Il criterio nostro è questo; ogni provvedimento
sarà vano se non sia assicurata al Paese piena ed intera libertà: libertà di
propaganda, di pensiero, d'associazione, d'organizzazione, a tutte le classi
della società.
((Dal primo discorso alla Camera).
L’ho conosciuto nell’ottanta o
nell’ottantuno. Io caricavo l’appendice della Plebe di Bignami della
zavorra umana che scovavo e raccoglievo negli angiporti e nelle stamberghe, e lui
riempiva le colonne di una terapeutica che inchiudeva, colle spinte e
controspinte romagnosiane, i germi della giustizia sociale. Era forse la
prima volta che la democrazia adulta leggeva in un giornale socialista che la
questione criminale è intimamente connessa colla questione economica. Con un
centinaio di pagine intitolate Il delitto e la questione sociale il
Turati si rivelava un naturalista della scienza penale, un verista che studiava
oggettivamente l’uomo delinquente, un sociologo che accusava la società di
essere «complice impune dei misfatti che freddamente puniva». Egli credeva fino
d’allora che l’ordinamento punitivo fosse essenzialmente transitorio e che il
delitto troverebbe la sua cura in uno Stato che volesse «a tutti garantito il
frutto integrale del proprio lavoro».
Il suo cruccio erano i suoi nervi.
I nervi non gli davano requie. Non lo lasciavano dormire, non lo lasciavano
lavorare e gli distruggevano il pensiero di prepararsi un futuro intellettuale.
Egli si diceva sfibrato, fiacco, senza attività cerebrale. Doveva morire.
Sarebbe morto fra due o tre anni o fra due o tre mesi, non lasciando di
sè che «misere strofe» ai suoi cari. Tutti i medici l’avevano
abbandonato. Egli era un nevrastenico. La sua era una nevrosi inguaribile.
Pazienza. E ci salutava commosso e ritornava, sfiduciato, alla sua villa
di S. Croce, a due passi da Como, colle tasche e le valige piene di libri che
aveva comperato dal Dumolard o che gli aveva dato a prestito il suo e il mio
amico intimo Felice Cameroni - il critico che aveva incominciato a predicare lo
zolismo nell’appendice del Sole.
Durante questa battaglia accanita
tra lui e il suo sistema nervoso egli, come il dott. Pascal, si preparava
silenziosamente i dossiers coi quali avrebbe poi intrapresa la campagna
per liberare la società borghese dalle sofferenze sociali. Condannato da una
malattia implacabile, consumava le sue ultime ore nel laboratorio della
putredine sociale a cercare i parassiti distruttori che saccheggiano
l’organismo umano. Morente, sentiva, come Pascal, la voluttà e la grandiosità
della vita, della vita sana, economicamente e moralmente sana. Oui, je crois
au triomphe final de la vie.
Egli leggeva, postillava,
ammucchiava note sopra note e maturava nel cervello allargato dallo studio
febbrile la rivista alla quale diede poi tutta la sua intelligenza.
Con la tendenza a credersi
esternamente ammalato e dotato della pigrizia del divoratore di libri che non
darebbe mai mano alla penna della produzione, il Turati sarebbe forse divenuto
un frutto secco o rimasto un autore stitico s’egli non avesse potuto fondere la
sua esistenza con quella di una donna capace di agitargli lo spirito cogli
stessi ideali e di piegarlo a un lavoro meno sbandato e più omogeneo. E questa
donna fu Anna Kuliscioff. È lei che lo ha incalzato, che lo ha fortificato, che
lo ha imparadisato. Lei e lui e la Critica Sociale non si distinguono
più.
La Critica Sociale, Filippo
Turati e Anna Kuliscioff non sono più che un nome. L’una e l’altro e l’altra si
completano. la Critica Sociale è fatta della loro carne, nutrita del
loro ingegno, calda dei loro pensieri. In essa è la redenzione degli uomini, è
la pace nel benessere economico, è il trionfo della felicità della specie
sull’egoismo e sugli interessi degli individui. La Critica Sociale è
stata l’università della generazione crescente. È essa che ha dato a quasi
tutti noi la «coscienza sociale». Nata il quindici gennaio 1891, quando il
socialismo scientifico era un lusso per i superuomini delle scienze economiche,
fece nascere nella gioventù la fede nell’uguaglianza di condizione e un bisogno
prepotente di gettarsi negli studi che devono avere per risultato la sconfitta
della borghesia e l’elevazione del proletariato.
La bibbia di Filippo Turati è il Capitale.
Non c’è altro di più nutriente. Dal Capitale si esce uomini
completi. Un giorno che gli si è domandato di dire pubblicamente quale libro
avrebbe raccomandato a chi fosse condannato a portarsi seco in un eremo tre
soli volumi, egli rispose ripetendo tre volte il Capitale. Con questo
libro che egli paragona o mette al disopra al Darwin’s Journal, la
gioventù entra nella vita corazzata di altruismo, con una idea chiara dello
Stato a base di produzione socializzata. Ammiratore convinto del grande
novatore della scienza sociale, egli è, necessariamente, entusiasta dei
socialisti tedeschi - tali erompenti, dice lui, dal forte ceppo scientifico di
Carlo Marx - i quali, con la loro marcia gloriosa, hanno infuturato il più
grande fatto e l’esempio più significante della storia contemporanea.
Cresciuto in un ambiente
prefettizio - idolatrato dalla mamma - con un avvenire trionfale nel foro
milanese - circondato dagli agi della vita, egli preferì discendere nell’agone
sociale a lottare per l’esistenza collettiva - a sostenere i diritti dei
proletari incatenati agli anelloni del salario - ad agitare il programma
marxista che deve eliminare dalla società i ricchi e i poveri.
Lui, coi nervi che gli impedivano
un’occupazione costante, si dedicò a un lavoro febbrile - a un lavoro che
aumentava in ragione degli anni - a un lavoro che lo cacciava dalla redazione
sulla piattaforma pubblica - e dall’angolo del correttore di bozze nel girone
legislativo.
Perdutamente innamorato dei suoi
ideali, egli non sospettava che sarebbe venuto il giorno in cui i suoi nemici -
che sono anche i nostri - lo avrebbero sorpreso sulla strada e svaligiato di
tutto.
È stato mandato al reclusorio di
Pallanza come incitatore di tumulti e come un demagogo che mette un po’ di
barricata in ogni frase. Ma non c’è nessuno che abbia mai sentito come lui
tanta avversione per la turbolenza oratoria che sprona alla battaglia ogni
minuto e per i «discorsi che acclamano la rivoluzione, sovreccitano i
sentimenti delle masse e fanno sbottonare le stifelius di un delegato di
pubblica sicurezza». No, il bavardage épouvantable degli esaltati non ha
mai fatto parte del suo bagaglio di piattaforma.
Il socialismo in bocca di costoro
non può impensierire alcuno. Dovrebbe impensierire i suoi nemici quando si
ritrae dal palcoscenico dei teatri diurni per entrare nel laboratorio «a
notomizzare col bisturi della scienza il carcame sociale steso sul tavolaccio
della statistica e della disciplina positiva». Allora sì. Allora gli statisti
dovrebbero proprio incominciare a sentire delle apprensioni. «Perché quei miti
pensatori, nutriti di cifre e di sillogismi, onesti, riservati, impeccabili
sovente nella vita privata, magari un po’ puritani e un po’ quacqueri se se ne
gratta la scorza, quei sacerdoti dell’altruismo, quei mangiatori d’hascisch dell’ideale,
hanno più dinamite nella loro parola e nella scatola ch’è sotto il loro
cappello, che non ne sia nelle tasche dei feniani e nelle cantine di
Pietroburgo: con quest’aggravante che, di cotesta nitroglicerina spirituale,
non c’è doganiere o segugio di polizia dal fiuto fine che ne possa sentire
l’odore e mettervi sopra la zampa. Quando il moderno Anteo - come il Colaianni
definisce il socialismo - che ad ogni caduta risorge più vigoroso, agguerritosi
negli studi e nel raccoglimento, uscirà in piazza con idee mature e propositi
determinati, è allora che sarà davvero formidabile, quanto prima era
innocuo»3.
Nell’ambiente parlamentare egli
era una forza legislativa - una voce gagliarda che domanda giustizia per gli
affamati di pane, di libertà e di pensiero - un ragionatore che sa disorientare
i legislatori borghesi, i quali non vogliono convincersi che la società degli
sfruttatori s’avvia verso il periodo della sua naturale decomposizione.
Eloquente, con una dizione esatta, egli sa far ingoiare, con garbo, agli
onorevoli tutto quel diavolo che vuole, spruzzando la sua prosa tersa ed
elegante di una ironia e di un sarcasmo che non trovate se non in bocca degli
oratori altamente educati.
I discorsi di Sheridan si
leggevano una sola volta e si mettevano in libreria. Quelli di Filippo Turati
si leggono e si consultano sovente come quelli di Burke, perché sono densi di
pensieri, pronunciati in una lingua che dovrebbe far testo nelle scuole, caldi
dell’anima dell’oratore che vuole condurci ad espropriare la società a
beneficio di tutti.
Va sulla piattaforma con
riluttanza. Preferisce il tavolino di redazione al palco dinanzi la folla che
lo saluta col battimano fragoroso e lo ascolta a bocca aperta. Nemico dei
parolai e degli smargiassoni che sciolgono i problemi con qualche frase
alcoolizzata, non capisce la piattaforma che quando si ha qualcosa da dire. È
una tolda che lo impensierisce, che lo mette in orgasmo, che lo obbliga a
buttar giù note, a raccogliere fatti, a pulire della prosa che andrà perduta
per l’aria, perduta fino a quando avremo anche noi il quotidiano che darà il
discorso tale e quale è pronunciato. Ma una volta che egli è in piedi, pieno
dell’argomento, il suo discorso esce come dal libro di un grande uomo.
Tutti lo hanno sentito parlare.
La sua eloquenza non è l’eloquenza bolsa che va in giro per il comizio a
mendicare gli applausi. È l’eloquenza di un grande oratore. Qualche volta pare
una tempesta di pensieri. I suoi periodi snodati, brevi, vigorosi sull’uditorio
come un uragano intellettuale.
La sua penna di giornalista, che
gli ha conquistato un mondo di lettori, è una penna che cesella ed ubbidisce al
padrone. Non è mai sbrigliata anche quando è virulenta o infuria
sull’avversario. Produce uno stile nervoso - uno stile che ti mette sottosopra
il sangue - che ti accarezza - che ti schiaffeggia - che ti intenerisce. Ha
immagini scultorie, grandiose, indimenticabili.
Adesso che i nervi lo lasciano
tranquillo, la sua salute si è rinvigorita e le sue forze intellettuali si sono
triplicate. Egli è diventato un lavoratore metodico come l’autore dei
Rougon-Macquart. Vi può dire coll’orologio alla mano il manoscritto che vi
potrà consegnare in un mese per un anno di seguito.
Veste male, non è mai stato
vestito bene. Da giovane andava per le vie coi calzoni che gli lasciavano
vedere tutto il corame della scarpa, con una giacca o un paletot che lo tirava
da tutte le parti e un cappello floscio che lasciava vedere il suo alto
disprezzo per la spazzola e il copricapo nuovo. Il nodo della cravatta
traduceva l’uomo che non si guarda mai nello specchio; era mal fatto e andava
da tutte le parti, tranne che sotto il bottone del solino spesso sgualcito.
Parecchi di noi che scrivevamo nella Farfalla lo credevamo un bohémien
eternamente alla caccia di un louis d’or come gli eroi di Murger. Lo
si vedeva e si pensava all’assalto alla borsa. Ma lui ci stringeva la mano, ci
parlava di qualche pubblicazione e ci salutava senza domandarci nulla. La
giornata dopo che il Giarelli lo aveva fatto diventare celebre presentandolo ai
lettori della Ragione come autore del Mago - un canto che sentiva
del profumo dei suoi anni e che sgretolava il vecchio mondo come il canto
satanico di Carducci - lo pregai di prestarmi un libro.
- Figurati!
Mi lasciai trascinare a casa sua con uno
stringimento di cuore. Mi aspettavo di vedermi spalancato l’uscio di un uomo in
mare. Credevo di trovarlo in una soffitta che venisse inaffiata dalla pioggia,
con una dozzina di volumi pieni di ditate untuose per il suolo, con dei fogli imbrattati
di inchiostro su un tavolo che non sta mai quieto, con una seggiola sventrata,
con una camicia sudicia appesa alla parete e un paio di ciabatte squinternate
vicino a un saccone di foglie di granturco sui cavalletti di legno.
All’entrata diventai di tutti i
colori. La sua casa in via Gesù era di quelle che respirano il benessere degli
inquilini. La portinaia lo salutò con una mezza riverenza, lo chiamò signor
dottore, e gli lasciò prendere un mucchio di lettere da un casellario che
rivelava l’ambiente signorile. Salimmo per uno scalone, entrammo per l’uscio
aperto da una cameriera e mi trovai coi piedi sul tappeto, in un salotto
sontuoso, circondato da mobili eleganti, cogli occhi che andavano da una tela
di qualche sommità del pennello ai bibelots di un’étagère superba.
La mamma non pareva la mamma di
un figlio che si trascurava negli abiti fino all’indecenza. La guardavo e
pensavo alla castellana: alla signora alta, coi capelli bipartiti come una
Madonna, con la faccia signorilmente lunga, con l’abito nero giù a piombo,
illuminato intorno al collo dal pizzo antico e illustrato al seno da una
nidiata di solitari sepolti nelle trine. Nella penombra del salotto le sue dita
affusolate si muovevano e perdevano faville dappertutto.
Se avessi qualcosa da amministrare
e potessi indurre Filippo Turati a prendersi cura del mio patrimonio, non
esiterei un minuto ad affidargli la mia amministrazione. In pochi anni sarei
sicuro di andare verso la ricchezza che ride dei rovesci degli altri. Egli è un
ragioniere consumato. Ha l’occhio nell’avvenire ed è di una esattezza direi
quasi scrupolosa. Questa abilità, che in un uomo di cifre diventerebbe una
virtù grandiosa, in lui è un difetto che gli costa una somma enorme di lavoro
intellettuale perduto. Mi sento male quando vedo il direttore della Critica
Sociale scrivere gli indirizzi degli abbonati, registrare gli incassi,
impaccare libri e correre alla posta carico come un facchino.
Ma lui non smetterà mai. Egli
chiama tutto questo una distrazione. Abituato a non darsi al riposo,
continuerebbe a scrivere e diventerebbe prolisso e slavato come un pennivendolo
da ottanta lire il mese.
Fuma dalla mattina alla sera.
Terminata una sigaretta ne accende un’altra e continua così fino al momento di
addormentarsi.
Alcuni che non lo conoscono bene
sospettano in lui il tirchione che si lascerebbe ammazzare piuttosto che metter
fuori un centesimo o offrire una bibita agli intimi che vanno a trovarlo. È un
errore grossolano. Filippo Turati non è uno sciupone. Ma coloro che frequentano
la sua casa sanno che la sua tavola è sempre popolata di amici e che la sua
mano mette sempre nella mano dei bisognisti dei biglietti di banca.
Una sola volta l’ho veduto seccato di sapersi
all’uscio persone che hanno bisogno di dirgli una parola. Stava facendo
colazione e questi signori lo avevano fatto smettere sei volte. Alla settima
rifiutò di muoversi.
- Ah, per oggi basta, perdio!
Ditegli che non ci sono, ditegli!
Poi, dopo qualche boccone, si
trovò pentito.
- Era forse uno che meritava più
degli altri. La ragione è che ne ho troppi. Da un po’ di tempo il mio uscio
sembra l’uscio del duca Scotti.
È buono, generoso, leale, capace
di amicizie vere, sentite. Il socialismo è la sua anima, la sua fede, il suo
ideale. Per esso ha combattuto - per esso soffre - per esso sarà pronto domani
e sempre a morire.
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