L’uguaglianza di trattamento non
impediva ai forzati di avere una grande simpatia per gli inquilini della quinta
camerata e di manifestarla tutte le volte che capitava loro l’occasione. Alla
mattina e alla sera, per esempio, venti o trenta forzati addetti ai lavori del
reclusorio passeggiavano nel cortile sotto le nostre finestre. Il tintinnìo
delle loro catene ci chiamava al davanzale, cogli occhi tra il cassone e la
ferriata. E loro, passeggiando, con dei cenni rapidi, con degli inchini che
nessuno, all’infuori di noi, poteva avvertire, con dei palpeggiamenti di
berretta che parevan grattamenti di capo, con dei rovesci d’occhi che mi andavano
al cuore, o dei movimenti di labbra che sfuggivano alla sorveglianza, ci
salutavano, ci davano il buon giorno e la buona sera, ci infondevano coraggio e
ci traducevano la loro impotenza a fare qualche cosa per noi.
La loro passeggiata era per me
uno studio. Notavo il loro modo di andare in su e in giù e chiamavo Romussi e
don Davide Albertario a constatare che il loro passo rivelava il galeotto.
Dimostravo loro come un Jean Valjean avrebbe potuto essere scoperto dal segugio
di polizia anche vent’anni dopo, vestito con eleganza, in una sala immensa
affollata di signori che la percorressero conversando.
Si vedeva che il piede, il quale
aveva l’anellone della catena appesa al fianco o attorcigliata intorno la
caviglia, indugiava uno zinzino più dell’altro a muoversi, e sfiorava assai più
il suolo del sinistro, come se l’uno dei due fosse carico di piombo. Aggiungevo
un’altra osservazione sui passi. Nei passi è l’uomo che è stato in branca, cioè
incatenato con un altro per degli anni e costretto a esercitare le gambe in uno
spazio di pochi metri. Contraggono un’abitudine indimenticabile. Adesso che
sono disgiunti e che è a loro disposizione un terreno venti volte più largo
della cella, consumano l’ora di passeggio come prima, gomito contro gomito, con
un movimento di tre o quattro passi avanti e indietro, voltandosi come quando
erano appaiati, cioè senza urtarsi e senza spostarsi.
I tipi di forzati, che abbiamo
conosciuto più da vicino e che possiamo presentare al pubblico come nostri
amici, erano i «mozzi» o coloro che adempivano alle funzioni domestiche. Il 129
era il latrinaio - un galeotto che riassumeva il suo delitto come un grande
artista. Si passava la mano sulla fronte e lo paragonava a «un temporale», a
«una notte buia», a «una tempesta». Fu l’uragano dei sensi che gli fece
recidere la gola alla padrona ch’egli serviva come cocchiere a Ferrara. Egli la
voleva o viva o morta. E se la baciò durante il «temporale» tepida ancora di
vita, con gli occhi spalancati che pareva una strega. Egli è ormai tranquillo e
non pensa più, come gli altri, a rientrare nel mondo dal quale venne scacciato.
Per lui, «stare qui o altrove, è lo stesso. In qualche luogo, mi diceva,
bisogna stare».
Veduto da vicino, con gli occhi
nelle buche della sua faccia massiccia e larga, si prova la repulsione di chi
si sente a tu per tu con un sanguinario. Dalle sue linee facciali sbuca il
violento, ghiotto dell’altro sesso. Ha delle occhiate diaboliche, lambite dalle
rughettine che infittiscono e si gonfiano quando spalanca la bocca per la risata
che pare uno scroscio. Le sue mandibole voluminose completano l’orrore con la
zucca enorme, calva alla superficie, leggermente schiacciata alle pareti.
Intorno alle sue labbra carnose,
è diffuso il cinismo che si prolunga fino alla radice del naso, dove incomincia
una fronte spaziosa, fuggente, giallognola, la quale si increspa ogni volta che
parla. Ha le gambe arcuate ed ha sempre fame. Tutte le volte che veniva nella
nostra camerata gli davamo parecchie pagnotte.
Veduto da lontano, immobile, nel
sole, con le mani sulle reni e le pupille velate o addormentate nel fondo
cristallino, ha l’aria di un uomo impagliato.
Un altro tipo curioso sotto
parecchi aspetti, era l’infermiere che veniva nella nostra camerata nei
pomeriggi della caldura a inaffiarla di acido antisettico per tentare di
salvarci dalle mosche inique e dalle cimici implacabili. È un forzato di cuore,
che si trova in galera per avere creduto nella fedeltà della donna. È piccolo,
tozzo, giallastro, con una fronte bassa, rugosa e senza fughe, con delle
pupille che stanno spegnendosi nelle occhiaie fonde, con un naso camuso, delle
guance che incominciano a piegarsi e a incresparsi come cortine vecchie e una
bocca che spalanca una voragine di fuoco pallido e lascia vedere le gengive
quasi sguernite.
Non ci fu ammalato che non mi
abbia parlato con entusiasmo di questa perla di condannato che nessun direttore
o capo guardia è mai riuscito a punire in ventisette anni di carriera dolorosa.
Me lo si raccomandava dicendomi che in infermeria, senza di lui, si poteva
morire.
Egli è una suora di carità, un
fratello che va dovunque si soffre. Accorre al letto degli infermi con
sollecitudine materna, si alza di notte se qualcuno si sente male, e, con quel
poco che il medico mette a sua disposizione, cerca di lenire i dolori altrui.
Avete la schiena tormentata dai reumatismi? È la sua mano che viene a
battervela, a spalmarvela di una goccia d’olio come un allievo del professor
Panzeri, o a pennelleggiarvela magari con della tintura di iodio, se ne ha
nell’armadio e se il medico lo ha ordinato. Avete un dente che vi strazia?
Eccolo pronto con la tenaglia. Non è un cavadenti di professione, ma ha la
praticaccia del frate che sdenta il pubblico senza passare gli esami.
Per provare la bontà del 193, non
ho da citare che tre testimoni che non lo dimenticheranno facilmente. Gaspare
Giucchetto, minorenne, Giovanni Vedani, di 32 anni, e Angelo Vanoni di Luino,
come il Vedani, e padre di tanti figli.
Il primo aveva ricevuto una palla
al petto con lesione, pare, al polmone; il secondo era stato colpito allo
stinco, e il terzo aveva lo stomaco perforato nel corpo. Io li ho veduti in
infermeria, subito dopo il loro arrivo. Erano giunti a Finalborgo in una
condizione da commuovere le pietre. Straziati dai dolori, con le ferite ancora
aperte e col Vedani che non poteva e non può, credo, neppure oggi, stare in
piedi, perché la ferita continua a produrre materia purulenta.
In una infermeria, dove non ci
sono che alcuni letti, una cassetta di polverine, un vasetto di tintura di iodio
e della liquerizia per i catarri stomacali e le tossi che non lasciano dormire,
anche un infermiere come il 193 non può fare molto. Ma li curava da cristiano,
lavando, fasciando loro le ferite, aiutandoli a mangiare, curvandosi a ogni
minuto per spostare la gamba al Vedani, la testa al Giucchetto e le spalle a
Vanoni, il quale Vanoni era diventato tetro, perseguitato dal pensiero che il
suo polmone fosse stato toccato dal proiettile. Mi diceva che «si sentiva il
polmone in sussulto».
Il Gaspare Giucchetto portava il
numero di matricola 2749; il Giovanni Vedani il 2731, e l’Angelo Vanoni il
2747.
Don Davide Albertario non è stato
in infermeria che quattro o cinque giorni a trangugiare due o tre drastici per
liberarsi da una tenia che noi chiamavamo, per ridere, un «serpente boa» ..
Il direttore dell’Osservatore
Cattolico ritornò nella quinta camerata pieno di entusiasmo per il 193 che
lo aveva curato come una madre. Gli stava alle calcagna quando era in piedi,
gli andava intorno quando era nell’altra stanza a scrivere e sedeva di notte,
per delle ore, vicino al suo letto, a vegliare i suoi movimenti.
Il 193 è vecchio, è nelle mani
della giustizia dal 25 luglio 1873 e la sua condotta è sempre stata
irreprensibile. Se io fossi nel ministro di grazia e giustizia direi: basta! E
lo lascerei andare al suo paese di Ariano di Puglia, a morire in santa pace,
sotto gli occhi di sua sorella, che gli vuol bene, tanto bene.
Il nostro barbiere era un altro
omicida, condannato a trenta anni. Nel reclusorio sembrava mite, gentile,
afflitto soltanto di trovarsi in mezzo a tanta zavorra umana. Era pallido,
emaciato, colle sfumature, intorno gli occhi, degli individui che portano nei
polmoni i bacilli della morte. I suoi colpettini di tosse mi davano la
sensazione penosa di essere accanto a un moribondo. La sua faccia era repulsiva
per la carne scrofolosa gualcita dal coltello anatomico, per le contrazioni che
gli avevano lasciato il segno sulle guance scarne e sulle palpebre rosse e
senza peli.
Ci considerava uomini superiori e
ci radeva con una delicatezza femminile, raccontandoci sovente il suo amore
sventurato.
A diciannove anni si era
ammogliato con una giovane che ne aveva diciotto. Dopo la cerimonia nuziale la
sposa gli raccontò che un altro - un «civile» - l’aveva delibata a tredici.
Fu una notte burrascosa quella
della sua confessione. La poveretta gli buttava le braccia al collo piangendo
dirottamente e gli domandava perdono. La colpa non era stata sua. A tredici
anni non si ha la testa e una ragazza si lascia saccheggiare della verginità
come un viandante dai malandrini. Lui la consolò con una sfuriata di baci,
impromettendosi di obbligare il «civile» a farle la dote. Chi rompe paga, era
la sua morale. All’indomani andò a trovare il «ganzo» e a dirgli come stavano le
cose.
Il «civile» promise di pagare. Ma
i denari non venivano mai. Allora ritornò a ripicchiare allo stesso uscio e a
esigere la promessa. Il «civile» gli rise in faccia.
- Adesso che l’hai, tienila!
Gli «calò una benda sugli occhi»
e lo uccise come un dissoluto malvagio.
- Il mio dolore massimo è di
essere stato creduto capace di premeditare il delitto.
«Ero andato da lui per
riscuotere, non per ammazzarlo. Il mio fu un impeto di passione. Lo dissi al
presidente del mio processo».
Ora ne era pentito. Non potendo
andare dalla famiglia, come fra Cristoforo, a domandarle perdono, le mandò una
lettera bagnata delle sue lagrime.
- La famiglia mi ha perdonato, il
parroco del mio paese lo ha fatto sapere a tutti dal pulpito, ma il governo
tace ancora. Ah, è duro il governo coi poveri condannati! Una volta che siamo
pentiti dovrebbe permetterci di riabilitarci. Invece ci lascia morire in galera
o ci manda fuori quando non siamo più che dei carcami da ricoveri.
«Porto la catena e la giacca
rossa da diciannove anni e morirò forse in galera. Sia fatta la volontà di Dio!
Ma mi dispiace, credano, di non rivedere più il mio paese!»
E il dolore gli fece sputare del
catarro sanguinoso.
Il sei settembre, il giorno in
cui ci rase i baffi, era commosso come un minorenne perduto, nel buco di una
cella di rigore. Egli sapeva che cosa volevano dire questi crepacuori. Nei
baffi era l’uomo. Radendoli, radeva il cittadino e non lasciava dietro il
rasoio che un numero di matricola.
Eravamo in sette e l’operazione
durò più di un’ora. Andammo uno dietro l’altro dal barbitonsore, senza dirci
una parola. Ciascuno di noi sembrava compreso del sacrificio, tranne forse
Gustavo Chiesi, il quale conservò sempre l’attitudine dello stoico. Sotto il
rasoio a più d’uno di noi si riempirono gli occhi. Federici e don Davide furono
del numero. Non si aveva paura, nessuno pensava alla paura, ma l’emozione, più
forte di tutti, rompeva la diga.
Mentre mi si radeva, con la
guardia carceraria seduta in faccia, mi venivano le lagrime in bocca come a un
bimbo sculacciato!
- Coraggio! diceva a ciascuno di
noi il barbiere. I baffi e la barba ricresceranno più vigorosi di prima.
- E voi, don Davide, gli domandai
qualche giorno dopo, perché avete pianto, se non avete mai avuto baffi e se vi
facevate radere il labbro superiore anche prima?
- Perché mi si infliggeva una
punizione infamante. Perché mi si riduceva il 2557.
Dall’emozione profonda passammo
all’ilarità clamorosa. A mano a mano che uno di noi rientrava nel camerone con
la faccia galeottizzata, si scoppiava in una risata sonora. Sembravamo dei
mostri. Salve le proporzioni individuali e la voce, potevamo benissimo
scambiarci per dei galeotti sconosciuti.
Il solo che non avesse alterato
la figura era il sacerdote. Gli altri pareva che fossero stati in un’altra stanza
a truccarsi o a cambiarsi la testa.
Gustavo Chiesi, grasso e grosso,
aveva del frate Melitone. Il buon Suzzani - che si chiamava, con compiacenza,
«compagno di Carlo Marx» - aveva assunta l’aria d’un abatino pieno di modestia.
Costantino Lazzari era uscito dalle mani del parrucchiere una edizione
peggiorata. L’avvocato Federici si era trasformato in un santocchione che
sginocchia per le chiese. Ghiglione era ritornato in mezzo a noi come un
uccello di rapina. Il suo naso lungo si era prolungato e la punta appariva più
adunca di prima. I peli scomparsi dalla guancia sinistra gli avevano lasciato
all’aria una prominenza che gli delinquentizzava la faccia.
Il nostro barbiere è nato sotto
una cattiva stella. Egli ci sbarbava direi quasi con orgoglio. Considerava il
sabato il più bel giorno della sua vita, perché poteva scambiare qualche parola
con noi. Ma venne il giorno triste della partenza. Il direttore lo aveva
destinato per il reclusorio di Finalmarina. Trovò modo di venirci a salutare.
Strinse la mano a ciascuno di noi con la voce che tremava. Addio, si ricordino
di me, del povero barbiere pentito del suo fallo. E lo sentimmo che si
allontanava col singhiozzo che egli tentava di soffocare nel fazzoletto a
quadrettoni.
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