Turati, De Andreis, Romussi,
Federici e Valera si sono riveduti, dopo tante noie, con dei baci, degli
abbracci e delle strette di mano, nel cellone esagonale B, numero 2, del
secondo raggio. Gli ultimi tre erano giunti dal reclusorio di Finalborgo e i
due deputati erano ancora sbalorditi dai dodici anni di reclusione che aveva
inflitto loro il Tribunale militare.
La loro vita era piuttosto
agitata. Si alzavano, alla mattina, mezz’ora prima dell’alba e ciascheduno
nella propria cella, dopo il caffè, si metteva al lavoro. Turati aveva sempre
un mucchio di lettere da scrivere e un numero infinito di Riviste da leggere;
Romussi, il quale sdrucciolava dal letto sempre di buon umore, era sommerso
nelle opere di Carlo Cattaneo; del quale stava facendo uno studio; De Andreis,
l’uomo che non pensava mai alla condanna, aveva del lavoro fin sopra i capelli.
Leggeva dei poeti inglesi, tedeschi e francesi - tre lingue ch’egli deve sapere
benissimo -, studiava o piuttosto correggeva il suo latino con lo Schultz alla
mano e dedicava parecchie ore a un lavoro di elettricità che deve avere veduto
la luce prima che gli abbiano spalancate le porte del reclusorio di
Alessandria. Federici si nutriva di storia e negli intervalli rileggeva l’opera
massima di Giuseppe Ferrari, del quale è sempre stato ammiratore fervente.
Valera studiava o fingeva di studiare il tedesco e passava attraverso la Social
England di Traill - volumi che incominciano col Conquistatore e finiscono
col regno della regina Vittoria, e dànno una pittura esatta della vita intima e
pubblica di un popolo che non ha più freni né per la penna del giornale e del
libro né per la lingua della piattaforma.
Alle otto antimeridiane,
si trovavano tutti nel raggio del passeggio - un raggio angustissimo - si
davano il buon giorno, si dicevano se avevano dormito bene o male - la
maggioranza pativa di insonnia - si comunicavano le notizie portate loro dalle
ultime visite e dalle ultime lettere e poi incominciavano la conversazione, la
quale era sempre interessante anche quando, per ridere, discutevano della
possibilità di una evasione, citando quelle storiche di Napoleone III, di
Rochefort, dei prigionieri politici della monarchia di luglio, di Krapotkine,
di Bakunine, ecc., ecc.
Ritornavano in cella a lavorare
per un paio d’ore e poi, alle undici, ciascheduno usciva con la sedia, col
tovagliolo, con la forchetta e col cucchiaio di legno e andava a far colazione
nel cellone turatiano.
La loro colazione alla forchetta
era modestissima. Quando non ordinavano il risotto alla certosina o la
polenta col fegato in comune, Romussi mangiava i tagliatelli al sugo e la
costoletta coll’osso, Turati un piatto di carne e due uova strapazzate, De
Andreis vi aggiungeva un po’ di gorgonzola, Federici faceva precedere al pollo
o al fegato la zuppa alla pavese e Valera alternava le uova al tegame con la
pasta al burro ben cotta.
La discussione si animava bevendo
qualche bicchiere di vino buono delle bottiglie che mandavano gli amici,
mangiando dei dolci che inviavano la mamma di Turati, o la signora di Federici
o di Romussi - e fumando le sigarette che trovavano un po’ dappertutto.
Qualche volta capitavano loro,
durante la giornata, dei cestelli di frutta fresca, dei panettoni che
obbligavano De Andreis a mettere sul tavolo la bottiglia di barolo che Turati
dimenticava nell’angolo.
Il deputato di Milano non voleva
mai bere. Egli diceva che gli astemi vivono più a lungo e sani come corni. Ma
si insisteva e lui beveva, versandoselo in gola come una medicina che gli
faceva stralunare gli occhi.
Il discorso eterno era la
Cassazione che li teneva sugli aghi. Ma facciano presto!
Mandateci in galera, dicevano,
ma, fate presto in nome di Dio!
Nessuno si lasciava cullare dalla
speranza che i magistrati dall’alto tribunale avrebbero accolto il ricorso.
Tuttavia, quando andava Majno a trovare qualcuno di loro, rinasceva la
discussione con un po’ di fede.
- Me l’ha detto lui adesso! Egli
si crede, legalmente, in una botte di ferro.
- Volete che Majno non sappia
quello che dice?
De Andreis faceva il suo solito
risolino e voltava le pagine del libro che aveva fra le mani. Per lui, erano
chiacchiere inutili. E si metteva a sviluppare il suo programma di condannato a
dodici anni con una indifferenza che faceva scappare la pazienza a Turati, il
quale non voleva assolutamente diventare un eroe della casa di pena.
Dodici anni sono lunghi, eterni,
sono la vita di un uomo! È un errore, aggiungeva il Turati, credere che si
possa lavorare serenamente in queste condizioni, quando si manca di tutto,
quando si deve vivere in un buco ove si soffoca d’estate e si gela d’inverno,
con venticinque centesimi al giorno!
Romussi metteva sul tappeto la
questione del viaggio. Egli, che si ricordava del vagone cellulare che lo aveva
condotto a Finalborgo con degli scotimenti di testa, vedeva avvicinarsi il
giorno della partenza con orrore.
Gli rincresceva di lasciarsi
chiudere in quella specie di cassa da morto. Ma non avrebbe ceduto. No, non
avrebbe ceduto! Se il Governo voleva disonorarsi, tanto peggio per lui. E
andava sotto la finestra a dare delle puntate di scarpa nel muro.
- No, no, e poi no! non mi
lascerò commuovere dalle lagrime di mia moglie e di mia figlia. Non voglio
andare nel vagone a mie spese per salvare Pelloux dall’infamia di trattare i
giornalisti come delinquenti comuni!
- Ci lasceremo tagliare i baffi e
indossare l’abito del recluso?
La Kuliscioff, che Turati vedeva
spesso nella stanza dei colloqui speciali, era determinata a sostenere una
battaglia in favore dell’abito del condannato politico. Essa aveva già detto al
capoguardia che nessuna guardiana avrebbe osato metterle le mani addosso per
farle indossare la veste abbominevole della reclusa.
Federici non ne era molto
interessato. Egli diceva che non si disonoravano i condannati politici
indossando la toletta del condannato comune. Sono quelli che la impongono loro
che si disonorano. La preoccupazione sua era piuttosto se si dovesse lasciare
sola la Kuliscioff a sostenere la lotta per l’abito. Valera ricordava che anche
i deputati irlandesi, ai tempi delle ultime leggi eccezionali, erano divisi su
questa questione. Il più accanito fu O’ Brien - l’ex direttore dell’United
Ireland. Egli la considerava una grande battaglia politica e la sostenne
non lasciandosi svestire che dopo lotte disperate tra lui e gli aguzzini di
Kilmainham - prigione di Dublino. Ci vollero otto carcerieri a strappargli la
giacca ed il panciotto. E i calzoni, otto giorni. Egli stette otto giorni in
cella, in camicia, senza coperta e senza pagliericcio d’inverno, a costo di
crepare di freddo e di starnuti.
Ma poi ha dovuto finire per
lasciarsi vestire come gli altri. Mandéville, il quale ha voluto imitarlo, è
uscito sconquassato dai pugni ed è morto. E gli altri deputati - Hooper, Sheehy
e Carew - che non hanno resistito come O’ Brien, dopo il pugilato in carcere,
non sono stati più loro. Anche al Parlamento non si son fatti più sentire che
come votanti. L’amico Michele Davitt, che è ora alla Camera dei Comuni ed è
stato alla servitù penale, come feniano, per sette anni, non dava alcuna
importanza agli sforzi di O’ Brien. Mi raccontava che era del tempo sciupato.
L’Irlanda aveva altro da fare che occuparsi dei calzoni di O’ Brien!
A mano a mano che si avvicinavano
alla decisione della Cassazione, i colloqui si succedevano ai colloqui in un
modo straordinario. Erano parenti, amici, compagni di lavoro che andavano al
Cellulare come in processione. Pei condannati, era uno strazio. Passavano da un
abbraccio all’altro commossi della commozione altrui. Toccava ai condannati far
coraggio ai visitatori! Il Turati risaliva qualche volta sfatto.
- È un supplizio. A momenti, mi
facevano piangere!
Romussi, più di una volta,
entrava nel cellone colle lagrime negli occhi.
Federici rientrava e si metteva a
passeggiare colle mani imbracciate. De Andreis invece si toglieva la giacca -
lui non stava mai che in maniche di camicia - la metteva con cura sul letto di
Turati, accendeva una sigaretta e ricominciava a mandare a memoria delle
declinazioni latine!
Il giorno in cui si seppe l’esito
della Cassazione mangiarono con maggior appetito senza punto discuterlo. Lo
sapevano anche prima. Il ricorso per loro non era stato che un modo per
guadagnar tempo e per aderire alla volontà dei parenti e degli amici che
volevano che si andasse fino in fondo. Il dolore comune erano le centocinquanta
lire!
- Queste sì, disse De Andreis,
che sono state sciupate!
- Rubate! dicevo io.
Dopo la parola della Cassazione
fu davvero una pena. Nessuno era riuscito a dir loro il giorno della partenza e
ogni sera si separavano coll’ambascia di non rivedersi più per del tempo.
- Ci manderanno assieme?
Turati aveva una pallida speranza
di rimanere al Cellulare con la compagna della sua vita o di andare a Pallanza,
dove la sua buona mamma avrebbe potuto andarlo a vedere di tanto in tanto senza
fare un lungo viaggio. Romussi aveva paura di ritornare a Finalborgo, un luogo
maledettamente umido, lontano da Milano, ove gli sarebbero ritornati i dolori
artritici. Federici era considerato il fortunato dei fortunati. Lui aveva già
scontato quattro mesi dei dodici che gli avevano appioppati e lo avrebbero
lasciato a Milano, senza dubbio, a far compagnia al Maffi, il quale era entrato
a fare il sesto nel cellone da pochi giorni. Forse non lo si sarebbe neppure
galeottizzato.
- Te fortunato! gli dicevano.
Di giorno in giorno, ne passarono
dodici. Dodici giorni di ansie crudeli. Facevano il pacco alla sera, dopo
essersi salutati con un abbraccio fraterno, e lo sfacevano alla mattina,
ricominciando il lavoro di suggestionarsi l’un l’altro.
L’ultima sera, disperati di non
partire mai e determinati a non pensare più alla partenza, si proposero di
mangiare tutti assieme il pollo alla cacciatora.
- Allora, disse Romussi, vedrete
che ci manderanno via. Il pollo alla cacciatora è sempre stato l’ordine di
partenza. In Castello abbiamo ordinato il pollo alla cacciatora e ci hanno
fatto partire prima di mangiarlo. Lo abbiamo comandato a Finalborgo e ci hanno
rinviati a Milano.
Alle due e mezzo della notte del
4 settembre il capoguardia andò nelle celle dei condannati politici a dir loro
di alzarsi in fretta che si doveva partire.
Alle tre si trovavano
nell’ottagono Romussi, De Andreis, Federici e Valera.
La cella di Turati era
illuminata.
Vennero ammanettati e
cellularizzati nell’omnibus che li aspettava.
Alla stazione centrale si fecero
prima uscire De Andreis e Romussi.
Quando discesero dal predellino
della vettura Valera e Federici, gli altri due erano scomparsi.
Turati lo si fece partire per
Pallanza mezz’ora dopo, in un omnibus piccolo, che lo aspettava nello stesso
cortile.
Egli si era portato via il
materiale per scrivere un libro sul socialismo italiano. Ma poi, ricordatosi
della sua idea fissa, che in galera non si scrive, smise l’idea per rimpinzarsi
di libri.
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