Gli entusiasmi per la quinta camerata non potevano
durare a lungo. Chiudetemi in un salotto elegante con le inferriate a scacchi e
il cancello di ferro, e vedrete che in pochi giorni i mobili mi diventeranno
odiosi e l’ambiente senza uscita mi incendierà il cervello e mi ridurrà in un angolo
a imbecillire nella mia impotenza.
Il silenzio è obbligatorio:
disteso a caratteri neri sul fondo bianco della muraglia in faccia
al cancello, diveniva, di ora in ora, odioso e intollerabile per dei
giornalisti che avevano passata la vita tra il chiasso delle redazioni. Era una
ingiunzione che ci riduceva a una ragazzaglia di casa di correzione.
Vivere con degli amici - e degli
intellettuali come i miei compagni - è una vera consolazione e spesso anche
un’istruzione. La loro parola vi va per le orecchie come una carezza, vi
solleva lo spirito abbattuto, vi distrae e vi porta in mezzo ai ricordi
tumultuosi della loro professione battagliera. Ma sempre, sempre, senza mai un
minuto di isolamento, diventa, spesso, una pena e una tortura!
Vi fa male di vedere loro
crescere lentamente le unghie sudice senza aver modo di offrir loro la
limettina per tenerle regolate e pulite, e di assistere a tutto ciò che fuori
di galera si fa nel bagno, alla latrina, nello spogliatoio e nella stanza da
letto. E vi sentite desolati di udire la bestemmia di qualche vostro compagno
che aveva l’abitudine di lavarsi i denti collo spazzolino.
- Che male ci sarebbe - incominciava a dire
qualcuno di noi - se la direzione mi permettesse uno spazzolino e della polvere
e dell’acqua dentifricia?
- E che strappo si farebbe al
regolamento se io, prete, continuassi a indossare quella divisa di sacerdote
che io credo di non avere disonorata?
- Capisco la punizione.
- Io no, non la capisco. Se
capisco qualche cosa è la mia separazione dalla società che posso avere offesa.
La punizione che mi distrugge è un delitto. E lo griderò dai tetti, o meglio
dal giornale, non appena al largo.
- Lasciami dire. Io posso capire
la punizione. Ti va? Ma la raffinatezza di sopprimermi le sigarette se ho
l’abitudine di fumare, di mandarmi a dormire all’ora delle galline invece di
lasciarmi lavorare o studiare, di costringermi a stare sul saccone duro come
una pietra per dieci o dodici ore, di non permettermi una locomozione che mi
mantenga sano, di tenermi in piedi con una nutrizione che mi restituirà alla
mia famiglia, e alla società, idiota e incapace di guadagnarmi l’esistenza?
- Taci! C’è raffinatezza più
diabolica di quella di romperti violentemente la comunicazione epistolare con
tutto il mondo che hai conosciuto, che conosci, che ti ama e continua a volerti
bene, anche dopo la condanna dei tribunali di guerra? Raffinatezza più triste,
più sciagurata di quella di impedirti di scrivere a tua moglie, a tua madre, ai
tuoi figli, a coloro che ti amano e che ti piangono e che ti idolatrano, se non
una volta ogni tre mesi, se sei alla reclusione, o una volta al mese, se sei
alla detenzione? E anche questa lettera mensile e trimestrale non è un’altra
tortura? Tu non puoi parlare, ti si dice, che dei tuoi interessi. Non è un
interesse dire, per esempio, ai tuoi di casa di non addolorarsi perché ti si è
mandato alla reclusione innocente? No, perché insulteresti la giustizia. Non è
un interesse parlare di ciò che fai e di ciò che vedi, della tua salute, se
stai bene o male? No, perché il condannato non deve parlare di quello che
avviene nella casa di pena!
Più di una volta, io e don Davide
abbiamo dovuto discendere in direzione a riprenderci la lettera coll’ordine di
riscriverla senza qualche frase contraria al regolamento. Per due settimane ero
stato malaccio. Mi sentivo debole e non sapevo più digerire la pagnotta e la
pasta del penitenziario. Scrissi nella lettera della mia indisposizione,
aggiungendo «che adesso stavo bene». Si poteva essere più modesti? La direzione
trovò modo di farmela rifare.
- Non le pare, signor direttore,
o signor capo, che questa sia una notizia di carattere intimo?
- No, perché il recluso non deve
occuparsi di ciò che avviene nel reclusorio.
- Aguzzini! gridai mentalmente.
Aguzzini!
E le lettere che ci pervenivano
dal di fuori? Bastava un accenno alla vita pubblica, un alito dell’agitazione
che si faceva a favore dei condannati, un’allusione a una prossima amnistia,
una frase ministeriale, il pensiero di un deputato, l’opinione di un giornale,
perché la mano della direzione corresse sul delitto con la penna carica di
inchiostro a coprire tutto di nero. Ho veduto delle lettere piene di chiazze,
piene di rigoni che sgrammaticavano la dicitura o sopprimevano le parole che
potevano suscitare delle speranze o lasciar trapelare la commozione pubblica.
Qualche volta la mano diventava
brutale e allora recideva il foglio alla testa o alle gambe o lo metteva
spietatamente in un cassetto senza neanche dire crepa al numero di matricola al
quale era indirizzato!
Una scena che avrebbe fatto
piangere gli amici, se avessero potuto mettere l’occhio alla spia della nostra
camerata, era quella dei pasti dei primi tempi. Gli abiti dei sette amici, che
aspettavano il monosillabo della Cassazione per uscire o per indossare la
casacca galeottesca, si erano consumati e malconciati. C’erano delle maniche
sdrucite, dei calzoni sfilacciati agli orli, degli occhielli sfatti o che si
sfacevano, delle ginocchia e dei gomiti lucidi o maculati di larghi oleosi e
dei baveri sui quali si era andata accumulando la forfora di una cute che
nessun parrucchiere spazzolava da un pezzo.
Don Davide pareva uno di quei
preti descritti dal Porta. Colla veste piena di macchie, colle calze rotte,
colle brache stralucide che perdevano, col nero, dei brandelli, e con la
collarina inamidata da tanto tempo che lasciava vedere il giallo delle
trasudazioni del collo.
Abituati al tovagliolo e alla
posata lucente sul candore diffuso per la tavola, la mobilia della nostra sala
da pranzo si riduceva a una lunga panca dalla quale sbucavano, di tanto in
tanto, gli insetti rossicci che la povera gente chiama cimici, e a dei sedili
di legno rotondi, le cui capocchie laceravano di frequente i calzoni
dell’avvocato Romussi. Mettevamo la panca vicino alla seconda finestra e
sedevamo quattro da una parte e tre dall’altra. Coi tozzi di pane sparsi qua e
là lungo la panca, colla gamella fumante sul palmo della mano sinistra! e un
moncone di cucchiaio di legno greggio col quale tentavamo di sbasoffiar via una
pasta scondita o condita fino al disgusto, potevamo essere copiati per un
mucchio di pitocchi di frateria che si scalda lo stomaco colla minestra del
convento.
Ho parlato delle cimici, perché
ne ho trovate dappertutto. Nei camerotti polizieschi, nelle celle del Cellulare
di Milano, nelle stanze del carcere giudiziario di Genova e nello stanzone del
penitenziario di Finalborgo. Dopo la condanna, il Turati occupava, al
Cellulare, una stanza spaziosa e ariosa nell’esagono del secondo raggio. Io, De
Andreis, Romussi e Federici passavamo parte della giornata con lui. Nessuno di
noi poteva adagiarsi sul suo letto a pagamento, senza che venissero alla
superficie filate di queste schifose bestioline che fanno pancia col vostro
sangue. Mi diceva Turati che di notte sciupava il tempo con questi
puzzolentissimi insetti che non lo lasciavano dormire. Tre o quattro giorni
prima che andasse alla reclusione, il direttore, impressionato dal suo
tormento, gli fece imbiancare il cellone e passare alle fiamme il letto di ferro.
- Ne ho trovate, ci diceva lo
scopino incaricato di farli morire col fuoco, a nidiate. Morivano mandando
un’odore pestilenziale che mi dava le vertigini.
Un’ora dopo questo nettamento e
questa pulitura, ne vedemmo tre che andavano via, pian piano, per il cuscino!
Nelle vecchie carceri di Genova
non mi sono fermato che 15 ore. Se vi fossi rimasto di più, ne sarei uscito
dissanguato. Venivano fuori a frotte.
Il soffitto ne era pieno e negli
angoli delle pareti si potevano prendere a manate. Alla notte, per paura che mi
andassero nelle orecchie, o su per il naso, o in bocca, fui costretto ad
alzarmi. Il letto ne formicolava. Potevo coglierle a manate al buio. Sdraiato
non mi lasciavano quieto. Le mie mani precipitavano sulle gambe, sul petto, e
le rincorrevano per il corpo senza riuscire mai a liberarmene. Come erano
spietate le cimici del carcere giudiziario di Genova! In questo carcere
maledetto, non ebbi coraggio di mangiare, ma ebbi l’imprudenza di comandare un
caffè. Ritirandolo dal buco dell’uscio me ne caddero tre nella chicchera e due
nel piattino. Buttai via la bevanda dal disgusto.
Nello stanzone di Finalborgo
formicolavano per i cornicioni, si sorprendevano sulle pareti, si trovavano in
letto, nelle screpolature dei muri, nelle commessure delle finestre, e perfino
nelle crepe del tavolo.
L’ambiente ha una grande
influenza sugli individui. Anche l’uomo cresciuto nella reggia, nelle tombe
penali diventa, a poco a poco, un porco. Dopo due o tre mesi non è più
schifiltoso e non si meraviglia più di nulla. Si abitua a mangiare le cose meno
mangiative o più repulsive con le mani, a pulirsi le dite nella giacca, a
vedersi gli orli delle unghie calcate di sudicerie nere, a lavarsi
maledettamente male in un cucchiaio d’acqua senza sentirsi invaso dal malessere,
a considerare i pidocchi come amici di casa e a prendere delicatamente le
cimici senza contorsioni e travolgimenti d’occhi.
Se volete convincervi che
l’ambiente agisce potentemente sull’individuo, invitate un ex recluso a pranzo.
Osservatelo attentamente quando mangia e lo sorprenderete più di una volta in
flagrante violazione delle regole più comuni della persona allevata bene.
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