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Paolo Valera
I Cannoni di bava Beccaris

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  • PARTE SECONDA
    • IL CUBICOLO
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IL CUBICOLO

 

 

 

Passando per il corridoio dei cubicoli, vidi nel secondo Chiesi, nel terzo Romussi, nel quarto Federici, e nel quinto don Davide. Credo di essere diventato pallido come un morto. Veduti col viso ai due bastoni di ferro in croce dell’uscio, mi parvero delle bestie o delle ditte di un museo di criminali. Le loro facce non erano più che grinte spaventevoli, con delle mascelle enormi, degli occhi biechi, delle fronti con tutte le stimmate del delinquente nato. Entrai nel sesto. Dopo di me, venivano Achille Ghiglioni e Costantino Lazzari.

Il cubicolo era completamente vuoto. Non vi trovai che una lastra d’ardesia, larga poco più del corpo d’un uomo, infissa nella parete a destra. Mi distesi carico di emozioni, chiudendo gli occhi come per obbliarmi. Sarebbe bastata una parola qualunque per farmi piangere. Non avevo paura, ma tutto ciò che si compiva nel silenzio di quell’attimo mi commoveva fino alla gola.

Vi rimasi assopito non so più quanti minuti. Mi risvegliai spossato. Il cubicolo era così tetro e angusto che mi ricordai delle camerucce dei famosi forni di Monza, ove i Visconti avevano scontato i loro mesi di prigionia. Per muovermi, non avevo che uno spazio di un metro e sessanta di lunghezza e un metro circa di larghezza. Era alto, con una finestrolina sopra la porta che riceveva la luce scialba del corridoio chiuso e largo poco più della tana. Per vederci malamente dovevo stare cogli occhi alla inferriata.

Nessuno dei miei compagni fiatava. Si capiva che attraversavano anche loro il momento della prostrazione.

Sentii Chiesi che domandava a Fritz come stava.

- Bene, grazie.

Nacque subito il dialogo.

Romussi: Mi pare di essere in un antro. È possibile che ci si facciano passare degli anni in questo buco?

Federici: lo tranquillava assicurandolo che la segregazione personale non poteva durare più di un sesto della pena.

Romussi: Saccorotto! Ci dici poco a vivere in questa tana per sette od otto mesi? Ho tentato di leggere col libro alla ferriata, ma ho dovuto smettere. Vi avrei lasciata la vista...

Chiamammo due o tre volte don Davide senza averne risposta. Credevamo che dormisse. Invece, il povero prete, entrato nel cubicolo, non seppe più reggere. Pianse dirottamente. Pianse nel silenzio soffocando i singhiozzi per non farsi sentire dai colleghi, pregando Dio di aiutarlo in un momento di tanta ambascia.

Io, che personalmente lo conoscevo da parecchi anni e che durante il processo avevo ribadita l’amicizia, inquieto del suo silenzio, gridai:

- Don Davide? Che cosa fate? Dormite?

Rispose con una voce cavernosa che non dormiva. Non aveva bisogno che un po’ di calma per riaversi da tutte quelle emozioni che stavano per strangolarlo.

Fummo sorpresi dalla guardia con le scarpe di cimossa, la quale ci spiava in agguato.

- Silenzio! gridò imperiosamente il secondino.

Mezz’ora dopo venne il direttore a vederci, cubicolo per cubicolo, col cappello in testa e la voce che sentiva dell’uomo abituato a parlare coi galeotti. Così fu anche in seguito. Venne sempre nella nostra camerata col cappello in testa e col linguaggio dell’uomo che vuole essere temuto e vuole essere considerato un domatore di dannati alla galera.

Uscito il direttore dal corridoio, entrò nel cubicolo un pagliericcio di crine vegetale puntato, assolutamente insufficiente anche per un corpo mingherlino come quello di Romussi. Mancava ai piedi di mezzo braccio e bisognava addormentarsi sul fianco e con la faccia al muro, se non si voleva cadere sull’impiantito.

- Pane!

Trasalimmo.

Era un galeotto con la catena a parecchie maglie, accompagnato da una guardia, che andava di buco in buco a distribuire la pagnotta.

Il pane regio - come lo chiamavamo - parve a tutti noi immangiabile. Dovevamo avere fame, perché eravamo ancora con l’ultima costoletta e l’ultimo risotto che avevamo mangiato al Castello.

Romussi mi fece sapere che aveva divorata la sua pagnotta fino all’ultima briciola. Coi suoi denti da mastino e il suo apparecchio digestivo sempre in ordine, ne avrebbe mangiata un’altra. Gli altri la sbriciolarono.

- Minestra!

- Uh! - sentii dire.

Era un uh! che traduceva la nausea.

Nessuno di noi seppe ingoiare la minestra.

Guardai che cosa mi aveva scodellato nella gamella. Vidi una pasta che mi pareva esalasse un non so che di tufaceo e una broda piena di scandellature gialle alla superficie. Tutto assieme mi faceva recere.

L’afa del pomeriggio ci rendeva inquieti e ci faceva sentire un bisogno prepotente di uscire all’aria a vedere un po’ di cielo.

Verso sera, ci si portò una coperta, un fiaschetto d’acqua, un catino di zinco ed un asciugatoio ruvido a quadrettoni colorati, largo come un fazzoletto.

Alle cinque, per noi era notte fatta. Ci augurammo la buona sera.

Mi adagiai sul pagliericcio nella speranza di addormentarmi. La tristezza aumentava in ragione della oscurità che andava diffondendosi nel cubicolo.

Verso le nove, sentii due mandate all’uscio del portico.

Era la ronda.

La ronda è composta di un sottocapo e di due guardie, una delle quali porta la lanterna fumosa e puzzolente.

Entra in ogni cubicolo tre volte per notte, sbatte in faccia la luce della lanterna, un’occhiata alla finestra e alla ferriata e se ne va richiudendo l’uscio a chiave.

Ci vogliono dei mesi prima di abituarsi a queste sorprese notturne.

Romussi non poteva dormire che con dei narcotici. Gli sbatacchiamenti gli davano sui nervi.

Il secondo giorno fu più triste. Ci eravamo alzati all’alba, chiamati dalla campana come gente che non aveva tempo da perdere e poi ci si era lasciati nella capponaia a cellucce senza darci un libro, senza dirci una parola, senza lasciarci sperare che all’indomani saremmo usciti.

Bisogna proprio essere aguzzini che gustano la voluttà dell’altrui sventura, per tenere degli infelici cento e più ore sotto l’impressione che il sesto della loro sentenza verrà consumata in una tana senza luce e senz’aria!

Nel cubicolo siamo rimasti due giorni e mezzo.

Durante questo primo periodo, non abbiamo visto che una ombra che passò dalla nostra cella con una parola per ogni buco: coraggio!

L’ombra era il cappellano.

Uscimmo storditi. Ci palpavamo la nuca e guardavamo il cielo come abbacinati. Erano bastati due giorni e mezzo per solcarci le guance e imbrutirci come gente che si levasse da una sbornia potentissima.

Ci scambiammo su per giù gli stessi pensieri.

- Credetti di morire, sapete. Mancavo d’aria: avevo bisogno di moto e di luce, soprattutto di luce, soprattutto di moto, soprattutto d’aria.

Don Davide aveva avuto delle nausee che lo avevano impensierito.

- Ci fu un momento in cui dovetti raccogliermi e pregare il Signore Iddio.

Costantino Lazzari aveva l’aria di uno smemorato. Si palpeggiava il collo e continuava a battere i piedi in terra come per ridar loro la circolazione del sangue.

Ci si condusse al passeggio in un cortiletto che sentiva del luogo. Non avevamo che uno spazio di pochi passi inquadrato da muraglie giallognole, scrostate e sbullettate. Col dorso verso la torricella, dalle finte finestre, che usciva da un angolo dell’edificio, vedevamo un largo verde di Capra Zoppa. La torricella era triste e ci ricordava che in essa erano le celle più orribili del reclusorio.

Al lato opposto della porticina d’entrata del portico, è la muraglia con le finestruole a mezzaluna e a doppia inferriata, dietro la quale è una filata di cubicoli.

Quante volte, durante la passeggiata, abbiamo sentito gli inquilini dei cubicoli prorompere in pianti dirotti!

Nella muraglia che taglia il cortile, è un pozzo chiazzato di verde.

Le due diane dipinte sul muro sono gli orologi solari dei reclusi. L’una segna il corso del sole dalle 7 del mattino a mezzogiorno, ed ha per epigrafe: Sic mea vita fugit! Una condanna atroce, dicevamo al passeggio, per i poveri prigionieri che portano tanti problemi nella testa, e sono costretti a sciupare il tempo con le mani in mano! L’altra, adorna dei segni dello zodiaco, si accontenta di avvisare i galeotti al passeggio che senza sole non serve a niente: Sine sole, sileo.

Le dita della destra battute sul palmo della mano sinistra di un sottocapo ci avvertirono che la nostra ora d’aria era terminata.


 




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