione e per impedirgli di esercitare la sua professione. Anche adesso che correggo le bozze mi duole di questo loro scatto antigiornalistico. Perché ci hanno soppresso uno dei documenti più preziosi delle giornate di Bava Beccaris. Se fossi direttore di giornale vorrei che tutti i miei corrispondenti avessero l’audacia del fotografo giornalista. Allora sarei sicuro che il mio quotidiano sarebbe il primo quotidiano d’Italia.

Tra la folla degli avvocati accorsi a dare l’ultimo addio ai condannati, si distingueva il Majno che camminava con l’ombrello in una mano e il cappello nell’altra, salutando dappertutto: «Addio, Chiesi, ciao, Federici, coraggio, Romussi, sta allegro, Valera, arrivederci presto, don Davide, ecc.».

Nei suoi addii era lo strazio di un avvocato e di un amico reso impotente dalla legge marziale.

Questa traversata fu un attimo solenne, indimenticabile che fece piangere più di uno dei diciannove che ritornarono in camera carichi di mesi e di anni.

La Kuliscioff non ha mai partecipato a questi strazi e a queste consolazioni, perché la sua residenza rimase sempre al Cellulare. Ne veniva e vi ritornava in brougham, vestita di nero come un funerale.

Il suo contegno è stato di donna equilibrata. Nelle poche parole che le si permise di dire, non si occupò che delle sue idee marxiste. Il resto sembrava per lei estraneo. Di tanto in tanto si assentava per fumare una sigaretta.

D’altronde, non era la prima volta che essa passava delle giornate in prigione. Era già stata nelle carceri parigine e poi per più di due anni nelle prigioni d’Italia.

Poche ore dopo la sentenza, gli anarchici vennero mandati a Finalborgo, e i giornalisti partirono il giorno seguente, cioè alle 11 della sera del ventitrè.

Alla Stazione Centrale, c’era una folla enorme ch’era riuscita a sapere l’ora della partenza. Ma i carabinieri fecero entrare i condannati dalla parte opposta - evitando di passare sulla prima piattaforma, piena di amici che volevano salutarci.

Tra gli intimi di Romussi, vi era il professore Pietro Panzeri, direttore dell’Istituto dei rachitici, che piangeva come un ragazzo.

Il vagone cellulare era nuovo e pennelleggiato di fresco. Perdeva un odore di vernice che faceva turare il naso.

Don Albertario, grosso come era, non riuscì a mettere il piede sul predellino che aiutato. Nello sforzo gli cadde il cappello da prete: istintivamente tentò di raccoglierlo, ma si avvide tosto di essere ammanettato ed alzò gli occhi al cielo.

Nessuno disse una parola. Pareva che la vita fosse finita sul montatoio. Ciascuno, ravvolto nel proprio dolore come in un mantello, sentiva gli strazii delle famiglie che singhiozzavano sotto la tettoia.


 




2 Il processo dei giornalisti è stato il più strepitoso di tutti i processi delle Corti militari. I Tribunali - divenuti quotidiani durante lo stato d’assedio - hanno raggiunto, con esso, la massima tiratura di 35.000 copie. Col processo dei deputati l’interesse era diminuito e la tiratura discese alle 10.000.






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