Alla stazione di Finalmarina non
c’erano che cinque o sei persone, compresi due preti. Eravamo disfatti. Avevamo
gli occhi della gente che non ha dormito, i capelli spettinati, le guance
cadaveriche e le punte dei baffi piegate come una desolazione. Il sole ci
illuminava le lividure ai polsi che avevano assunto un colore nerastro. Ci si
passò la catena da un braccio all’altro e fiancheggiati dai carabinieri e
seguiti dai facchini coi fagotti, ci avviammo verso il reclusorio. Il silenzio
intristiva la scena. Attraversammo il binario, continuammo lungo la linea
ferroviaria fin quasi all’imboccatura di un tunnel e voltammo a destra, per lo
stradone carrozzabile che i finalborghigiani chiamano delle «catene», perché è
percorso dai galeotti che vanno e vengono dalla Casa di pena.
I carabinieri ci stavano ai panni
e ci incalzavano con degli avanti! È per loro il momento più trepido. Anche
legati come cani, potrebbe saltare in testa a qualcuno di darsi alla fuga.
Sprofondavamo i piedi nella polvere alta, sollevando un pulviscolo che ci
imbiancava e ci andava per la gola e per le nari come un prurito che ci
raddoppiava il malessere. Rasentavamo Capra Zoppa perseguitati da un’arsura
indicibile. Ciascuno di noi sognava una sorsata di latte o un’altra chicchera
di caffè per snebbiarci il cervello.
Quando fummo a metà strada, al
dorso di un parapetto, trovammo un giovine che aveva l’aria di un chierico e
piangeva come un ragazzo. Forse sapeva chi eravamo o forse provava una commozione
violenta dinanzi un prete alto e spalluto che passava incatenato come un
grassatore.
Dopo una ventina di minuti,
vedevamo sorgere a destra la torre quadrata del malaugurato edificio nel quale
dovevamo passare tanto tempo. Svoltammo il ponte, passammo tra mezzo alla
folla, infilammo il viottolo tortuoso a sinistra e, dopo pochi passi, ci
trovammo alla porta del reclusorio di Finalborgo.
L’entrata è quella di un portone
qualunque. Non dà l’impressione di una tomba di vivi, neppure pensando alle sentinelle
di guardia.
Ci si tolsero i ferri tra due
cancelli che inchiudono l’ufficio del capoguardia e ci si domandò se avevamo
bisogno di qualche cosa.
- Dell’acqua, rispondemmo.
Ce ne portarono due bottiglie e i
secondini, con la premura di dissetarci, ci diedero l’impressione di persone
che non incrudeliscono col Regolamento.
Anche colle mani libere,
sembravamo galeotti autentici. Romussi, coll’ala del cappello floscio che gli
ombreggiava la faccia fuligginosa, col solino gualcito e annerito dal sudore e
coi baffi sottosopra, aveva assunto l’aspetto di un uomo feroce. Chiesi, colla
barba e coi capelli impolverati e coi neracci della notte perduta sotto gli
occhi, pareva un capo ciurma invecchiato di dieci anni in poche ore. Don Davide
in un altro luogo avrebbe fatto scompisciare dalle risa. Aveva l’aria di un
Ernani passato attraverso il polverone della strada. Al margine del cubicolo,
colla tesa del tricorno pelosa e abbandonata dalle stringhe, colla collarina
scomparsa sotto il merinos, col panciotto dai bottoni escoriati pieno di
chiazze, colla veste talare ammantata di polvere e colle scarpe scalcagnate e
coperte d’uno strato bianco, faceva compassione. Sulla sua faccia erano tutti i
patimenti di uno strazio inenarrabile.
I carabinieri consegnarono le
buste dei nostri denari al capoguardia, il quale si mise a registrarle, ci
salutarono e noi passammo nello stanzone a pianterreno intitolato «banchi di
rigore». Lo stanzone, colle due finestrucole che davano sul viottolo, era buio.
Col suo immenso lastrone infisso lungo la parete, cogli anelloni sotto il
rialzo dei piedi al disopra della testa, faceva rabbrividire. Si vedeva che
eravamo proprio in una casa di pena. Ogni ìnfrazione al regolamento voleva dire
andare sul tavolato di pietra incatenato alle mani e ai piedi.
Il capoguardia non ci fece
cattiva impressione. Era alto, piuttosto magro, con una voce che faceva sentire
il twang americano e con un accento leggermente meridionale. Valera lo
battezzò subito per il Javert del reclusorio, per un Regolamento ambulante, per
il funzionario che si sarebbe stroncata la vita piuttosto che violarlo.
E attraverso i mesi che siamo
rimasti sotto la sua sorveglianza non abbiamo avuto occasione di modificare il
giudizio valerano. Egli è rimasto, per tutti noi, l’uomo-regolamento, guidato
da uno zinzino di buon senso. Prima di noi, in altre galere, egli aveva avuto
sotto di sè Amilcare Cipriani e De Felice.
Per ammazzare il tempo e impedire
agli amici di pensare che stavamo per diventare dei numeri di matricola, mi
misi a narrar loro la fuga del principe Krapotkine dall’ospedale dei detenuti
di San Nicola di Pietroburgo. Fu un grido unanime di protesta. Era una fuga che
sapevano tutti a memoria. Sapevano della stanzetta al terzo piano dirimpetto
all’ospedale, del violino che suonava che la via era libera e la carrozza di
fuori ad aspettarlo, e dei passi guadagnati sulla sentinella coi famosi due
lati del triangolo.
Entrò il capoguardia mentre don
Davide e Federici, dall’alto del tavolato, cercavano di capire dalla finestruola
da che parte dell’edificio penale ci trovavamo. Egli aveva in mano un opuscolo.
- Loro sono persone educate.
Questo è il Regolamento. Lo leggano e procurino di non violarlo per non
obbligarci a infligger loro delle punizioni.
Rientrò il capo con una guardia
che portava il misuratore e con un’altra che aveva sotto il braccio il mastro
dei delinquenti.
- Adesso, dobbiamo registrarli e
prendere loro la misura.
Ci lasciammo registrare e misurate con la docilità
delle pecore. Non eravamo mica in galera per romperci la testa contro gli
articoli del regolamento. Il primo a sottomettersi fu Chiesi e l’ultimo Achille
Ghiglioni, l’uomo terribile che aveva messo sossopra tutto Niguarda con una
Cooperativa di commestibili di trecento o quattrocento lire!
L’attraction, sulla
piattaforma del misuratore con l’asta che discendeva sulla testa, era don
Davide, il quale, tra noi, aveva raggiunto l’altezza massima. Sul misuratore,
con le cosce voluminose e la grandiosità del torace, egli aveva più del
granatiere che del sacerdote.
Finita questa operazione, ci si
annunciò il bagno. Era quello che desideravamo. Dopo tanti giorni di processo,
tante notti passate sul saccone in terra e un viaggio che ci aveva diminuito di
peso, un bagno era la suprema delle consolazioni corporali. Vi andammo l’uno
dopo l’altro senza ritornare ai «banchi di rigore».
Il bagno era in un angolo della
vasta cucina, ove cuoce la minestra quotidiana dei condannati, diviso da una
coperta appesa a due chiodi. Ciascuno di noi dovette svestirsi e tuffarsi nell’acqua
alla presenza di una guardia incaricata di tener sempre gli occhi sul recluso.
Don Davide ebbe delle ritrosie. Egli non seppe decidersi a liberarsi degli
ultimi indumenti che quando la guardia si rassegnò a voltare la faccia
dall’altra parte.
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