Passando per il corridoio dei
cubicoli, vidi nel secondo Chiesi, nel terzo Romussi, nel quarto
Federici, e nel quinto don Davide. Credo di essere diventato pallido come un
morto. Veduti col viso ai due bastoni di ferro in croce dell’uscio, mi parvero
delle bestie o delle ditte di un museo di criminali. Le loro facce non erano
più che grinte spaventevoli, con delle mascelle enormi, degli occhi biechi,
delle fronti con tutte le stimmate del delinquente nato. Entrai nel sesto. Dopo
di me, venivano Achille Ghiglioni e Costantino Lazzari.
Il cubicolo era completamente
vuoto. Non vi trovai che una lastra d’ardesia, larga poco più del corpo d’un
uomo, infissa nella parete a destra. Mi distesi carico di emozioni, chiudendo
gli occhi come per obbliarmi. Sarebbe bastata una parola qualunque per farmi
piangere. Non avevo paura, ma tutto ciò che si compiva nel silenzio di
quell’attimo mi commoveva fino alla gola.
Vi rimasi assopito non so più
quanti minuti. Mi risvegliai spossato. Il cubicolo era così tetro e angusto che
mi ricordai delle camerucce dei famosi forni di Monza, ove i Visconti avevano
scontato i loro mesi di prigionia. Per muovermi, non avevo che uno spazio di un
metro e sessanta di lunghezza e un metro circa di larghezza. Era alto, con una
finestrolina sopra la porta che riceveva la luce scialba del corridoio chiuso e
largo poco più della tana. Per vederci malamente dovevo stare cogli occhi alla
inferriata.
Nessuno dei miei compagni
fiatava. Si capiva che attraversavano anche loro il momento della prostrazione.
Sentii Chiesi che domandava a
Fritz come stava.
- Bene, grazie.
Nacque subito il dialogo.
Romussi: Mi pare di essere
in un antro. È possibile che ci si facciano passare degli anni in questo buco?
Federici: lo tranquillava
assicurandolo che la segregazione personale non poteva durare più di un sesto
della pena.
Romussi: Saccorotto! Ci
dici poco a vivere in questa tana per sette od otto mesi? Ho tentato di leggere
col libro alla ferriata, ma ho dovuto smettere. Vi avrei lasciata la vista...
Chiamammo due o tre volte don
Davide senza averne risposta. Credevamo che dormisse. Invece, il povero prete,
entrato nel cubicolo, non seppe più reggere. Pianse dirottamente. Pianse nel
silenzio soffocando i singhiozzi per non farsi sentire dai colleghi, pregando
Dio di aiutarlo in un momento di tanta ambascia.
Io, che personalmente lo
conoscevo da parecchi anni e che durante il processo avevo ribadita l’amicizia,
inquieto del suo silenzio, gridai:
- Don Davide? Che cosa fate?
Dormite?
Rispose con una voce cavernosa che non dormiva. Non
aveva bisogno che un po’ di calma per riaversi da tutte quelle emozioni che
stavano per strangolarlo.
Fummo sorpresi dalla guardia con
le scarpe di cimossa, la quale ci spiava in agguato.
- Silenzio! gridò imperiosamente
il secondino.
Mezz’ora dopo venne il direttore
a vederci, cubicolo per cubicolo, col cappello in testa e la voce che sentiva
dell’uomo abituato a parlare coi galeotti. Così fu anche in seguito. Venne
sempre nella nostra camerata col cappello in testa e col linguaggio dell’uomo
che vuole essere temuto e vuole essere considerato un domatore di dannati alla
galera.
Uscito il direttore dal
corridoio, entrò nel cubicolo un pagliericcio di crine vegetale puntato,
assolutamente insufficiente anche per un corpo mingherlino come quello di
Romussi. Mancava ai piedi di mezzo braccio e bisognava addormentarsi sul fianco
e con la faccia al muro, se non si voleva cadere sull’impiantito.
- Pane!
Trasalimmo.
Era un galeotto con la catena a
parecchie maglie, accompagnato da una guardia, che andava di buco in buco a
distribuire la pagnotta.
Il pane regio - come lo
chiamavamo - parve a tutti noi immangiabile. Dovevamo avere fame, perché eravamo
ancora con l’ultima costoletta e l’ultimo risotto che avevamo mangiato al
Castello.
Romussi mi fece sapere che aveva
divorata la sua pagnotta fino all’ultima briciola. Coi suoi denti da mastino e
il suo apparecchio digestivo sempre in ordine, ne avrebbe mangiata un’altra.
Gli altri la sbriciolarono.
- Minestra!
- Uh! - sentii dire.
Era un uh! che traduceva la
nausea.
Nessuno di noi seppe ingoiare la
minestra.
Guardai che cosa mi aveva
scodellato nella gamella. Vidi una pasta che mi pareva esalasse un non so che
di tufaceo e una broda piena di scandellature gialle alla superficie. Tutto
assieme mi faceva recere.
L’afa del pomeriggio ci rendeva
inquieti e ci faceva sentire un bisogno prepotente di uscire all’aria a vedere
un po’ di cielo.
Verso sera, ci si portò una
coperta, un fiaschetto d’acqua, un catino di zinco ed un asciugatoio ruvido a
quadrettoni colorati, largo come un fazzoletto.
Alle cinque, per noi era notte
fatta. Ci augurammo la buona sera.
Mi adagiai sul pagliericcio nella
speranza di addormentarmi. La tristezza aumentava in ragione della oscurità che
andava diffondendosi nel cubicolo.
Verso le nove, sentii due mandate
all’uscio del portico.
Era la ronda.
La ronda è composta di un
sottocapo e di due guardie, una delle quali porta la lanterna fumosa e
puzzolente.
Entra in ogni cubicolo tre volte
per notte, sbatte in faccia la luce della lanterna, dà un’occhiata alla
finestra e alla ferriata e se ne va richiudendo l’uscio a chiave.
Ci vogliono dei mesi prima di
abituarsi a queste sorprese notturne.
Romussi non poteva dormire che
con dei narcotici. Gli sbatacchiamenti gli davano sui nervi.
Il secondo giorno fu più triste.
Ci eravamo alzati all’alba, chiamati dalla campana come gente che non aveva
tempo da perdere e poi ci si era lasciati nella capponaia a cellucce senza
darci un libro, senza dirci una parola, senza lasciarci sperare che
all’indomani saremmo usciti.
Bisogna proprio essere aguzzini
che gustano la voluttà dell’altrui sventura, per tenere degli infelici cento e più
ore sotto l’impressione che il sesto della loro sentenza verrà consumata in una
tana senza luce e senz’aria!
Nel cubicolo siamo rimasti due
giorni e mezzo.
Durante questo primo periodo, non
abbiamo visto che una ombra che passò dalla nostra cella con una parola per
ogni buco: coraggio!
L’ombra era il cappellano.
Uscimmo storditi. Ci palpavamo la
nuca e guardavamo il cielo come abbacinati. Erano bastati due giorni e mezzo
per solcarci le guance e imbrutirci come gente che si levasse da una sbornia
potentissima.
Ci scambiammo su per giù gli
stessi pensieri.
- Credetti di morire, sapete.
Mancavo d’aria: avevo bisogno di moto e di luce, soprattutto di luce,
soprattutto di moto, soprattutto d’aria.
Don Davide aveva avuto delle
nausee che lo avevano impensierito.
- Ci fu un momento in cui dovetti
raccogliermi e pregare il Signore Iddio.
Costantino Lazzari aveva l’aria
di uno smemorato. Si palpeggiava il collo e continuava a battere i piedi in
terra come per ridar loro la circolazione del sangue.
Ci si condusse al passeggio in un
cortiletto che sentiva del luogo. Non avevamo che uno spazio di pochi passi
inquadrato da muraglie giallognole, scrostate e sbullettate. Col dorso verso la
torricella, dalle finte finestre, che usciva da un angolo dell’edificio, vedevamo
un largo verde di Capra Zoppa. La torricella era triste e ci ricordava che in
essa erano le celle più orribili del reclusorio.
Al lato opposto della porticina
d’entrata del portico, è la muraglia con le finestruole a mezzaluna e a doppia
inferriata, dietro la quale è una filata di cubicoli.
Quante volte, durante la
passeggiata, abbiamo sentito gli inquilini dei cubicoli prorompere in pianti
dirotti!
Nella muraglia che taglia il
cortile, è un pozzo chiazzato di verde.
Le due diane dipinte sul muro
sono gli orologi solari dei reclusi. L’una segna il corso del sole dalle 7 del
mattino a mezzogiorno, ed ha per epigrafe: Sic mea vita fugit! Una
condanna atroce, dicevamo al passeggio, per i poveri prigionieri che portano
tanti problemi nella testa, e sono costretti a sciupare il tempo con le mani in
mano! L’altra, adorna dei segni dello zodiaco, si accontenta di avvisare i
galeotti al passeggio che senza sole non serve a niente: Sine sole, sileo.
Le dita della destra battute sul
palmo della mano sinistra di un sottocapo ci avvertirono che la nostra ora
d’aria era terminata.
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