Nella quinta camerata entrammo il
27 giugno 1898. È al primo piano. Vi si sale curvando la testa nel buco di un
enorme cancello di ferro, la cui porticina è aperta e chiusa a chiave a ogni
passaggio di forzati e di reclusi da un cerbero negli abiti di guardia
carceraria. Col piede nell’antiporto che mette nell’intimità dell’edificio,
subìte la sensazione che state per essere perduti nella vasta tomba del
reclusorio. Al margine di tanti stanzoni affollati di numeri di matricola, non
sentite alito di vita. Vi sembra di essere nell’androne di un convento
spopolato. La voce di un vivo diventa sonora e vi fa rabbrividire. Dal buio
dell’antiporto, si sale a tentoni per il buio pesto di due scale, si riesce in
una specie di pianerottolo fosco come la nebbia e si sbuca in un corridoio
chiaro, in fondo al quale è la quinta camerata a fianco di altre camerate.
Vi entrammo l’uno dopo l’altro
accompagnati da una guardia e da un sottocapo. L’entrata è un altro cancello di
ferro, foderato nella parte superiore da un lastrone munito di spia, che
sopprime il di fuori fino alla distanza di un mezzo metro da terra. Di modo che
i secondini, accosciati negli angoli, possono assistere ai movimenti dei piedi,
oppure coll’occhio al buco vedere tutti i condannati che escono dalla rete del
regolamento.
La nostra camerata non ha che la
spia nella fodera del cancello. Ma le altre ne hanno due anche nelle muraglie
che le fiancheggiano.
La guardia le scopre all’insaputa
dei reclusi e li sorprende fuori di posto o a chiacchierare o a giuocare a dama
colle pedine di mollica di pane.
Di tanto in tanto la udite che
ingiunge loro di stare quieti o zitti.
- Fate silenzio, voi, numero tale,
se non volete andare in «camerella»!
La guardia di Finalborgo fa il
suo dovere senza esagerazione e senza imbestialire contro la ciurma che ha
delinquito. Ma è possibile, dite, di rimanere in un camerone di settanta o
ottanta individui per delle settimane, per dei mesi, per degli anni, con una
mano nell’altra, col pensiero istupidito, senza mai lasciarsi scappare una
parola, un’interrogazione, un grido che viene su dall’anima in un momento di
crepacuore? No, non è possibile. Me lo disse tutto il personale del
penitenziario di Dublino quando ero là a visitare i dinamitardi e gli altri
condannati alla servitù penale. La lingua non sa acconciarsi alla paralisi
completa. Me lo disse e lo scrisse il principe di Krapotkine che ha scontato la
condanna francese nella Maison centrale di Clairvaux.
«Questo sistema - diceva - è così
contrario alla natura umana che non poteva essere mantenuto che a forza di
punizioni. Nei tre anni che passai a Clairvaux, il sistema era caduto en
désuétude. Lo si era abbandonato a poco a poco, a condizione che le
conversazioni all’atelier e alla passeggiata non fossero troppo
rumorose».
Volete un documento che le
punizioni non riuscirono, né riusciranno mai a far perdere agli inquilini delle
carceri l’abitudine di parlare?
Ero al Cellulare quando il signor
Sampò prese il posto del signor Astengo. I detenuti conversavano senza vedersi,
stando alla ferriata della finestra; Il nuovo direttore si mise a infliggere
delle settimane e dei quindici giorni di pane ed acqua, con l’aggiunta magari
della cella di rigore, ai violatori del silenzio. Credete che ci sia riuscito?
Dalla conversazione di finestra
in finestra era stato eliminato il linguaggio stomachevole. Ma il chiacchierìo
era rinato pochi giorni dopo con maggior vigore di prima. E quale castigo, o
signori carcerieri, riuscirebbe mai a tappare la bocca ai prigionieri subito
dopo la sveglia e mentre squilla la campana del silenzio? Voi sentite mille
bocche in una volta che si scambiano dei buon giorno commoventi, degli addii
pieni di cuore, dei Saluti che inchiudono il «coraggio!» o il «non pensarci che
passeranno anche questi mesi!»
- Ciao, Biscella!
- Addio, Lumaghin!
- Giuliano, dormi bene!
Una sera ci sono cascato anch’io.
Un detenuto
. sopra o vicino alla mia cella si mise a gridare:
- Numero tale?
- Che cosa hai fatto?
Non risposi.
- Buona sera.
- Buona notte.
Questo semplice dialogo mi fece
affiggere sul dorso dell’uscio della mia cella che il direttore mi aveva punito
con dieci giorni di pane ed acqua!
Dopo il Cellulare, il Castello e
il cubicolo, la quinta camerata dell’ex convento dei frati, dell’ordine di san
Domenico, ci parve un paradiso. la percorrevamo in lungo e in largo con delle
fiatate di soddisfazione. Finalmente qui si respira! le pareti erano pulite,
imbiancate di fresco, con del verde che girava tutto intorno a un metro
d’altezza.
Le finestre a doppia inferriata,
coi famosi cassoni, che non ci lasciavano vedere dall’alto che un profilo di
Capra Zoppa, diventarono, per noi, delle aperture illimitate che lasciavano
entrare aria a volumi. Le brande lungo il dorso del camerone assunsero la forma
di letti elastici, con dei materassi sprimacciati, sui quali si poteva adagiare
il corpo affranto dai patimenti, con un guanciale soffice che pareva appena
uscito dalle mani del materassaio.
Guardavamo tutto con compiacenza.
Paragonavamo l’asse al disopra delle brande, che correva lungo la parete, a una
elegante guardaroba o a una comodissima dispensa. Ciascuno di noi aveva un
largo spazio per ammonticchiarvi la biancheria e i libri, per mettervi il
catinetto di zinco, la fiaschetta impagliata, la brocca per bere, la spazzola e
la pettinina, la gamella con inciso il nostro numero di matricola e la pagnotta
che ci avrebbero portata tepida due volte il giorno. Il sole completava la nostra
contentezza. Vi entrava un po’ di sbieco dalla prima finestra e veniva a
frangersi sui bastoni di ferro della seconda, lasciando cadere dei barbagli
fino al suolo e portandoci del calore e della gaiezza che si diffondeva
dappertutto.
La sola noia del luogo erano le
mosche - delle mosche grosse come quelle che vivacchiano intorno ai letami -
delle mosche pesanti che aleggiavano con un ronzìo greve, che parevano
sonnolente anche nell’aria, che si fermavano sul nostro naso, sulle nostre
orecchie, sul nostro collo, sulle nostre labbra, sulle nostre mani, senza paura
di essere schiacciate dalla nostra collera. Si cacciavano via e ritornavano a
noi con una insistenza feroce e con una ostinatezza che ci faceva perdere la
pazienza. Più e più di una volta fummo obbligati a rincorrerle e a dar loro una
caccia disperata coi fazzoletti, inseguendole fino alla inferriata. Ma era
della fatica sprecata. Ricomparivano a sciami più inviperite di prima. Erano le
nostre arpie.
In camerata non eravamo più che
delle cifre. Gustavo Chiesi era divenuto il numero 2555, Carlo Romussi il 2556,
don Davide Albertario il 2557, Bortolo Federici il 2558, Paolo Valera il 2559,
Costantino Lazzari il 2560 e Achille Ghiglione il 2561.
La prima volta che si spalancò il
nostro cancello e che entrò un sottocapo con due galeotti a fare la
distribuzione degli asciugatoi e delle lenzuola, ci fu un po’ di confusione.
Nessuno era ancora riuscito a tenersi a mente il proprio numero di matricola e
a convincersi che non eravamo più che dei numeri.
- 2555?
- Presente!
A mano a mano che si veniva
chiamati, si andava vicino al cancello a ricevere la «biancheria». Per
asciugarci la faccia e tutto il corpo, ci avevano dato una pezzuola di canape
ruvidissima, a rigoni spaventevoli, a listoni alternati, che andavano dal bigio
al cioccolato - due colori che porto nella testa con orrore. Perché sono le
striscie che rappresentano la casa di pena e riassumono l’emblema del
reclusorio. Sono i colori della camicia, i colori delle lenzuola, i colori del
saccone, i colori del tascapane, i colori delle mutande, i colori del berretto,
i colori della casacca e i colori dei calzoni.
Per tutto il tempo della condanna
non si vedono che dei clowns. Delle schiene a rigoni, delle braccia a
rigoni, delle gambe a striscie e delle teste col copricapo listato di caffè e
di bigio con dei puntini che paiono tante punzecchiature di pulci.
Il numero di matricola aveva
ingrossato il cuore di alcuni miei compagni. Romussi si era seduto sul suo
sedile di legno con le lenzuola sulle braccia l’asciugatoio in mano dicendo:
«Saccorotto!» Don Davide, di temperamento sensibilissimo, che si lascia
commuovere, o trasportare, o abbattere dagli avvenimenti, sarebbe dato fuori a
piangere se non fossimo stati presenti. Gli pareva impossibile, come diceva
lui, che un sacerdote, che indossava la veste talare da trentasei anni, questa
veste, aggiungeva, «che mi fu compagna e amica nei tempi lieti e tristi»,
potesse essere diventato il 2557, con la gamella matricolata e con la branda in
una camerata comune ch’egli doveva calare e piegare al suono di una campana!
Era inutile abbandonarci alle
malinconie. Perché non eravamo che alla titillazione del sistema. Ci
aspettavano ben altre sorprese.
Costantino Lazzari si era seduto,
come al solito, tra due brande senza dire una parola. Egli si teneva come
isolato. Non aveva confidenza in alcuno e nel suo angolo era il suo mondo. Se
qualcuno lo interrogava, rispondeva come un mastino irritato. Una volta che gli
domandai se aveva qualche dispiacere, mi rispose di occuparmi delle cose mie!
- 2559?
- Presente!
Presi la mia biancheria e me la
appesi dando in una risata che mise quasi tutti di buon umore.
Noi credevamo che nei
penitenziarii i forzati e i reclusi venissero abbandonati al rimorso dei loro misfatti,
e non vedessero che la mano incaricata di stendere loro dal buco la pagnotta,
la minestra e l’acqua. Invece, in una camerata di galera, si è come in una sala
di ufficio telegrafico. C’è sempre gente che va e viene. Alla mattina,
quando avete ancora gli occhi ingarbugliati, vi dovete mettere sul guardavoi,
nello spazio delle brande, per la «conta». Si spalanca il cancello ed entrano
tre guardie seguite da un sottocapo o da una guardia scelta che vanno fino in
fondo alla muraglia, contando, mentre passano, uno, due, tre, quattro, cinque,
sei e sette. È la consegna dei reclusi dalla guardia notturna alla guardia
diurna. Escono, si chiude e si schiude di nuovo il cancello per i reclusi che
vengono a portar via il mastello dell’acqua sporca, per il recluso che viene a
prendere il barile dell’acqua, per il forzato che vuota il «bugliolo» e il
pitalone. Il «bugliolo» è il recipiente di legno con coperchio del liquido
puzzolente. Scoperchiandolo, vi sentite in faccia la tanfata pestifera delle
uova putrefatte. Il «pitalone» delle altre camerate è un enorme mastello che
rimane negli angoli e passa per i corridoi come una cloaca. Nel reclusorio di
Finalborgo non ci sono latrine! Quando si vuotano e passano dinanzi i cancelli,
si è come in mezzo ai bonzoni dei pozzi neri che si scaricano. Il fluido
nauseabondo vi sommerge come un edificio coperto fino ai coppi di materie
fecali.
Credete di essere lasciato in
pace ed ecco il delinquente che viene col secchione del latte a mescervene
nella brocca cinque centesimi. Rimane chiuso per cinque minuti e poi si riapre
per lasciar entrare il recluso con la pagnotta.
- Pane!
State per mettervi a sedere e si
spalanca un’altra volta il cancello. È il sottocapo che batte le dita della
destra sul palmo della sinistra dicendo: aria!
Ritornati dal passeggio, viene a
farvi visita il forzato della spesa.
La spesa non durava mai meno di
quindici minuti.
Era la cosa più difficile di
questo mondo. Ogni mattina si doveva sciogliere il problema come si poteva
vivere all’indomani con 25 centesimi, se si era condannati alla reclusione come
il 2555 e il 2556, o con 35 centesimi se si era condannati alla detenzione come
gli altri numeri di matricola della nostra camerata. Il 2555 rinunciava di
solito al vino. Un quarto di vino costava nove centesimi. Era del lusso. E si
faceva registrare per due «uova al tegame» - cioè per 22 centesimi. Il resto lo
scialava in frutta.
Il 2256 non rinunziava alla
bibita. Senza una golata di vino non avrebbe saputo ingoiare tutte le porcherie
del bettolino.
La lista della spesa includeva
anche il caffè. Il 2557 e il 2559 persistettero per più di una mattina a berne
mezza razione di cinque centesimi. Ma dovettero rinunciarvi. Era un’acqua
colorata e tepida di un sapore che faceva fare gli occhiacci. Lo si inghiottiva
come una medicina disgustosa.
Il 2557 non lasciò mai il suo
mezzo litro di vino di 18 centesimi, anche quando il vino era acre o imbevibile
come l’aceto. Egli aveva uno stomaco di ferro, ma senza una goccia di vino non
avrebbe potuto digerire i piatti del menu carcerario.
Il nostro piatto di forza erano i
gnocchi di dodici centesimi conditi coll’olio, puah! che sentiva della colatura
della lucerna. Il lunedì avevamo la leccornia di 200 grammi di bue in umido per
ventotto centesimi e di 100 per quattordici. La carne era dura come il corame,
e il 2556 diceva appunto che ci volevano i suoi denti o i denti del leone per
masticarla. Nel sugo pepato, pepatissimo, bisognava mollificare il pane,
guardando altrove e mangiando a occhi chiusi. Il sugo era una miscela che
sapeva di un po’ di tutto e che diventava succolento in ragione dello
sgrassamento che si compiva in noi sotto il regime di una dieta di ferro.
Non ho veduto sbatterlo via con
indignazione che una volta.
- Aristocratico! aristocraticone!
gridammo in coro al 2558
- Bravi! guardateci in fondo!
C’era un semplice scarafaggio in
decomposizione!
Lo regalammo al forzato
latrinaio, avvertendolo della nausea in fondo.
Lo prese come un intingolo
regale, leccandosi le dita e curvandosi con la fraseologia dei ringraziamenti
sentiti. Ne avessero tutti i giorni i galeotti di queste vivande che
rifocillano lo stomaco e rincarnano gli ischeletriti!
- La nostra sentenza - ci disse -
sembrerebbe meno dura.
Il secondo moto di violenza che
ricordo fu quello del 2557. Era una domenica e indossavamo già la casacca
galeottesca. In domenica, in luogo della minestra delle undici, c’è la carne e
il brodo. Eravamo seduti al desco. Il 2557 aveva sbocconcellata un po’ di
pagnotta nel brodo, come gli altri. In un attimo lo vedemmo alzarsi con un
impeto di revulsione, suggellato da un porci! Egli si era drizzato in
piedi come un fusto d’orgoglio, aveva preso la gamella ed era andato alla spia
del cancello.
- Dite al signor direttore che
non sono un maiale! Questa carne puzza come una carogna!
Fu un sottosopra. Siccome, in
fondo, volevano tutti bene al 2557, un po’ perché era un sacerdote, un po’
perché era un bell’uomo, e un po’ perché era buono, così venne su subito il
sottocapo a constatare il reato d’incipiente putrefazione e a dirgli che gli
avrebbe mandato di sopra una sleppa di manzo eccellente.
Noi però non gli abbiamo
perdonato lo scatto che ci aveva tolto l’appetito. Il 2555 lo pregò di leggere
il «manuale del buon sacerdote» ..
- È doloroso che un secolare vi
debba richiamare ai doveri che vi impone la vostra veste. Mangiate quello che
vi portano; siate umile, siate modesto, siate paziente e perdonate a tutti
coloro che vi fanno del male. Andare sulle furie per un po’ di carne «passata»,
è da uomo volgare.
- Avevo fame! capite che avevo
fame! Ho 52 anni, sono alto e grosso e mi tocca mangiare la razione comune, la
razione della gente mingherlina, piccola, senza il mio apparecchio digestivo! È
vero o non è vero che c’è voluto più stoffa per vestirmi? È vero o non è vero
che c’è il supplemento al vitto per gli uomini della mia proporzione anche
nelle caserme? È dunque naturale che mi si dovrebbe trattare con una dieta
diversa.
- Voi vorreste dei privilegi!
- Abbasso i privilegi!
- Privilegio! gridai anch’io.
- Privilegio! Chi è mingherlino
non può mangiare come mangia un uomo dalle mie proporzioni!
Anche senza avere l’apparecchio
digestivo del 2557, in galera si patisce la fame pur avendo i mezzi per il
sopravitto. Se poi non se ne hanno, si diminuisce di peso di giorno in giorno.
Con 600 grammi di pane cento
volte inferiore a quello del soldato, e 150 grammi di pasta sempre scellerata.
un condannato si sente i crampi nello stomaco più di una volta in 24 ore. In
tutte le camerate si ripete la stessa storia:
- «Ho fame, si ha fame, abbiamo fame».
I trentacinque minorenni della
nona camerata, quasi in faccia alla nostra, ci impietosivano. E tutte le volte
che potevamo, mandavamo loro le nostre pagnotte e la nostra minestra.
Senza le nostre cinque o sei o
sette o dieci pagnotte al giorno avrebbero fatto della fame tutti i giorni.
Perché in prigione si patisce inesorabilmente la fame.
Tanto è vero che in prigione si
soffre del digiuno prolungato, che il 2556 - cioè il direttore del Secolo -
mi disse, la seconda volta che fummo al Cellulare, queste testuali
parole che trovo registrate nel mio diario:
- Una buona novità introdotta dal
direttore cav. Codebò è quella di avere diviso la distribuzione della minestra
e del pane. Certi prigionieri, giovinotti robusti, mangiavano d’un colpo i 600
grammi di pane, e alla sera si trovavano tormentati dalla fame. Egli pensò di
distribuirlo in due riprese: alle 10 e alle 3. Così pure divise la minestra
quotidiana. I detenuti, con questo sistema, hanno un cibo caldo, benefico,
specialmente d’inverno. Ma anche così si pativa. Con una quantità insufficiente
e una qualità abbominevole non era possibile uscire dal regno della fame.
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