La «colomba» e il linguaggio dei
detenuti non si possono capire bene che dopo sei mesi di cella in una casa di
pena o in un carcere giudiziario, dove la voce degli inquilini è perseguitata
dalle punizioni che macerano lo stomaco e riducono in una tana sotterranea come
tanti animali.
Una volta che siete passati
attraverso questo periodo di segregazione completa, con le guardie di custodia
quasi sempre in agguato per sorprendervi in flagrante violazione del
regolamento, voi entrate nel periodo di adattamento e incominciate a imparare
tutte le astuzie che vi aiutano a modificare la disciplina antisociale
che impera nell’ambiente dei reclusi.
La preparazione alla vita
carceraria, nell’isolamento senza interruzione, vi ha resi più sensibili.
La caduta di un fazzoletto vi fa
trasalire come il chiavone che entri nella toppa. Ci sono momenti in cui vi
pare di poter sentire le pulsazioni del cuore degli individui che abitano ai fianchi
della vostra abitazione. L’udito vi si raffina in un modo che nessuna zampa di
gatto può avvicinarsi all’uscio a vostra insaputa. A furia di ascoltare le
pedate dell’individuo che vi passeggia sulla testa, siete in grado di
distinguere il suo stato d’animo, di indovinare quando il suo pensiero è
tranquillo o rassegnato o quand’esso è sottosopra o imperversa per il suo
cervello come una tempesta.
Un addio sommesso, uscito da una
di quelle buche che chiamano finestre, vi giunge all’orecchio con tutti i
larghi della voce squillante e sonora. L’alito diventa, per il recluso, un
suono; che va giù a remigarvi nell’anima come un notturno tenero ed elegiaco di
Chopin.
Dotati di questa percezione, voi
sentite nell’aria la voce di un sepolto come un’armonia lamentosa uscita da un
organo toccato da una mano raffinata. È lui che chiama in aiuto la vostra
«colomba», perché ha bisogno di sapere o di comunicarvi una notizia, perché i
crampi del suo stomaco lo obbligano a cercarvi un tozzo della vostra pagnotta,
perché ha una voglia matta di accendere la pipa o il sigaro, o perché desidera
farvi leggere un giornale che gli è riuscito di avere per la via della via.
La «colomba» è una funicella o un
attorcigliamento di stracci, di striscie di fazzoletti o di camicie, o di liste
di lana o di panno sfilacciate. Tutto è buono, purché si riesca a mettere
assieme una specie di corda lunga tre piani di Cellulare. Per coloro che sono
condannati in un carcere giudiziario e quindi senza biancheria propria, la
«colomba» diventa un problema che non può sciogliere che la pazienza o qualche
detenuto sotto processo capace di regalarvi il materiale per farla.
Con la pazienza potete rarefare
il tessuto della coperta - del letto, del pagliericcio, dell’asciugamano, del
fazzoletto e magari degli abiti che indossate.
Una volta che siete padroni di
una «colomba», voi potete mettervi tra i prigionieri, diremo così, agiati. Voi
possedete un tesoro che vi permette di comunicare con tutte le finestre della
facciata dell’edificio che vi ospita e delle facciate degli altri raggi
congiunti col vostro.
Mi spiego con un esempio.
Supponete che io occupi una cella
al primo piano di un ambiente di cento finestre. Le finestre sentono
dell’aguzzino. Vedute all’esterno, sembrano grandi buche da lettere incorniciate
in un rialzo di granito. All’interno, spaventano il novizio. Hanno l’inferriata
staccata dal pietrone che si protende in fuori e impedisce di vedere le altre
finestre e di agguantare la funicella che penzolasse dinanzi.
Io ho un solfanello e tutti gli
altri miei colleghi della mala vita vogliono fumare. Il solfanello del buon
prigioniero deve sempre essere di legno. Con uno spillo, del quale un vecchio
frequentatore di carcere deve essere munito, a costo di nasconderselo nella
pelle, lo apro in quattro.
Metto i tre quarti nel
ripostiglio più recondito della cella, e mi servo dell’altro per accendere un
po’ di lisca ravvolta in un mucchietto di filacce per impedirgli di divampare.
Con poco solfo sulla capocchia, sarei un cretino se mi dimenticassi dell’esperienza
dei miei colleghi. La quale è che non si deve mai passare allo sfregamento
senza prima avere strofinato ben bene un bottone di metallo o un chiodo delle
scarpe o un legno qualunque.
Sfregando leggermente sulla parte
calda o infocata voi potete scommettere che farete pipare tutti.
I miei amici del Cellulare sono
tutti pronti e non aspettano che il segnale, che può essere uno starnuto, o un
colpo di tosse, o anche una battuta di mano.
Accendo il mio virginia,
tossisco, metto fuori dalla finestra la scopetta e aspetto la fune dalla
finestra del terzo piano perpendicolare alla mia.
Tutto ciò avviene in un modo
rapidissimo. Alla estremità della «colomba» è un peso o un sasso nel sacchetto
o nel mucchietto di cenci. Lo tiro a me con la scopetta, vi lego il sacchetto
con la lisca che fumacchia internamente adagio adagio, sale, si ferma alla
seconda finestra ove è atteso, riprende la via e scompare nella cella di colui
che mi ha lasciato giù la fune.
Costui se ne serve e poi getta il
sacchetto attaccato alla fune sulla scopetta della cella a fianco.
È questo il movimento più
difficile della «colomba» ..Ma la mano abituata
vi riesce al primo colpo.
Il compagno che l’ha presa ne
stacca il sacchetto dalla funicella che viene ritirata, lo appende alla sua «colomba»,
se ne serve e lo lascia cadere dalla prima alla seconda finestra, ove sosta
come accenditoio e riprende la
discesa per fermarsi alla
terza finestra dove avviene la
stessa operazione di staccarlo
da una «colomba» per attaccarlo a un’altra e gettarlo sullo scopino
della finestra a fianco.
Mi sono servito dell’esempio più
difficile. Gli esempi facili sono con le finestre sopra o sotto o a fianco della
mia. Se non ci sono le piantelle (guardie) nel cortile che adocchiano, io sono
sicuro, con la «colomba», di soccorrere e di poter essere soccorso.
Il linguaggio dei detenuti
è di una semplicità alfabetica. Lo si impara in mezzo minuto. Ma non si può
servirsene che dopo avere esercitato i pugni sulla parete per dei mesi.
Le lettere dell’alfabeto del prigioniero sono
ventuno e ciascuna di esse corrisponde a un numero:
a b c
d e f g h
i l m
n o
1 2 3 4
5 6
7 8 9 10 11 12 13
p q r
s t u v z.
14 15 16 17 18 19 20
21.
Io e un altro siamo in due celle divise
da un muro. Non ci conosciamo, non ci siamo mai visti e forse non ci vedremo
mai. Ma l’uno desidera di sapere chi è l’altro e tutt’e due vogliamo narrarci
la storia dei nostri delitti.
Se io batto undici volte, voi
avrete capito che ho battuto una m, mentre se non do che tre colpi avrò segnato
il c.
Sono io che invito il compagno
dell’altra cella a fare conoscenza o a parlare con me.
Incomincio con una sfuriata di
pugni che pare traduca dell’allegria.
Egli mi risponde con altrettante battute
precipitate che rappresentano il saluto.
Lo interrogo con due colpi secchi
e serrati che vogliono dire: sei pronto?
Egli mi risponde con due battute
l’una dietro l’altra che equivalgono a «sono pronto, parla».
Supponete ch’io voglia
domandargli: - Chi sei?
Batto prima tre colpi, poi otto,
poi nove, poi diciassette, poi cinque, poi nove. Tra una lettera e l’altra c’è
una pausa per dar tempo al mio compagno di battere due colpi e farmi sapere che
ha capito.
In meno di dieci minuti io, colla
rapidità delle battute, posso fargli sapere chi sono, che cosa ho fatto, quante
volte sono stato condannato, se ho l’amante, se sono ammogliato, quando finirà
la mia sentenza e in che modo uscirò senza finirla.
La conversazione termina sempre
con una sfuriata di battute da una parte e dall’altra, come uno scambio di
saluti.
Mi sono spiegato?
Di sera, verso l’ora della
campana, le muraglie delle celle diventano i nostri pianoforti. I nostri pugni
sprigionano fughe commosse, preludii che vanno nel sangue come tessuti di
tenerezza, arie, duetti, finali che si diffondono nella grandiosità dell’ombra,
come una fusione di poesia e di musica.
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