Il mio viaggio da Finalborgo a
Milano, per subire un altro processo, mi ha dato modo di studiare una delle
pagine più dolorose della vitaccia del bestiame che passa da una galera
all’altra.
Ricordo tutto, come se fosse
adesso. Era il 27 luglio, una giornata afosa. Io e alcuni abitanti della quinta
camerata stavamo con la gamella capovolta, sul mastello dell’acqua sporca, per
lasciar colare la pasta dalla brodaglia maculata di scandellature.
Entrò il sottocapo Osmiani a
scompigliarci. Era l’uomo più serio del personale di custodia. Non sciupava
parole. Ci chiamava guardando in terra e tenendo l’indice della sinistra
in alto.
- 2559!
- Presente!
Ero già pronto. Mi lasciai
baciare teneramente dagli amici, presi il fagotto sotto il braccio e uscii con
la gola rasa di commozione. Per evitare il disastro di una gita galeottesca
avevo fatto di tutto. Avevo detto al direttore che soffrivo e che non ero in
grado di rimettermi in un vagone cellulare. Ma non ci fu verso. Il medico, dopo
avermi palpeggiato, come se fossi stato di straccio, mi trovò sanissimo.
Il mio compagno di viaggio era
uno della «rivoluzione». Egli era stato colto in piazza di Luino durante i
tumulti e condannato dal tribunale militare a sei anni di reclusione.
- Vi rincresce?
- Sì, perché sono
innocente e perché ero l’aiuto dei miei genitori.
Facemmo la strada a piedi. I
veicoli ci empivano gli occhi e la bocca di polverone bianco e la gente voltava
via la faccia inorridita. Un nugolo di studentesse sull’omnibus a giardiniera
ci fece venire le vampe della vergogna alla faccia.
- Come sono brutti!
E non avevano torto. Il più bel
giovine d’Italia, che esca da un reclusorio, spaventa. In pochi mesi il
reclusorio te lo rende irriconoscibile.
Eravamo giunti tre quarti d’ora
prima del treno. Ne ero contentissimo. Era dell’aria fresca guadagnata. I
carabinieri, invece di chiuderci nella stanza di sicurezza, ci lasciarono sul
margine del binario della stazione. Grazie! Ebbi tempo di fumare tre sigarette.
In questo frattempo, vennero alla mia volta alcuni signori a domandarmi se ero
il tale.
- Sissignori, risposi a colui che
mi aveva interrogato.
I signori si tolsero il cappello
e si curvarono leggermente.
- Scusino, dissi loro, commosso;
ma io non li conosco.
- Non importa. Noi sappiamo chi è
lei.
Rimasero lungo il binario fino
alla partenza del treno, salutandomi con un’altra scappellata.
Il vagone cellulare del mio
secondo viaggio apparteneva al tipo vecchio. Era composto di venti celle,
divise da un piccolo corridoio longitudinale, con un largo all’entrata per i
rappresentanti dell’arma regia.
Una volta entrati, si è sommersi
nella penombra anche col sole allo zenit, perché non ci sono finestre alle
pareti dei fianchi.
La cella era più angusta e più
nauseosa di quella che mi aveva condotto nel reclusorio. Col sedile di legno e
con le pareti insudiciate di sputacchi e di mucillaggine nasale, mi sentivo in
una cassa da morto in piedi, con un traversino sotto il sedere. Il legno mi
accarezzava dappertutto. I piedi stavano più male. Si trovavano sopra uno
strato molle e viscido e non potevo alzarli. Per quanto facessi, non riuscivo a
tener su le ginocchia sull’uscio. Si respirava l’atmosfera riscaldata
dall’alito dei detenuti.
Lo sfiatatoio era il contrario di
un conduttore d’aria. Si crepava dal caldo e i malviventi imploravano un sorso
d’acqua. Non so da dove venivano perché a tutte le stazioni se ne caricavano e
in alcune se ne scaricavano.
Il brigadiere che aveva in consegna
le stie, era un uomo tarchiato con una faccia da simpaticone. Quando gli si
diceva di essere buono e di provvedere gli assetati di un fiasco d’acqua,
andava sulle furie dicendo che non voleva essere buono. I buoni non facevano
carriera e lui era già sulla lista dei futuri marescialli.
- Consideratemi cattivo e mi
troverete buonissimo.
E io, davvero, ero della sua
opinione. In fondo alla mia nicchia, lo consideravo uno di quegli arnesi di
sentina che godono a far patire la gente tribolata, come godevano i carabinieri
dell’Andalusia del 1893-94, i quali davano pane e merluzzo ai morenti di sete e
nerbate a coloro che desistevano dal correre intorno la stanza giorno e notte!
Un po’ più in là, dovetti
ricredermi. Egli non era la iena che supponevo. A una stazione intorno il collo
della riviera di levante, si era lasciato impietosire da tutte le voci che gli
dicevano:
- Sia buono, signor brigadiere!
E mi ha fatto piacere. Perché è
sempre una consolazione sapere che un uomo rinsavisce o si stanca del piacere
di torturare gli impotenti.
Il brigadiere fece discendere il
carabiniere a riempire il fiasco e ordinò che se ne desse una golata a
ciascuno.
Per dissetarvi, il carabiniere è
obbligato ad aprire la cella con un catenaccio che cigola dalla ruggine e non scorre
che con dei calci, e a versarvi l’acqua in gola. Se il carabiniere non è
gentile, il liquido gorgoglia, trabocca dalle labbra e va giù a biscia per lo
stomaco. Io avevo sete, ma non ho voluto suggere al cannello comune. Pensavo
alla infezione. Ma ho dovuto pentirmene. Un’ora dopo mi sarei lasciato
inaffiare il gorgozzule anche da un cannello imbrattato dalle labbra di una
generazione!
Lungo il tragitto è avvenuta una
delle solite scene stomachevoli di questi trasporti. Un poveraccio in
traduzione si sentiva incalzato da una urgenza corporale.
- Signor brigadiere, mi faccia
smanettare che non ne posso proprio più.
- Fate silenzio o vi metterò le
catene ai piedi!
Sul pavimento della celluccia,
Sono gli anelli infissi nel pavimento per incatenare i furiosi o i pericolosi o
i prepotenti.
Il galeotto turturato dai dolori
di pancia era vicino alla mia cella. Udivo che si moveva e si lamentava.
Qualche minuto dopo, l’ambiente
era pestifero. Il miserabile si era sgravato come aveva potuto.
Gli inquilini gli diedero
dell’animale a braccio di panno e del porco senza fine, ma lui si difese
dicendo che si fa presto a rimproverare quando non si è nella stessa
condizione.
I discorsi che si facevano erano
noiosissimi. I condannati non si occupano che di pane, di reclusori, di
regolamenti, di minestra, di punizioni, di guardie buone e cattive e di
direttori con o senza peli sullo stomaco. Per me, erano però discorsi
utilissimi. Perché mi rivelavano la vita intima del detenuto. Il mio vis-à-vis,
per esempio, raccontava che le giornate di traduzione volevano dire, per
loro, la fame completa..
«Di solito, diceva, ci si fa
partire dal carcere alle quattro antimeridiane con una pagnotta di seicento
grammi di pane stantio, e nessuno pensa più a noi se non all’indomani per darci
un’altra pagnotta e rimetterci in viaggio. Se la si dimenticasse nel vagone o
la si perdesse mentre si va dall’omnibus al vagone, felicenotte. Bisognerebbe
rimanere digiuni fino all’altra distribuzione. Non si capisce perché il
trasloco da una galera all’altra faccia perdere il diritto alla minestra.
«La gente onesta che viaggia
tutto il giorno, quando arriva, si mette a tavola e si ristora con dell’acqua
fresca sulla faccia e un buon pranzo inaffiato bene. Noi galeotti arriviamo, ci
si registra e ci si chiude in una stanzaccia con quattro o cinque pagliericci
in terra. Tutta la nostra consolazione è un secchio d’acqua nell’angolo, stato
riempito magari il giorno prima. Quando sono nel penitenziario ho diritto, coi
miei denari, a una spesa di cose mangerecce di venticinque centesimi. Perché il
viaggio mi fa perdere questo diritto?»
E il condannato concluse dicendo
che le giornate di traduzione sono, per il ventre del recluso, le più
desolanti. Lo si dimentica.
A Genova ci si fece discendere
dopo che il treno si era vuotato. Ci dovevano essere, col nostro, altri vagoni
cellulari, perché la «catena» si era ingrossata. Potevamo essere una
cinquantina, compresa una reclusa. La donna, che aveva le mani slegate, non era
trattenuta dal giro della catena comune. Ci seguiva. Era una donna brutta,
bassotta, con tanti capelli neri e con le labbra sottili della sanguinaria. La
maggioranza era in borghese, in viaggio per la casa di espiazione. I reclusi,
col loro abito carnevalesco, colorivano la scena, e i galeotti, col tintinnìo
della catena che penzolava loro dal fianco, la intetravano. Tutti assieme,
circondati da un nugolo di carabinieri, facevamo paura. Sembravamo il rifiuto
delle classi sociali. Una banda di ladri e di assassini stati colti con le mani
nel sangue delle vittime. C’erano grinte che facevano rabbrividire anche me che
vi avevo fatto l’occhio.
Fuori della stazione ci aspettava
una folla enorme. Passammo tra i commenti degli spettatori e filammo, in linea,
per tre o quattrocento passi, fin dove ci aspettavano i veicoli.
Le vetture erano meno crudeli
delle carrozze cellulari. Erano omnibus lunghi, a giardiniera, col tendone che
giungeva a filo dell’orlo del veicolo. Col tendone legato alla sponda, non
potevamo vedere, curvandoci, che i sassi o le pietre della strada e il lucido
del mare conturbato quando lo rasentavamo. Eravamo pigiati, quasi l’uno
sull’altro, ma rinfrescati, di tanto in tanto, da una buffata d’aria marina.
L’impressione che si subiva era
però più spaventevole di quella di essere chiusi nel carrozzone cellulare.
Perché quando il veicolo passava sui sassi metteva in rivoluzione le budella e
quando sterzava pareva che stesse per riversarci nella via sottostante o nel
mare.
A un certo punto, i cavalli
smisero il trotto. La salita era divenuta faticosa e i vetturali facevano
schioccare la frusta. Nessuno dei miei colleghi aveva mai fatto tappa al
carcere giudiziario di Genova e così nessuno sapeva se era lontano o vicino.
Dalla salita, credevamo tutti che fosse fuori, lontano qualche miglio dalla cinta
cittadina. Mentre si facevano queste supposizioni, sentimmo le voci che
fermarono i cavalli. ..
La discesa fu più difficile.
Uscendo dal buio, col fagotto nella mano legata con l’altra, e la catena
intorno all’ascella tirata da quelli che precedono e seguono, si mette il piede
sul predellino con la paura di scavigliare o di ruzzolare sul selciato.
Nella luce dei lampioni foschi e
delle fiamme libere dei becchi a gas delle botteghe che sembravano cave, ero
come disorientato. Ci volle uno strappo di catena per convincermi che facevo
parte del convoglio di galera. La via era ripida e tortuosa. Si saliva
lentamente e si passava attraverso ondate di luce sfacciata. La gente del
quartiere non sembrava interessata di una «catena» che indubbiamente assomigliava
alle altre degli altri giorni. Le donne rimanevano sedute in terra dinanzi la
porta delle loro abitazioni o sul gradino all’entrata dei loro negozi, e gli
uomini, in manica di camicia, continuavano a pipare e a chiacchierare tra di
loro senza degnarci di un’occhiata. Carichi del fagotto, con la catenella che
tirava ora indietro e ora innanzi, si saliva sudando. Al secondo svolto di via,
incontrammo due portatrici con due pesi enormi sul capo che facevano tremolare
i loro fianchi possenti. Non abituato a vedere le teste femminili calcate alla
superficie da un quintale di roba, mi parve di passare attraverso un popolo
barbaro che delle donne facesse dei ronzini.
Arrivai in faccia a un portone
spalancato e sormontato dallo stemma del carcere giudiziario, con la lingua che
penzolava dai denti come quella di un cane. Ero digiuno, con la bocca secca. La
lingua mi sembrava un pezzo di carne dalla pelle ruvida in bocca come un
castigo. A sinistra dell’entrata, era un tubetto di ottone che usciva arcuato
dal muro e lasciava cadere una colonnuccia d’acqua. Il rumore della caduta
sulla pietra decompose la catena. Malgrado gli ordini imperiosi dei carabinieri
che avevano fretta di sbarazzarsi di noi per andare a cena, nessuno volle
muoversi prima di essersi saziato di acqua fresca. Quando venne la mia volta,
rimasi disilluso. Per la mia bocca, era un’acqua di un sapore marcioso. Dopo
una risciacquata e una golata, la buttai in terra come se fosse stato un
liquido avvelenato. Puah!
Lo smanettamento, la consegna
delle buste coi denari e la registrazione dei detenuti durò una buona mezz’ora.
I viaggiatori sembravano stracchi morti. Nessuno diceva una parola. Qualcuno
sbocconcellava la pagnotta e qualche altro rimaneva in piedi. Io fui l’ultimo,
perché mi ero posto dietro tutti, sulla panca in giro dello stanzone immenso.
Mi si conosceva di nome e questo mi suscitava la speranza che avrei potuto
indurli a farmi comperare qualche vivanda per la cena. Ma era troppo tardi.
Erano quasi le nove. E i detenuti, a quest’ora, dovevano avere la pancia piena.
Se avessero potuto aiutarmi, lo avrebbero fatto volentieri. La sola cosa, che
potevano fare per me, era di mettermi in una stanza solo e di offrirmi un
bicchiere d’acqua fresca con del limone del loro fiasco. Accettai tutto con dei
grazie e mi lasciai condurre di sopra da un secondino che mi aperse e mi chiuse
in una stanza.
Delle cimici che divoravano il
soffitto, annerivano le pareti e muovevano il pagliericcio, ho già parlato.
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