Non si sa se la sua mano e la sua
testa c’entrino per qualche cosa nella sua sempiterna attività prodigiosa. Si
sa ch’egli è una macchinetta automobile che riempie un foglio dopo l’altro
tutte le volte che c’è da scrivere. Al suo tavolo di redazione voi vedete
sempre proti e compositori che aspettano originali.
Supponete ch’egli stia scrivendo
un articolo sulla esposizione artistica. Gli si dice che mancano ancora due
pagine a compilare il numero unico per i bagni. Consegna il manoscritto
sull’arte, corre difilato alla stazione balneare senza rivedere lo stampone per
riattaccare il filo interrotto e pochi minuti dopo riprende l’opuscolo sui
doveri dei cittadini ch’egli deve finire per domani, o la prefazione agli
scritti di Carlo Cattaneo che ha promesso fino da ieri l’altro.
Intanto che scrive, passa e
ripassa dinanzi il suo tavolo la popolazione che lavora intorno al giornale e
alla casa editoriale. Impiegati, fattorini, portieri, telegrafiste, traduttori,
personaggi d’amministrazione. Lo si interroga, lo si interrompe, gli si
annunciano visite, gli si rammentano nomi o fatti. Ci sono persone che hanno
bisogno di vedere il signor direttore, amici che vanno a trovare Romussi,
zuppificatori che vogliono infliggergli certe idee su date questioni, veterani
del partito che salgono per stringergli la mano e interessarsi della sua salute
o della salute della sua signora, archeologi che seggono sulla scranna che
trovano per conversare e buttargli, tra un periodo e l’altro, un monumento
storico che è stato scoperto, o che si minaccia di demolire o che stanno
illustrando. Nel momento in cui si crede stia per incominciare la quiete, entra
un filantropo a squadernargli un progetto che deve commuovere e vuotare le
tasche ai cittadini, o un segretario di qualche circolo o di qualche
associazione operaia che vuole assolutamente ch’egli tenga una conferenza sul
risorgimento del Comune o sulla battaglia di Legnano, o un disgraziato che è
ansioso di leggere stampato il manoscritto che gli ha portato da tante
settimane.
- E questo mio articolo, signor
Romussi!
- È sul «bancone». C’è tanta
materia da perdere la testa. Ecco, veda, buttiamo via dei telegrammi per
mancanza di spazio.
- Il signor Edoardo Sonzogno lo
chiama dabbasso.
Butta lì la penna, passa dagli
usci come una folata di vento che schiuda e chiuda fracassosamente, ritorna di
sopra stropicciandosi le mani o rosso fino alle tempie, e ricomincia l’articolo
su Crispi, parlando tra lui e il manoscritto, come se stesse dettandolo, spesso
posando la voce più fortemente su una sillaba che su l’altra.
- L’onorevole Crispi è una vera
sfortuna per l’Italia.
Questa vita quotidiana, capace di
ammazzare due o tre uomini, è per lui un passatempo. Il lavoro ponderoso,
quello nel quale è necessario ch’egli metta i suoi studi e la sua intelligenza,
lo fa a casa, mentre altri dormono o si divertono. Dalle sei alle dieci del
mattino o per parecchie ore del pomeriggio, egli non si occupa che di
archeologia, di storia, di letteratura: Scrive: Milano nei suoi monumenti,
Milano che sfugge, Petrarca a Milano, uno studio sul Trionfo della
libertà di Manzoni, Sant’Ambrogio o mette assieme un volume di
poesie dialettali e italiane che la musa satirica e bernesca produsse prima e
durante le barricate del 1848, eccetera, eccetera, eccetera, eccetera,
eccetera.
Se sono bene informato, egli è al
Secolo da ventinove o trent’anni. Vi è entrato in un modo curioso.
Moneta era alla ricerca di un redattore che avesse delle qualità giornalistiche
e una coltura che andasse al di là di quella dei soliti giornalisti
improvvisati. Un giorno trovò per la strada Leopoldo Marenco, il romantico del
palcoscenico d’allora.
- Senta, professore, non saprebbe
mica aiutarmi a scovare un giovane che abbia imparato qualche cosa e facilità
di scrivere?
Il professore di letteratura si
passò la mano sulla fronte.
- Eh, proprio, è difficile. Ne ho
conosciuto uno, quello sì... Era un diavolo che sapeva scrivere drammi,
novelle, brani di storia, biografie... La sua penna andava come il vento.
- Se è morto non parliamone.
- È vivo. Ma non so dove sia
andato a finire. Aspetti, deve essere a Pavia. Credo che studii legge.
Certamente non vorrà smettere per fare il giornalista.
In allora, per spiegare la frase
dell’autore della Celeste, non erano che gli scapigliati che si
compiacessero di prendere delle sbornie coll’inchiostro di redazione. Erano
giovani pieni di coraggio e anche d’ingegno o degli studiosi che volevano farsi
largo, ma irregolari nella vita e nel lavoro. Nessun direttore poteva contare
sul loro articolo pel numero di domani. Gli editori pagavano poco o
niente e i giornalisti di professione, come è naturale, non esistevano. Non
esisteva che la bohême chiassosa,
buontempona, nottivaga, capace di annunciare in prima colonna e in corpo dieci
che i redattori avevano orgiato e non potevano quindi scrivere l’articolo di
fondo o l’appendice drammatica!
Un anno dopo, Moneta rivide il
padre del Falconiere e lo pregò di procurargli un giovanotto che avesse
la stoffa del giornalista.
- Fra i miei scolari passati e
presenti non ne conosco uno. Non potrei suggerirle che quello dell’anno scorso.
Quello là ha tutte le attitudini per uno scrittore di giornale. Ha una penna
pronta, sollecita, che si piega a tutte le movenze di uno stile facile. Ha
letto molto. È una biblioteca ambulante.
- Me lo mandi, dunque!
- Vedrò di cercarne l’indirizzo.
Un giorno, in cui il pensiero di
Moneta era lontano le mille miglia dal redattore che gli doveva mandare il
Marenco, si sentì annunciare il dottor Carlo Romussi.
- Passi.
Fisicamente non gli fece una
grande impressione. Non gli si era presentato che un omino il quale non lasciava
supporre in sè tanta resistenza al lavoro. In due parole s’intesero. Il
Romussi faceva pratica d’avvocato ed accettava volentieri di passare a teatro
le serate come critico d’arte. Moneta voleva qualcosa di più di un critico
d’arte, ma per il momento si accontentava.
È inutile ch’io dica dei suoi
ideali drammatici. Tutti sanno che il Romussi in arte e in letteratura non è
stato figlio del suo tempo. Egli è entrato nel giornalismo come un vecchio che
sente e difende le glorie virtuose del passato. Assoluto come tutti quelli che
credono di avere il monopolio della verità, ha sempre dato addosso o ignorato
la gioventù che ha portato sul palcoscenico e nel romanzo o sulla tela o nel
marmo la vita con le sue grandezze e coi suoi orrori. Zola fu uno dei suoi
boicottati fin a ier l’altro. La Duse, per lui, è rimasta un’artistaccia di
provincia. Ibsen non gli uscirà mai dalla penna che come un degenerato del
teatro.
La fortuna del Secolo data
dalla guerra franco-germanica. Il Moneta simpatizzava per la Francia
antimperiale e la tiratura salì vertiginosamente dalle otto alle venticinque
mila. Era un trionfo giornalistico che bisognava conservare migliorando il
servizio. E Moneta assunse, come cronista a ottanta lire il mese, l’avvocato
Carlo Romussi.
Il suo primo articolo fece
scalpore. Gli altri giornali avevano narrato il giorno antecedente un grave
scandalo contro un patrizio milanese. Moneta, giudizioso e temperato, non volle
lasciar correre la notizia se non dopo essersi informato personalmente che
esisteva una querela e che c’erano i genitori i quali affermavano che la loro
figlia minorenne era stata deflorata da un duca. Romussi non fu che
l’esecutore. Avuto l’incarico dalla direzione, si mise al tavolino a fianco
della vecchia scrivania del direttore e scrisse più di una colonna colorita,
spigliata, nervosa, paragonando il violatore di fanciulle al Borgia crapulone.
Venuta la minaccia di una querela per diffamazione, e sinceratisi, con le
visite mediche, che la ragazza era virgo intacta, il Secolo trangugiò
uno di quei rospi vivi che non lasciano sopravvivere che la buona fede del
giornale.
La cronaca composta di note aride
e di fatterelli che facevano sbadigliare, divenne, nelle mani del Romussi, una
rubrica importantissima. A poco a poco del Broglio del Pungolo - il
quale passava per il cronista sommo della Risottopoli per le sue noterelle
patrie e per avere introdotto, tra i fatti cittadini, le notizie che la
questura comunicava a lui solo - non rimase più nulla. La cronaca si era
elevata, Romussi l’aveva intellettualizzata, allungata, drammatizzata e resa
indispensabile. Con lui i pennivendoli più sfacciati della cronaca cittadina
sono stati obbligati a divenire più prudenti o a frenare la loro ingordigia.
Egli è ora direttore del Secolo,
di quasi cento mila copie, ma io, a costo di farmi lapidare, persisto a
credere che sia in lui più l’uomo di lettere che il giornalista. Chi ha letto i
suoi lavori e specialmente Milano nei suoi monumenti - un’opera che
quando sarà terminata rappresenterà la sua gloria - non può venire che a questa
conclusione. Egli è un illustratore passionato. Charles Dickens è stato il
primo direttore del Daily-News a due mila ghinee l’anno. Ma anche i suoi
più grandi ammiratori hanno dovuto convenire che la sua tendenza era verso
l’immortale Pickwick. Romussi è sempre pronto a buttar giù, lì per lì,
qualunque soggetto. Ma il giornalismo moderno non si contenta della vitesse della
penna. Esso esige tutta l’attività di un uomo anche se quest’uomo non scrive
mai un articolo. I più grandi direttori dei più grandi giornali del mondo
scrivono pochissimo. John Dilane, l’autore, si può dire, del Times dei
nostri giorni, non fu mai a writer. Non scrisse che qualche articolo tra
un anno e l’altro. Ma i suoi biografi sono concordi nel dire che egli era il Times.
Carlo Romussi è pieno di cuore,
ha ridondanza di affetti ed è un amico, se vi dà veramente la sua amicizia,
prezioso. Egli è capace di dedicarvi l’esistenza. La sua intimità con
Cavallotti, la sua affezione per Cavallotti, la sua idolatria per Cavallotti
sono cose di ieri. Nessuna donna ha amato il poeta anticesareo coi trasporti
del direttore del Secolo. Per degli anni egli non ha veduto che cogli
occhi di lui, non ha palpitato che col cuore di lui e non ha avventato un’idea
politica che non fosse un idea cavallottiana. Ed è stato un errore. La
devozione di Pilorge per Chateaubriand mi commuove. L’uomo privato può darsi il
lusso dell’adorazione. L’uomo pubblico, il direttore di un giornale, non può
sposare un uomo con le sue virtù, con i suoi difetti, con le sue aspirazioni,
con le sue beghe personali. L’uomo è un individuo, il giornale è una
istituzione, è un veicolo che deve andare in casa di tutti come un informatore.
Cavallotti può odiare il socialismo e i socialisti fin che gli pare e piace. Il
Secolo non può, non deve seguirlo. E con Romussi, ipnotizzato da
Cavallotti, il Secolo ha ignorato per degli anni il socialismo e i
socialisti. Non ne ha più parlato. Per lui non esistevano o non erano mai
esistiti o erano morti. Boicottare un partito per delle bizze personali vuol
dire rendere un cattivo servizio ai lettori che pagano per essere informati di
tutti gli avvenimenti e alla amministrazione che pubblica il giornale per
arricchire il suo editore o dare grossi dividendi agli azionisti. Boicottate un
uomo pubblico o un partito o una notizia e voi sopprimerete dei lettori. Il
giornale, che non è superiore ai rancori personali, che non sa essere
imparziale cogli amici e coi nemici, che ha delle antipatie e delle simpatie,
che omette questo fatto ed esclude quest’altro, perde il diritto a questo nome.
Diventa l’organo di Tizio o di Caio, ma non è più un giornale nel significato
professionale.
Carlo Romussi è nato a Milano il
10 dicembre 1847.
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