Viaggio notturno da Milano a Finalborgo la notte dal 24
al 25 giugno 1898.
Mentre i carabinieri si
preparavano a metterci i ferri per avviarci alla casa di pena a scontare le
sentenze militari, ciascuno di noi pensava, involontariamente, al carrozzone
che ci doveva condurre dal Castello alla Stazione Centrale. Nessuno di noi
aveva potuto dimenticare la nicchia nella quale, venendo dal Cellulare, aveva
subìto, per più di mezz’ora, lo strazio di pencolare tra la vita e la morte per
mancanza d’aria!
I ferri ci distrassero. I
carabinieri adempivano alla funzione di ammanettarci, incalzati dal «fate
presto!» del tenente dei carabinieri, che ci guardava con la caramella
nell’occhio.
L’ordine era di ammanettarci a fior
di pelle. E chi si lamentava riceveva la buona misura di qualche altro giro
di vite. Io protestai. Dissi che non era possibile che ci fosse ordine di stringerci
i polsi fino a farceli sprizzare di sangue. Mi si fece tacere, assicurandomi
che alla stazione mi sarebbero stati allargati.
Chiusi nel carrozzone, credevamo
di morire. C’era un fetore che dava il capogiro. La cella era angusta, buia,
col sedile di legno cosparso di crostini di pane e coi fori per l’aria che
parevano tappati. Il veicolo ci sballottava in un modo crudele. Quando le ruote
sussultavano sui sassi o attraversavano i binari, ci sembrava che il carrozzone
stesse per rovesciarci sulla strada.
Non abituati a questi viaggi di
punizione, sognavamo il treno.
Alla stazione ci si fece
discendere passandoci sotto l’ascella, a zig-zag, una catena che ci teneva uno
dietro l’altro e ci impediva di pensare alla fuga.
Per scappare bisognava che il condannato
si trascinasse dietro tutti gli altri.
Eravamo così male informati sul
trasporto del bestiame di galera, che credevamo sul serio che ci avrebbero
fatti viaggiare in un vagone di terza classe. Invece fummo disillusi non appena
ci trovammo in quella specie di corridoio lungo due filate di celle.
A mano a mano che si saliva, si
veniva spinti e incassati dal carabiniere che aspettava il condannato dietro
l’uscio. L’operazione di cellularizzarci veniva fatta in un modo fracassoso. Si
schiudevano gli usci con collera, si bestemmiava contro i catenacci che
cigolavano senza andare avanti o indietro, si ingiungeva il silenzio con degli
imperativi brutali a coloro che volevano sapere dove diavolo ci si mandava, e
si sbattevano sulla faccia gli usci come tanti schiaffi ribaldi.
Rimanemmo per qualche minuto
sbalorditi. Io mi trovavo in una cella di mezzo, tra Romussi e don Davide
Albertario. Chiesi era in faccia al direttore del Secolo e io potevo
vederlo, attraverso la ferriata, di profilo. L’avvocato Federici era in una
delle prime celle della fila a destra e gli altri, compresi due che non
conoscevo, erano sparsi nelle celle in fondo.
Aspettavamo con ansia che
venissero a liberarci le mani indolenzite dal peso del ferro che diventava
sempre più enorme.
Faceva un caldo eccessivo. Nella
tana inverniciata il giorno prima, coll’uscio sulle ginocchia che non ci
permetteva né di allungare, né di incavalcare le gambe, si respirava un’aria
pestilenziale e si sudava come in un forno. L’indugio del treno a mettersi in moto
era per noi un vero supplizio. Speravamo che, lanciandosi nello spazio, folate
d’aria sarebbero venute ad attutirci la sete e a rinfrescarci la faccia.
Finalmente il treno si era mosso.
La lentezza e le prime fermate ci fecero capire ch’eravamo attaccati a un treno
omnibus. Il treno, che s’incammina adagio adagio e sosta a tutte le stazioni,
diventa una tortura per i poveracci calcati nelle nicchie che lasciano
respirare a disagio e intetrano l’ultima scena dei condannati sulla via della
espiazione.
Invece delle buffate d’aria
fresca che non venivano, né potevano venire, perché il nostro vagone era
l’ultimo e aveva le aperture in faccia a due altri, fummo obbligati a
incominciare una lotta disperata contro l’usciuolo dell’inferriara a scacchi,
che si chiudeva e minacciava di soffocarci a ogni scossa.
- Signori carabinieri, facciano
il piacere di fermarci l’usciuolo!
I signori carabinieri non
potevano essere umani con noi, perché avevano ricevuto ordini imperiosi di
essere severi e perché temevano, a ogni stazione,
di trovarsi alla presenza di qualche
ufficiale incaricato di «dare un’occhiata ai polli nella stia».
Ma per l’usciuolo facevano
proprio di tutto per inchiodarlo alla parete e spesso sacramentavano contro la
compagnia ferroviaria che si era dimenticata di configgervi la molla o l’uncino
per tenerlo aperto. Di tanto in tanto veniva qualcuno di loro a sbattercelo
indietro con un sostantivo energico. Ma il più delle volte dovevamo respingerlo
noi con la punta delle dita.
Alla stazione di Pavia, una voce
umana riuscì a intenerirci fino alle lagrime.
- Signor Romussi, signor Chiesi,
posso fare qualche cosa per loro e per i loro compagni?
La persona che parlava era
invisibile. Si sentiva solamente che la sua voce era commossa.
A così poca distanza, eravamo già
tutti stracchi morti per la posizione incomoda in cui ci teneva la celletta,
per i ferri che ci avevano intormentite le braccia e per l’arsura che ci faceva
dire a ogni minuto:
- Signori carabinieri, un po’
d’acqua!
La voce dello sconosciuto ci era andata al cuore
come una consolazione. C’era dunque qualcuno che pensava ai poveri diavoli che
soffrivano. Romussi, interpretando il pensiero di tutti, con una voce che
avrebbe impietosito i sassi, disse:
- Se ci potesse dare una gasosa!
Lo sconosciuto ci rispose con dei
singulti.
Era troppo tardi. Il ristorante
era chiuso e il treno stava per partire.
- Addio e coraggio! ci disse lo
sconosciuto con degli altri singhiozzi.
Lungo questo viaggio
indimenticabile ci domandavamo di tanto in tanto l’un l’altro se eravamo vivi.
Chiesi: Come stai, Fritz?
Federici: Bene.
- Don Davide, dormite?
- Magari potessi dormire!
- Romussi, come ti senti?
- Maledettamente male. Non avrei
mai creduto che il trasporto dei prigionieri fosse fatto in questo modo. Siamo trattati
peggio delle bestie.
- Pazienza, che non siamo lontani
da Sampierdarena.
Guardando nelle celle della fila
opposta mi si agghiacciava il sangue. La testa dei cellularizzati che ubbidiva
al moto del treno si delinquentizzava in un modo spaventevole. Pareva la testa
di un mostro. Illuminata dalla luce fosca che tremolava, assumeva proporzioni
spaventevoli. La fronte si allungava sovente con delle gibbosità che facevano
abbassare le palpebre dalla paura. Gli occhi ingrossavano e venivano alla
superficie con una luminosità feroce. La bocca, sbadigliando, spalancava un
abisso circondato da una dentiera enorme che digrignava come quella di un
teschio appeso nella penombra.
Lazzari sembrava una iena in
agguato.
Lungo le gallerie avevamo il fumo
della macchina che entrava nelle celle a volumi a ubriacarci e ad avvelenarci
le ultime ore.
- Signori carabinieri, un po’
d’acqua. Io muoio dalla sete!
A Sampierdarena il cuore del
brigadiere si lasciò intenerire dalla voce piangevole dei condannati.
- Ci faccia dare un caffè, signor
brigadiere. Sia buono.
- Dio gliene renderà merito, gli disse don Davide
che tirava il fiato come un uomo che si sente morire.
Il carabiniere con la caffettiera
in una mano e la chicchera nell’altra ci conciliò con l’umanità che sembrava composta
di tigri.
Ci si aperse la cella e ce lo si
versò in bocca a sorsi, con una pazienza materna. Bravo carabiniere!
Discendemmo a Finalmarina come
gente scampata a un pericolo. Aprivamo la bocca per sorseggiare l’aria e ci
auguravamo che il reclusorio fosse lontano lontano per aver tempo di
sgranchirci le gambe e di rimetterci dallo sbalordimento di un vagone che
chiamavamo assassino.
Qualche mese dopo, nella quinta
camerata del reclusorio di Finalborgo, ricordando questo episodio della nostra
vita carceraria, i direttori del Secolo, dell’Osservatore Cattolico
e dell’Italia del popolo si strinsero la mano e promisero che, non
appena ritornati al largo, avrebbero intrapresa la campagna contro questa
abbominazione che si chiama vagone cellulare.
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