È una donna nuova. Imbevuta di
idee proibite, uscì dalla società dello zar come una rivoltosa che non ha paura
di stroncare i legami che la legano al mondo pieno di pregiudizi e di
ingiustizie. Fortificata dall’esempio delle nichiliste delle classi superiori
del suo tempo, le quali abbandonavano la casa patema come le mogli del teatro
di Ibsen abbandonano la casa maritale, Anna Kuliscioff, consumato il periodo
della propaganda pratica per la campagna russa, si avviò verso l’esilio, con
l’anima piena di negazioni, con la fede nell’avvenire, determinata a compiere
la sua evoluzione intellettuale in mezzo alla gente latina in lotta per la
rigenerazione sociale.
La Kuliscioff è stata la prima
nichilista che ho conosciuto. Le venni presentato da Benoit Malon, a Lugano,
quando il comunardo scriveva, se mi ricordo bene, la Revue Socialiste, l’organo
massimo, in allora, delle alte intelligenze dell’ emigrazione rivoluzionaria.
La Kuliscioff poteva essere
intorno ai venti anni. Mi parve una vergine slava. Con una testa da madonna,
con la carnagione bianca imporporata di salute, con le trecce lunghe, di un
biondo luminoso, per le spalle, mi faceva pensare alle donne graziose dei
preraffaelliti che in quei giorni ammiravo come uno narcotizzato dai loro
colori.
Malon parlava, e io mi perdevo
negli occhi della nichilista, inondati di quella malinconia che va al cuore
come una nota soave, al punto da farmi riprendere da una voce grave - una voce
che mi insegnava che un socialista non deve contemplare una signorina viva come
si farebbe con una figura sulla tela.
Seppi dopo molte cose di lei.
Della sua agitazione, dei suoi studi, della sua prigionia, del suo sfratto
dall’Italia, dei suoi amori, della Rivista Internazionale del Socialismo ch’essa
pubblicava con Costa, della nascita della sua Andreina, delle sue tribolazioni,
della sua laurea di dottora, della sua unione con Turati, della sua malattia
crudele, ma non la vidi più che nel ‘95, cooperatrice e collaboratrice della Critica
Sociale.
Nel ‘78 il mio pensiero si
genufletteva alla bellezza. Oggi, esso si inchina alla pensatrice.
Migliaia di donne, in mezzo agli
uragani della sua esistenza fortunosa, sarebbero naufragate cento volte. Anna
Kuliscioff è sempre rimasta in faccia alle procelle come una sfida. Dagli
avvenimenti che volevano inghiottirla, usciva sempre più forte, più saggia, più
preparata a sgomberare la società del passato per far largo all’avvenire.
Neppure la sua malattia
implacabile seppe vincerla. Di tanto in tanto si diffonde, tra gli amici, una
notizia funebre. La Kuliscioff sta male - la Kuliscioff ha poco da vivere - la
Kuliscioff è in fine di vita. E poi non se ne sa più nulla. Non si parla più
del suo male implacabile. La si rivede, con la sigaretta in bocca, al tavolino
dell’amministrazione o della redazione a lavorare come una negra. Avveniva, su
per giù, la stessa cosa con la Harriet Martineau - la grande giornalista
inglese del tempo chartista. Questa collaboratrice del Daily News era
così sicura di essere agli sgoccioli della vita, che in un momento disperato si
mise a scrivere la propria autobiografia, incominciando dall’ultimo capitolo
per paura di non finirla.
La Martineau ebbe tempo di
completarla e di lasciarla negli armadi dell’editore per venti anni. Per venti
anni i suoi amici si aspettavano, ogni mattina, di leggere nei giornali la fine
della giornalista che ha prodotto più di ogni altro uomo del suo
tempo4.
Nel ’98 è capitato alla
Kuliscioff quello che un secolo prima era capitato a madame Roland. Di vedersi
svegliata all’alba dagli agenti di pubblica sicurezza e di andarsene in
prigione nella vestaglia.
Nelle poche parole ch’essa
pronunciò dinanzi il Tribunale militare è tutta la donna che ho presentato.
Compendiano il suo cuore, la sua modestia e il suo carattere. Leggetele, vi
troverete la indifferenza tragica per tutto ciò che riguarda l’imputata - la
serenità della martire che crede, che persiste a credere, che crederà sempre
che nel socialismo sia la rigenerazione sociale.
«La mia azione nel partito
socialista era molto limitata e molto modesta. Se verranno fuori dei fatti a
mio carico io ne assumo fin d’ora la responsabilità. Io sono socialista da
quasi 25 anni, ma in Italia non feci nessuna propaganda, sia per una certa
delicatezza verso un paese presso il quale sono ospitata, sia per la paura di
essere sfrattata. Io sono poi invalida da un anno, e sono obbligata a rimanere
sempre in casa. In questa condizione come volete che io sia in caso di fare
propaganda?»
In letteratura io e la Kuliscioff
siamo divisi da un abisso. Ella, se l’ho capita bene, sente ancora
dell’affezione per la vita romanzesca intessuta dalla fantasia dell’autore e
drappeggiata nella fraseologia che non lascia esalare i cattivi odori
dell’ambiente. Io sono più rude. Spalanco tutte le porte, discendo in qualunque
fogna e mi servo del linguaggio dei personaggi che riproduco. Il mio
temperamento mi trascina ad essere sincero in ogni manifestazione della vita
senza preoccuparmi se farò smettere di leggere o chiudere il libro anche agli
amici che mi vogliono bene.
La ragione di questo nostro
dissenso letterario è che in fondo alla Kuliscioff è rimasto un po’ d’idealismo
e un po’ di misticismo. Ella dà la preferenza al libro che lascia vivere
qualche illusione e che non svergina o smaga brutalmente chi legge, e crede alla
immortalità dell’anima. Non mi meraviglierei domani di saperla spiritista.
Sul terreno delle questioni
economiche essa torreggia. E il futuro storico del socialismo italiano
lascerebbe un gran vuoto nel suo lavoro s’egli non ci dicesse l’influenza che
questa donna ha esercitato sul movimento di quest’ultimi venti anni.
Nel resto la Kuliscioff è donna
capace di grandi amori e di odii inestinguibili5.
|